La pelle dura della speranza

Ma si può sperare ancora? Se lo chiedono in un piccolo Monastero umbro, avviandosi a vivere il tempo di Avvento e di Natale. Che cosa possiamo sperare? Si domandava Immanuel Kant a ridosso del secolo lungo, quello della scienza e del progresso. Ma il filosofo dell’Illuminismo che vedeva bene anche i limiti del lume, si poneva questa domanda in riferimento all’amara constatazione che in questa terra chi compie il bene è spesso sconfitto, deriso, umiliato. E a giusta ragione ci è quindi lecito sperare nell’esistenza di Dio che, alla fine, rimetta insieme rettitudine e felicità.

È stato un anno difficile in cui si è venuta accrescendo una rinnovata logica di potenza. L’idea che solo la forza possa regolare la vita collettiva e quella individuale. La guerra e il grande rilancio delle spese militari (fonte diretta e indiretta di morte e di povertà); la disattenzione o anche il negazionismo sulle sempre più evidenti ferite all’ecosistema e l’irresponsabilità verso i diritti delle generazioni future; l’insopportabile bollettino dei femminicidi da parte di chi non riesce a tollerare la libertà delle donne. Tutto questo ci parla del tentativo di un ritorno a una logica di dominio pericolosa e miope e ci ricorda che umani non si nasce ma si diventa e che sempre incombe il rischio di un ritorno all’homo homini lupus.

O a un suo superamento che cerchi la sicurezza nella negazione o nella riduzione della libertà, affidandosi a uomini o sistemi provvidenziali. Questo è il brodo di coltura di tutti i populismi senza popolo, i sovranismi senza sovranità, i maschilismi senza dignità.

Noi di Rocca speriamo di aver dato su questi argomenti tante chiavi di lettura e di riflessione critica. Questo è comunque sempre il nostro obiettivo e la nostra passione. Anche nel Natale di quest’anno, dentro lo sferragliare di armi vecchie e nuove, noi cristiani, ormai «piccolo resto», ricordiamo la venuta del Signore, il disarmato per eccellenza, il bambino che si affida alle nostre mani, l’uomo che si lascia inchiodare per essere per sempre vicino ai sofferenti. Il testimone di un amore più forte della morte. Su questo Messia sconfitto si fonda la speranza di quei monaci e di ogni cristiano. Un capovolgimento della «logica del mondo» tanto da essere presente nel malato, nel carcerato, nel povero, nelle vite spezzate, solo servendo le quali lo si incontra anche non riconoscendolo (Mt 25,31-46). Partire dall’autorità di coloro che soffrono per costruire percorsi di giustizia e attendere il ritorno del Signore, mettendo la speranza nella sua promessa. Una tenue, tenace e necessaria lanterna, per alludere alla splendida poesia che ci ha donato don Angelo Casati e che è il nostro augurio per le lettrici e i lettori di Rocca.

In un lontano editoriale parlammo dell’ultima rivoluzione. Si alludeva a quella gigantesca, molecolare, nonviolenta (in questo radicalmente diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta) rivoluzione costituita dall’emancipazione e dalla libertà femminile.

Il crudele assassinio di Giulia ci ha ridetto due cose: la resistenza ormai disperata ma ancora letale del maschilismo, in alcuni casi il suo rinculo belluino, ma anche l’inarrestabilità di un processo di liberazione che può aiutare tutti a diventare più umani, a far emergere il lato femminile del mondo come una ricchezza universale. E questo chiama alla responsabilità ognuno. Tutti veniamo, abbiamo vissuto e viviamo nell’ombra lunga di un millenario paradigma patriarcale che peraltro, in molte parti del mondo, è ancora esplicito e legittimato.

Anche all’orecchio della Chiesa dovrebbe arrivare il suono di un campanello: anche de te fabula narratur. Certo Maria la madre, Maria l’amica del Signore, le forti figure di comunità che compaiono negli Atti e poi scompaiono, Chiara, le tre grandi Teresa, Caterina, Angela, Magdaline e tante, tante altre hanno trovato nella Chiesa uno spazio di libertà, hanno alzato la voce, opportune et importune. Ma come rimuovere una lunga storia di marginalità, di esaltazione del femminile subalterno e appendicolare. Resta più che mai aperta, davvero sinodale, anzi sinodante, l’esigenza di dare una spallata all’impalcatura patriarcale del clericalismo e aprire nei ministeri, nei servizi (poteri!), nella teologia, nella rilettura biblica con altri occhi, ad una primavera femminile che rompa la separatezza dei cosiddetti principi petrino e mariano e li metta in una feconda relazione. Non sarebbe solo un servizio alla Chiesa ma un formidabile segno di portata catholica.