E se invece…

E se invece si provasse a rompere lo schema? A mettere in discussione il paradigma secondo il quale c’è una sola strada per difendersi: armarsi. E se anche il nemico si arma? Armarsi di più. Una logica stringente, che non ammette repliche se non si vuol correre il rischio di esser definiti ingenui se va bene, o amici del nemico se va male, o imbelli e codardi se va peggio.

Eppure, il lungo corso della storia ci racconta che di guerra in guerra non si è mai approdati, se non all’ombra de’ cipressi e dentro l’urne, a realizzare il sogno kantiano (quindi ad occhi ben aperti) della pace perpetua. Le stesse lotte per la libertà e la giustizia sociale sono passate, perlopiù, attraverso il ricorso alla violenza. E davvero la storia è stata quel banco di macellaio di cui parlava con gelido realismo Hegel. Così è stato soprattutto per le guerre coloniali e imperialistiche.

Anche il progressivo affermarsi del diritto contro l’arbitrio, la conquista della democrazia che, almeno formalmente, ci rende tutti uguali (prima solo i liberi, poi tutti i maschi, poi, appena ieri, uomini e donne); l’affermarsi dell’istanza socialista che ha, almeno in una parte di mondo, posto e imposto il tema della sostanziale uguaglianza degli umani senza la quale anche la libertà finisce per svuotarsi, hanno dovuto piegare le resistenze dei vecchi regimi.

Tutti questi passaggi di umanizzazione sono stati attraversati da contraddizioni, fallimenti, ritorni indietro, nuovi inizi. Davvero a volte per fallire meno o per fallire meglio. Intendiamoci ogni passo compiuto in direzione della libertà e della giustizia è valso la pena. Basti citare la nostra Resistenza al nazifascismo, con e senza armi, fondamento morale della Repubblica.

Possiamo dire che lungo questo tormentato percorso c’è un’eccezione profetica: il processo di emancipazione e liberazione delle donne, peraltro ancora barbaramente o velatamente contrastato in gran parte del mondo. Questo processo può insegnarci che ci può essere una strada altra per affermare i propri diritti e la propria libertà: resistere e avanzare con perseveranza e determinazione in modo nonviolento. Ci è capitato di definire questa scelta la prossima rivoluzione. La grande questione è come dare efficacia e forza a questa scelta. Ghandi in copertina, nell’anniversario del suo assassinio (30 gennaio 1948), sta a dire che questa via non è solo testimoniale ma può condurre a risultati concreti e universali. Può farsi politica, può essere parte di un nuovo realismo.

Forse per i cristiani dovrebbe essere financo un dovere quello di proporla e di esercitarla. Gesù stesso indicò questa via ai suoi discepoli non solo in termini etici ma anche, appunto, con sano realismo. Infatti, pur sembrando un paradosso, la nonviolenza può essere lo strumento più adatto per chi si trova in condizioni di inferiorità sul terreno del potere ingiusto e delle armi che ne proteggono l’esercizio.

Forse oggi, nella dismisura crescente tra chi possiede il monopolio degli strumenti di offesa e di repressione e coloro che a mani nude reclamano vita, libertà e diritti, fare dell’autorità di coloro che soffrono per la guerra, la discriminazione, la fame, la malattia, il luogo da cui pensare una radicale trasformazione sociale nella direzione della libertà e dell’uguaglianza, è la strada da imboccare.

Certo una strada difficile perché richiede una visione e una pratica nuovi, forme di lotta in gran parte da inventare che ci coinvolgano come produttori, come consumatori, come cittadini. Lungo questa via niente delle memorie di liberazione del passato va gettato via. Anzi è lì che affonda la radice ideale di ogni nuovo percorso.

In questi giorni Papa Francesco ha ricevuto i rappresentanti di Dialop (Trasversal Dialogue Project), un’associazione per il dialogo tra socialisti e cristiani, che va dalla Sinistra europea ai focolarini. Nel suo saluto ha raccomandato tre atteggiamenti: il coraggio di rompere gli schemi; l’attenzione ai deboli, agli scartati e agli sfruttati; la lotta alla corruzione, agli abusi, all’illegalità.

Avere il coraggio di non considerare chiuso il discorso sul vincolo della persona e della comunità rispetto alla produzione di beni, all’organizzazione del lavoro e alla sua dignità, alla redistribuzione della ricchezza, alla salute dell’ecosistema, significa immaginare forme inedite di impegno civile politico ed anche, se ci riusciamo, di testimonianza evangelica.