Femminile plurale
Cani e/o figli?
Nella difficile alternativa che sembra incombere su di noi ogni volta che si accende il dibattito sul parallelismo tra animali domestici e/o bambini, occorre anzitutto capire se il parallelismo che viene creato e criticato non nasconda assunti acritici e se magari non dovrebbe farci spostare la critica ad un livello più strutturale.
Il primo dato evidente è che in questa nostra civiltà tecnocratica e capitalistica cresce un disagio interiore e relazionale. Crescono sacche di solitudini, si sfalda il legame sociale e affettivo per ragioni non imputabili soltanto a scelte individuali, ma anche alle strutture economiche nei quali i singoli sono inseriti. I ritmi e le condizioni di vita che il lavoro e le metropoli hanno imposto alle relazioni, portano il singolo a un malessere che prende varie forme: senso di solitudine, mancanza di visione chiara del futuro, ansia da performatività, violenze domestiche, convivenza strutturale con l’angoscia, l’idea che una vita umana possa essere anche considerata come materiale di scarto (specie quelle in condizioni di povertà).
In questo disagio relazionale umano, certamente si sente il bisogno di compensare un certo anaffettivismo diffuso e gli animali vengono in nostro soccorso. La loro prontezza alla vitalità, alla relazione, alla gioia, la disponibilità ad offrirci relazione e la loro insaziabilità alla compagnia, sono una vera medicina per la nostra epoca di passioni tristi. Non si parla in questo caso di surrogati ma proprio di una terapia: la pet therapy.
Il secondo dato è che nonostante il mondo tecnologico-industriale ci abbia imposto una trasformazione radicale dei vincoli relazionali, affettivi e amorosi, il nostro linguaggio e i nostri modelli relazionali sono ancora quelli della famiglia tradizionale contadina. In tale schema, le relazioni affettive sono pensate al pari di relazioni di possesso delle cose (la “mia” donna) subendo lo stesso destino della proprietà privata che non può e non deve essere di nessun altro. Si tratta di una visione asfittica della vita affettiva e sentimentale che concepisce l’affetto solo con il codice della famiglia. In questa costellazione le donne ovviamente non saranno pensate mai al di fuori del loro ruolo di madri. Così, siano esse partner, lavoratrici, professioniste o semplici cittadine, la maternità dovrà costituire la loro primaria caratteristica. La maternità viene ad assorbire tutte le relazioni di cura e così abbiamo ridotto la cura alla maternità dopo aver ristretto la maternità all’unica azione creativa di cui una donna sarebbe capace. Non sorprende allora se, parlando degli animali da compagnia che entrano a far parte delle nostre case, si sia incapaci di avere categorie diverse da quelle della famiglia tradizionale e che gli esseri viventi di cui ci prendiamo cura non possono essere visti che come “bambini”.
Aut aut?
Nel parallelismo tra cani e figli che spesso ci ritroviamo a fare, incide quindi ancora una mentalità arcaica e rigida delle relazioni di cura, per la quale le relazioni affettive possono essere solo quelle ben codificate dai ruoli familiari tradizionali. Perfino per Dio.
Ci ricadiamo tutti in continuazione e lo stesso Papa che ha scritto cose entusiasmanti nell’enciclica Laudato sì circa la nostra relazione alla casa comune, è tornato a riferirsi agli animali supponendo un tale acritico collegamento: si “preferirebbero” cani ai figli, ci sarebbero più cucce che culle, piuttosto che occuparsi di un cane occorrerebbe pensare ai bambini che muoiono di fame. Ci sono molti presupposti non detti e forse falsi in queste affermazioni: che si debba scegliere con un aut-aut l’oggetto della nostra affezione; che prendersi cura di qualcosa implichi toglierne ad altri (in particolare ai bambini); che una donna debba scegliere sempre tra essere madre e altro (mi chiedo se lo stesso immediato collegamento verrebbe in mente qualora il soggetto fosse un maschio); che nelle case e nei nostri affetti ci sia spazio solo per mariti e figli.
Sembra banale dirlo, ma è bene ricordare che ci sono coppie che hanno figli numerosi e nonostante tutto hanno anche animali da compagnia. Ci sono persone single o anche coppie che non hanno mai voluto figli non sentendosi vocati (perché serve una vera vocazione alla genitorialità) e che però hanno in casa animali d’affezione o si curano delle piante. Ci sono persone che si sentono invece sole e deluse, affettivamente affamate anche dentro famiglie chiassose e numerose. A queste credo che un animale da compagnia potrebbe fare un gran bene: le aiuterebbe infatti a mantenere la fiducia verso la vita e a rieducare gli affetti.
Un antropocentrismo esagerato
Un terzo livello della questione mi appare essere una visione ancora troppo antropocentrica del nostro essere al mondo. Sembra che ci dia particolarmente fastidio che gli esseri umani possano essere considerati meno degni dei nostri riguardi rispetto agli animali. Che non si dica mai che un animale sia meglio di un umano!
Bisogna riconoscere che in certi casi gli animali da compagnia trovano in certe persone una accoglienza e dei trattamenti di favore che le stesse non sono disposte a riconoscere ai loro consimili e potrebbe essere un problema. È vero anche che certi umani possono rilevare tratti che certi animali non arriverebbero mai a sviluppare perché, come diceva Dostoevskij, gli animali sono “senza peccato”.
«Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa e lasci la tua orma putrida dietro di te; purtroppo questo è vero per quasi tutti noi». F. Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”.
Ma forse è proprio questo che dovremmo monitorare, il trattamento che riserviamo ai nostri compagni in umanità, alle nostre città, alla Terra.
Certamente nel campo della cura dei nostri animali ci sono delle degenerazioni, come del resto ci sono modi di relazione con noi stessi e con gli altri – siano essi i nostri partner, i nostri genitori, i nostri fratelli e sorelle o i nostri figli – assolutamente controproducenti e tossici.
Addestratori e addestrati
Va detto che noi esseri umani certamente imponiamo modi “umani” al mondo, compreso quello delle bestiole, ma è una questione dalla quale non possiamo uscire facilmente. D’altra parte, da teologa e padrona di animali da compagnia, ho imparato che gli animali non hanno solo un atteggiamento passivo nei nostri confronti, ma sono anche i nostri maestri, ci addestrano: ci insegnano come tornare alla casa comune, alla terra, ai ritmi delle stagioni, a quelli dell’alternanza naturale giorno/notte; in un mondo che si smaterializza sempre più, che ci chiede di indossare maschere, di accumulare cose da consumare, ci fanno tornare ai corpi, al pelo, al caldo, agli odori, al contatto con la natura, alla felicità di una pallina lanciata, insomma all’essenziale. In un certo senso, nel senso etimologico del termine, essi ci “umiliano”, ci abbassano fino a terra, e facendo così ci fecondano, fecondano le nostre vite di spontaneità, vitalità, emozioni, fiducia. Sono maestri severi ma giusti: ti riportano con le palline tutte le tue contraddizioni, tutte le tue inconsistenze, ma senza giudizio.
Del resto il reciproco addestramento che umani e animali si sono fatti reciprocamente vanta oramai una storia di oltre 15.000 anni (forse perfino il doppio) e lo sentiamo.
Per quanto riguarda la Bibbia, essa è piena della presenza degli animali nei suoi racconti, dalla Genesi all’Apocalisse. Gesù stesso deve aver vissuto quotidianamente in mezzo a pecore, capre e montoni, dal momento che li cita così tanto come protagonisti delle sue parabole. Un testo di Paolo ci ricorda addirittura che tutta la creazione è in attesa, come nelle doglie di un parto, assieme agli esseri umani di una redenzione. Nella Bibbia gli animali sono spesso presi come metafora per darci un insegnamento. Si ricordi come in 2Sam 12,2-7 si parla del rapporto di affetto tra un povero uomo e la sua pecorella:
Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per l’ospite venuto da lui». Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà».
Certo, la teologia è stata per secoli fortemente antropocentrica. Recentemente però le cose stanno cambiando: teologi come Teilhard de Chardin o Raimon Panikkar furono pionieri in questo campo, ma raccogliendo la riflessione che passa anche per le teologhe che si ispirano all’ecofemminismo, le stesse Encicliche del Papa sono un inno al superamento di questa visione così ristretta dell’universo.
Umani, animali, terra: comunità di viventi
In queste visioni del mondo, umani, terra e animali fanno legittimamente parte di un cosmo variegato e ricco, dove la domanda circa a chi dare più cura risulta inappropriata: come per l’amore, la cura, nel donarla, non si dimezza.
Un’altra connessione falsa che spesso emerge in questi discorsi è la facile bacchettata a chi detiene un animale da compagnia, non solo come se questo fosse un affronto ad altri tipi di relazione tolti agli umani, ma alla denatalità o, peggio, alla povertà.
In questo assunto acritico manca un’analisi approfondita sull’impatto antropico della massa di umani che popolano la Terra, ma anche sulle situazioni economiche e di precariato e sul futuro incerto che le giovani coppie che vorrebbero avere figli devono affrontare. Ci si limita a una critica moralistica che non fa i conti con quella critica al capitalismo, propria della Laudato Sì, che costringe a una vita frenetica, dove risulta impossibile avere tempo per la cura delle relazioni (o più banalmente soldi per mettere su famiglia).
In questo mondo che certo crea ricchezza (per pochi) e sempre meno assomiglia a quell’Eden nel quale metaforicamente dovremmo trasformare la terra, forse gli animali costituiscono ancora un piccolo legame al ricordo e alla speranza di una “città” a misura di Dio, ovvero umana, dove vi sia spazio per tutti gli esseri umani nella loro magnifica diversità e per tutte le diverse specie dei viventi.
Del resto, le storie di coloro che hanno raggiunto una pienezza di umanità e che abbiamo avuto la consuetudine di chiamare santi, come nell’agiografia, sono tempestate da presenze di animali di ogni genere. Perché forse proprio gli animali oggi contribuiscono a non farci perdere del tutto quell’ ’alfabetizzazione basica e primaria al mondo degli affetti, delle emozioni, della cura e delle relazioni, che potrebbe aiutarci ad uscire da schemi relazionali rigidi e asfittici e guidarci (a guinzaglio) verso modelli più morbidi di famiglie, quelle dove non vale soprattutto il ruolo, ma l’elezione affettiva. Famiglie “strambe”, famiglie queer. “L’elezione amorosa va mantenuta primaria, perché nella famiglia tradizionale i sentimenti sono vincolati ai ruoli, mentre nella queer family è esattamente il contrario: i ruoli sono maschere che i sentimenti indossano quando e se servono, altrimenti meglio mai” (Michela Murgia).