L’anno che sta arrivando

Che cosa augurarci per il nuovo anno? Intanto noi, questa squadra rocchigiana, di redattori, di collaboratori, di lettori che sentono in queste pagine uno spazio di libertà, con il quale interagire?

Certo, prima di tutto, di godere di una buona salute e di un po’ di serenità ognuna ed ognuno.

Come giornale possiamo augurarci di cogliere qualcosa sotto la pelle della realtà, essere attenti a vedere quello che non si nota, a scrutare i segni dei tempi oltre le nubi estese che a volte li manifestano, altre volte li occultano, a mettere criticamente la testa sulla complessità della società e della vita delle chiese, senza semplificazioni accattivanti e bugiarde.

L’anno scorso il paesaggio che abbiamo perlustrato ci ha posto davanti agli occhi cose che non avremmo voluto vedere: il dilagare di logiche di guerra e di dominio, l’aggravarsi della salute della terra e dei terrestri, il divaricarsi crescente della forbice tra grandi ricchezze ed estese povertà, lo sbriciolarsi di quel che rimane del tessuto sociale e una polverizzazione individualistica che porta a quel sonnambulismo di cui parla il rapporto Censis uscito qualche giorno fa.

Certo qua e là c’è anche qualche segno di speranza, qualche gesto di gratuità, la controtendenza di chi trova il proprio benessere nell’aiutare quanti sono in difficoltà, i giovani che si mobilitano per la difesa delle condizioni di vita sul pianeta, le donne e gli uomini che tentano di uscire insieme dalla scia lunga e sovente violenta del maschilismo e di liberare la potenza relazionale del femminile.

Però come non vedere una politica debole, subalterna e marginale, che strilla per coprire la propria inconsistenza progettuale, in una situazione nella quale sbiadiscono le distanze ed ogni caratterizzazione forte sembra destinata all’irrisione di un realismo triste e apparentemente ineluttabile. Una situazione nella quale tutte le decisioni fondamentali sembrano essere obbligate da una necessità fatale e pertanto appare inutile e frustrante militare per un fine, una causa, un valore.

Un’Europa del tutto marginale dentro un Occidente messo in discussione da gran parte del resto del mondo. Dopo il suicidio delle due grandi guerre e la mancanza di coraggio di ritrovare un proprio spazio con politiche di pace e di cooperazione ad Est e a Sud, l’Europa sembra aver smarrito la bussola della grande intuizione di Spinelli, di Langer e di molti altri che avevano ben compreso come solo un soggetto politico europeo unito sulle grandi scelte economiche, di modello sociale e di difesa comune, potesse essere uno dei protagonisti di un nuovo ordine mondiale multipolare.

La Chiesa cattolica, pur annaspando su molti terreni che riguardano il modo di vivere la fede in un mondo di donne e uomini profondamente cambiato e lenta nel produrre i mutamenti necessari perché ogni battezzato ed ogni battezzata possano essere a pieno annunciatori del Vangelo, mantiene tuttavia una voce ferma ed autorevole contro il ritorno su grande scala di guerre e distruzioni, ma soprattutto contro il riaffacciarsi e il rilegittimarsi della logica per cui, nelle controversie internazionali, alla guerra non vi è alternativa e che, se mai, può essere prevenuta solo attraverso un globale e immane riarmo che succhia una enorme mole di risorse e rende potentissimo il gigantesco sistema militare-industriale che le sta dietro. E che impedisce di liberare risorse per la realizzazione, la difesa e lo sviluppo dei diritti sociali in gran parte del pianeta e ormai anche nella nostra privilegiata parte di mondo.

Al di là delle statistiche dei polli di Trilussa, come non vedere che il lavoro è più precario e più povero? Che non esiste più l’universalità della protezione e della cura della salute? Che vi è una rigerarchizzazione classista dell’istruzione? E non è solo responsabilità della Destra ma anche della resa complessiva al mito liberale. Non parliamo poi delle politiche di salvaguardia dell’equilibrio ecologico, sui cui vulnera ormai più nessuno obietta. Però la Cop 28 a Dubai è finita nel peggiore dei modi.

Questi sono alcuni dei temi di fondo su cui concentreremo la nostra attenzione in questo 2024.

Avvertiamo il rischio della rassegnazione, di un ripiegamento individualista, di fughe narcotizzanti o di estremismi consolatori. Prodotti di un clima di paura per il futuro, alimentato per incassare consenso o alla supina accettazione dell’esistente o peggio a risposte sempre più lontane da percorsi democratici.

È possibile rispondere alla politica della paura con una politica della speranza? Noi riteniamo che sia doveroso, per dei cristiani anche articolo di fede e virtù teologale.

Organizzare la speranza non è facile. Bisogna lavorare a definire un pensiero e delle pratiche alternative e realistiche che stabiliscano nuove compatibilità sociali e la massa critica capace di imporle, di modo che a governare la società non sia l’anarchia del capitale e i grandi interessi che controllano l’intera sovrastruttura sociale. In Italia è sempre più urgente federare le forze costituzionalmente orientate con scelte, anche di leadership, che riannodino il rapporto politico e sentimentale con il mondo del lavoro, con i ceti meno difesi, con le generazioni più giovani.

La nostra rivista vuole essere una voce che aiuta a leggere il presente e pensare il futuro. Con i toni giusti della ragione appassionata, della misura che rifugge dal mercato delle demagogie correnti, con la radicalità che ci è consentita dal sostegno delle nostre lettrici e dei nostri lettori e che fanno di essa un giornale libero e liberamente fedele solo all’ideale di una società solidale che disegni se stessa a partire da coloro che hanno meno voce, potere e diritti.