L'editoriale
Amici che aiutano a camminare insieme
Tornando da una breve sosta dalle mie amiche e dai miei amici monaci, sosta quanto mai benefica in tempi surriscaldati dalla voracità di un’informazione pret a porter, ho portato un fiore a San Martino in Vignale vicino Lucca sulla tomba di fratel Arturo Paoli, uomo di fede, di speranza e di carità, meraviglioso cocktail di virtù teologali, profeta che vive nei cuori e nei pensieri dei lettori di Rocca, che su queste pagine lo hanno incontrato per decenni.
Due volti dell’essere cristiani si dirà: la contemplazione e la strada. Ma appunto si dirà, perché così non è. O meglio è così solo per coloro che non conoscono le ferite portate nella preghiera e la riserva escatologica, preziosa più dell’oro, custodita dal monachesimo che vive nella compagnia delle donne e degli uomini del proprio tempo senza esserne schiavo. Un modo di servire il tempo senza esserne asserviti, un modo di vivere, o di tentare di vivere, una koinonia di beni e di anime che indica un altro orizzonte.
E chi ha conosciuto fratel Arturo sa quanto tenesse ai momenti forti dell’adorazione e all’ascolto silenzioso ed assiduo dell’Amico, autentica fonte della fraternità con gli ultimi che lo ha visto vivere da povero e con i poveri ad ogni latitudine.
Sequela del Signore, critica del “mondo” e fedeltà alla terra sono facce necessarie del poliedro cristiano.
I cristiani restano (andiamoci piano: dovrebbero restare) quelli della via, aperti ad ogni interruzione da parte di coloro che incontrano e con cui vivono. È una via da percorrere con tutti e, per molti aspetti, come tutti. Rendendo ragione sobriamente della speranza che è in loro. Sovente loro malgrado.
Odos syn, sinodo, far strada insieme. Anzitutto dentro la chiesa e le chiese. Come si fa se no ad essere credenti credibili?
La Chiesa popolo di Dio come l’ha riscoperta il Concilio o è sinodale o non è. O è sinodale o è ordine sacro che perpetua se stesso. Ma per far strada insieme occorre fare l’operazione del granchio, mollare la corazza, liberarsi del clericalismo e dell’individualismo che chiude e che scarta. Ritrovare la radice dell’ekklesia, della convocazione. (Ekklesia… sinodou estin onoma. La chiesa… è il nome di questo camminare insieme ci dice Giovanni Crisostomo). Tomas Halik in un bel libro dal suggestivo titolo «Pomeriggio del cristianesimo» racconta un’antica leggenda ceca: il costruttore di una cattedrale gotica a Praga, terminati i lavori, lasciò bruciare le impalcature di legno. Cosicché quando esse precipitarono con grande fragore il costruttore terrorizzato si suicidò. «A me sembra», commenta l’autore, «che molti cristiani in questa epoca di cambiamenti si fanno prendere dal panico commettendo un errore simile. A crollare sarà solo l’impalcatura di legno: bruci pure, l’edificio della Chiesa sarà sicuramente danneggiato, ma la parte essenziale, a lungo nascosta, sarà finalmente visibile».
Lungo la via del ritorno ho appreso dell’aggravarsi delle condizioni di salute e poi della morte di Monsignor Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea e ultimo sopravvissuto tra i padri conciliari. Uno di quelli che non si sono fatti prendere dal panico! Uomo di straordinaria intelligenza ed ironia, pastore aperto e attento a far crescere i semi di una chiesa più autenticamente evangelica, coraggioso nel camminare insieme a tutti gli operatori di pace e ai cercatori di giustizia. Appassionato testimone della propria fede da non avvertire la necessità di blindarla nelle sagrestie ma di portarla con gioia sulle strade camminate dagli uomini di buona volontà con uno dei quali, Enrico Berlinguer, intraprese con chiarezza e coraggio un memorabile confronto. A noi di Rocca piace ricordarlo per i suoi ultimi contributi alla nostra rivista, poco meno di un anno fa, su un tema inusuale per un Vescovo, tanto più quasi centenario: quello dell’aborto. Inusuale ovviamente per un Vescovo che non voglia lanciare un anatema ma che si sforzi di comprendere una situazione delicata ponendosi in ascolto del mondo interiore di chi vi fa ricorso, con la sollecitudine di chi sente l’urgenza di ascoltare scienza e ragione ma soprattutto le ragioni dell’amore. Camminando tanto e tanto a lungo e ovunque don Luigi è davvero un’icona della sinodalità, della chiesa in uscita, del dialogo franco e fraterno con le culture e i linguaggi del nostro tempo. Anche la sua ironia, a me è parso, fosse al servizio della vita che brucia la lingua dei moralisti e dei detentori della verità.
Perché l’immagine della strada (odos) è quella di un cammino che non prevede una meta finale, non prevede la malinconia dell’adempimento, la cattura della verità. La meta è in un certo senso il cammino stesso e l’essere aperti alle sorprese del viaggio, agli incontri nuovi che consentono di meglio conoscere se stessi, ad orizzonti sconosciuti che richiedono di essere compresi, al vedere gli invisibili, convinti, per dirla con un grande martire cristiano del Novecento, Dietrich Bonhoeffer, che l’esclusione del debole e del marginale «può addirittura equivalere all’esclusione di Cristo che bussa alla porta nelle vesti di fratello povero».
Non nascondiamo che sinora il cammino sinodale ci è apparso stracco, pigro, per larghi aspetti scontato. E non solo sul versante della chiesa ministeriale col persistere della forza inerziale del clericalismo ma anche su quello di una passività dei laici credenti, quasi rassegnati all’insignificanza.
Forse è per questo che mi sono sentito a fianco, lungo il viaggio, questi amici ricchi di libertà e di coraggio. Saldi nella fede. Perseveranti nell’impegno per il bene comune. E siamo contenti che da queste pagine, che sono state anche le loro, possa continuare a transitare, a volte spes contra spem, e sempre con la coscienza dei nostri limiti, il messaggio liberante e contagioso della speranza di pace, di giustizia e di fraternità di cui sono e sono stati testimoni e operatori credibili.
Buon agosto alle nostre lettrici e ai nostri lettori.