Per una chiesa scalza

Nello scorso mese di ottobre si sono spalancate le porte sulla prima sessione del Sinodo dei Vescovi (XVI Assemblea) convocato per rinnovare il volto della comunità cristiana proprio in senso sinodale. Si trattava di delineare i tratti di una chiesa in grado di mettersi in ascolto del mondo nel quale peraltro vive e opera: abitare il nuovo con stile di dialogo e di servizio. Una chiesa in grado, cioè, di indossare il grembiule in maniera permanente come tratto identitario e nello stesso tempo riesca a comunicare e farsi comprendere.

Ancora di più: sappia intercettare le istanze più autentiche che provengono dal cuore delle donne e degli uomini di questo tempo che è tempo di cambiamenti rapidi e radicali. Abbiamo imparato a ripetere la felice espressione di Papa Francesco per cui ci troviamo nel guado di un «cambiamento d’epoca e non semplicemente in un’epoca di cambiamento» ma dobbiamo ammettere che non riusciamo ancora a decifrare questo tempo, siamo troppo ancorati ai modelli del passato e non riusciamo a cambiare linguaggi, strumenti… «grembiuli». Nella Relazione di sintesi di quella prima sessione si trovano alcuni spunti che abbiamo bisogno di metabolizzare nelle chiese locali anche se da più parti è stata denunciata un’aspettativa di cambiamento più sostanziale e concreta. Nella pima parte che tratteggia il volto di una chiesa sinodale sono contenute alcune sfide che vale la pena rilanciare perché diventino maggiormente patrimonio comune. Si legge: «Le Chiese vivono in contesti sempre più multiculturali e multireligiosi, in cui è essenziale l’impegno nel dialogo tra religione e cultura insieme agli altri gruppi che costituiscono la società. Vivere la missione della Chiesa in questi contesti richiede uno stile di presenza, servizio e annuncio che cerca di costruire ponti, coltivare la comprensione reciproca e impegnarsi in un’evangelizzazione che accompagna, ascolta e impara.

Più volte nell’Assemblea è risuonata l’immagine di ‘togliersi le scarpe’ per andare all’incontro con l’altro da pari a pari, come segno di umiltà e rispetto per uno spazio sacro». La fissità dei nostri linguaggi liturgici, delle nostre prassi pastorali, delle distrazioni o del disinteresse di fronte alle sfide e alle provocazioni delle nuove istanze culturali, richiedono uno sforzo che fatica a trovare pastori sensibili e competenti e si infrange su un laicato modellato dal modello clericale. Peraltro la chiesa romanocentrica e curiale troppo spesso ha ostacolato e impedito la creatività che avrebbe potuto dare corpo alla necessaria apertura allo Spirito. Lo ammettono gli stessi padri sinodali: «Occorre coltivare la sensibilità per la ricchezza della varietà delle espressioni dell’essere Chiesa. Questo richiede la ricerca di un equilibrio dinamico tra la dimensione della Chiesa nel suo insieme e il suo radicamento locale, tra il rispetto del vincolo dell’unità della Chiesa e il rischio dell’omogeneizzazione che soffoca la varietà. I significati e le priorità variano tra contesti diversi e questo richiede di identificare e promuovere forme di decentramento e istanze intermedie ». Insomma la sensazione che ne deriva è che siamo solo all’inizio e il cammino è tutto in salita.