Perché la memoria si faccia futuro

Il 27 gennaio dello scorso anno celebrai il Giorno della Memoria in un modo discreto e irripetibile, ricevendo una medaglia in onore di mio padre internato militare in un lager nazista vicino Vienna. Fu uno dei tanti protagonisti di quella che è stata definita l’altra Resistenza.

Da questi sacrifici e da queste scelte nacquero la Repubblica e la Costituzione e l’Italia riconquistò il diritto a stare con dignità nel consesso delle Nazioni, una dignità violata e perduta durante il ventennio fascista che, ad iniziare dall’Italia, infettò l’Europa e condusse ad una guerra feroce e distruttiva.

L’intelligenza e l’unità delle forze antifasciste riconsegnò al nostro Paese la necessaria autonomia e riprese il filo della libertà, dell’uguaglianza e della laicità presenti nelle più profonde ispirazioni del Risorgimento. Il tentativo, in pieno corso, di indebolire fino a minare questo «mito» fondativo e di veicolare una narrazione afascista e aantifascista è più pericoloso delle grottesche manifestazioni nostalgiche.

Deve essere invece pienamente rivendicato l’appassionato, unitario e lungimirante lavoro dei costituenti che consegnò agli italiani una grande Carta dei diritti e dei doveri, politici, civili e sociali, la quale è ancor oggi la bussola per non perdere la strada della libertà, della democrazia e del progresso. L’unica via per sentirci Patria nel senso nobile che a questo termine danno nelle loro lettere i condannati a morte della Resistenza.

Italia una e indivisibile, non quella sbrindellata delle autonomie differenziate che finirebbe per liquidare l’universalismo dei diritti di cittadinanza; Repubblica delle autonomie che crescono insieme e tendono a superare ritardi e disuguaglianze storicamente accumulatesi e a garantire la rimozione degli ostacoli che impediscono la realizzazione di un’autentica giustizia sociale (art. 3 Costituzione); Paese aperto alla costruzione di un’Europa capace di divenire un soggetto forte nel mondo grande e difficile, auspicabilmente multipolare, nel quale nessuna entità nazionale del Vecchio Continente può davvero avere un peso e una voce.

Certo un’Europa sociale e democratica come fu immaginata a Ventotene, non un lontano apparato tecnocratico che sovrascrive alle Costituzioni moderne i dogmi ordoliberisti, come ha acutamente sottolineato su queste pagine Stefano Fassina. Inoltre, il combinato disposto di sovranismo retorico, autonomia differenziata e centralismo politico con l’elezione diretta del capo del governo secondo lo scassellato disegno della maggioranza attuale, come si è cercato di dimostrare in un precedente editoriale, non può che condurre a un mostro istituzionale figlio di spinte contrapposte. L’idea che rassismo locale e cesarismo centrale possano governare una società complessa non sta in piedi. Perciò è pericoloso e va combattuta con un diverso progetto di difesa e di sviluppo dei principi costituzionali.

Chi può farlo? Sarebbe un lungo discorso che continueremo ad affrontare. Per adesso sia consentito dire che, contro vecchissimi nuovismi, non si possono affatto dare per essiccate le vene profonde del popolarismo, del socialismo, dell’ambientalismo. Magari riletti secondo il punto di vista femminile e della pace.

Tornando, per concludere, all’inizio, come non vedere che questo 27 gennaio, questa giornata della memoria, si è collocata quest’anno in un contesto diverso, dentro una situazione che l’anno scorso non era prevedibile e che comunque nessuno aveva previsto.

C’è stato quell’orribile carneficina del 7 ottobre. Il criminale attacco di Hamas ad alcuni Kibbuzim israeliani, peraltro caratterizzati spesso da un’attiva solidarietà con le popolazioni palestinesi. Quello scannatoio non può essere dimenticato, somiglia davvero alle pagine peggiori della Shoah. Ma né la memoria dello sterminio, né l’azione terroristica di Hamas possono impedire di esprimere un giudizio forte e chiaro, non direi sul genocidio, ma certo sui crimini di guerra che il governo israeliano sta perpetrando a Gaza. Appare drammaticamente evidente lo schema cinico di Netanyahu: più guerra più permanenza al potere; con la conseguenza di un crescente isolamento internazionale, di un maggior pericolo per gli ostaggi, di una ripresa di ondate antisemite, di un indebolimento delle posizioni più moderate nel mondo palestinese. Chiedere il cessate il fuoco e riprendere il difficile, faticoso ma necessario percorso della convivenza tra israeliani e palestinesi, nella prospettiva di garantire l’esistenza dello Stato di Israele e la costruzione dello Stato palestinese è la via da seguire dopo aver toccato il fondo. La presenza di questi due Stati, l’uno scudo dell’altro, contro le tante tentazioni egemoniche in quell’area tormentata non ha realistiche alternative che non siano catastrofiche. Le difficoltà di questo percorso sono più che evidenti ma questo è un motivo in più perché il movimento pacifista e la comunità internazionale, a cominciare dall’afona Europa, spendano ogni energia. Non si tratta di mettere un’attenzione particolare perché siamo in terra santa, anzi sarà il caso di abbandonare queste definizioni idolatriche che finiscono per aggiungere pesanti fardelli alla condizione delle donne e degli uomini di quei territori. Insomma, o la gloria di Dio è l’uomo vivente o è meglio liberarsi delle immagini del divino che legittimano divisioni e violenze. La memoria, che dobbiamo custodire, non deve divenire una gabbia ma un luogo dell’anima a partire dal quale costruire un futuro migliore. Essa è feconda quando dà vita ad identità aperte. Nel colmo della tragedia europea maturò il sogno degli Stati uniti d’Europa e, in quella direzione, sia pure ancora troppo poco, si è fatto qualche passo avanti. Così può ancora avvenire in Israele e Palestina, che dal buco nero della violenza e dell’odio possa risorgere quella via della convivenza e della cooperazione per la quale, in diversi momenti, gli spiriti migliori dell’una e dell’altra parte hanno lavorato.