Vivere la fede in mezzo agli altri

Gruppo di omini stilizzati al centro dei quali ce ne è uno illuminato

“Meglio essere cristiani senza dirlo,

che proclamarlo senza esserlo”

Ignazio d’Antiochia, martire

Tra gli effetti più inattesi dell’epoca laica e secolare è la riscoperta della letteratura patristica cristiana dei primi secoli e di alcuni piccoli scritti ancor precedenti, quali la Didachè, la Lettera a Diogneto, la Lettera di Clemente Romano e altri. Scopriamo quindi che per i cristiani la fede in diaspora non è una novità. La si ritrova già nella citata Lettera a Diogneto, il libriccino scritto in epoca di poco posteriore agli apostoli da un ignoto autore di lingua greca e rivolto a un destinatario altrettanto ignoto, del quale conosciamo solo il nome: Diogneto. Il testo ci descrive lo stile di vita dei cristiani disseminati nel mondo pagano: normalissimo nelle forme e nei gesti, ma straordinario nella fedeltà evangelica. Vi si dice che i cristiani abitano nelle città come tutti, si uniformano agli usi comuni, ma poi mostrano il carattere mirabile e paradossale della loro fede nel modo di vivere il messaggio evangelico. Essi, dice la Lettera, «vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera e patria loro, e ogni patria e per essi terra straniera». Per quei cristiani la condizione diasporica fu insieme drammatica e affascinante, tanto da poter dire: “come l’anima è per il corpo, così i cristiani sono per la società”.

È la stessa condizione dei credenti nelle società moderne laiche e secolari nelle quali tutto è diaspora, poiché lo spazio pubblico è di tutti, credenti e non credenti. Anche i cristiani si percepiscono in un certo senso come fuori luogo in questa esistenza, vivendo in questo mondo, ma senza essere di questo mondo.  Si sentono come dissimili da se stessi e come se non coincidessero con se stessi (S. Levi Della Torre). É il perenne dissidio tra l’essere diversi quando si è uguali a tutti gli altri, e l’essere uguali a tutti gli altri quando si è diversi. In questa aspirazione a non assimilarsi alla maggioranza del mondo sta una prima visione che vede nella condizione diasporica un vizio e una colpa, e nel radicamento la sua cura. Questa visione della diaspora preoccupata per i suoi pericoli oggi è propria di quanti sono nati cristiani in un contesto non diasporico, per i quali la diaspora rappresenta ora un decadimento.

Ma una seconda visione, simile a quella dei cristiani di Diogneto è più positiva e non ha accolto l’elaborazione del pensiero dello stabilirsi nel mondo come maggioranza, bensì l’esperienza dell’oscillazione tra radicamento e sradicamento. In realtà, per i cristiani il problema della condizione diasporica non è stata imposta da altri, ma dallo stesso messaggio evangelico. I cristiani hanno sempre vissuto in condizioni che per principio, consideravano provvisorie.

LA CONDIZIONE DIASPORICA

La diaspora nella quale i cristiani sono chiamati a vivere nelle società laiche e secolari non è la diaspora territoriale, ma quella nello spazio pubblico che intacca il fondamento interno della fede religiosa, rende irrilevanti le supplenze che in passato assolvevano le Chiese, rende nudi i cristiani del loro fondamento. Ma per tali ragioni i cristiani alimentano altrove – quali le mille forme di comunità diasporiche – la loro diversità evangelica e la durata. In questa visione di difesa della diaspora nello spazio pubblico secolare sta la difesa della diversità e durata del messaggio evangelico. In chiave esistenziale la diaspora è sempre una condizione di mezzo verso il futuro e per tale ragione è percepita come abitata da pericoli e da demoni. Come nei luoghi misteriosi dell’infanzia, ognuno pensa solo di uscirne, anziché di potervi soggiornare stabilmente.  

Tale condizione diasporica comporta sicuramente dei rischi per l’istituzione, tanto che il teologo Karl Rahner – che fra i primi aveva identificato questi rischi negli anni 1960 – invitava a una rivoluzione ecclesiologica. Quale la sfida, per la Chiesa cattolica, di pensare alla fede oggi in un contesto diasporico? Per prima cosa, tutto le richiede di rinunciare al sogno di abbracciare l’intera società e di accettare una minore rilevanza nello spazio pubblico, nel quale è la società civile che intende produrre il senso della vita individuale e collettiva. È quanto si definisce secolarizzazione qualitativa, nella quale è lo spazio pubblico che procede a regolare i rapporti con tutti come se Dio non ci fosse. Non è la scomparsa della religione, ma è sicuramente il dissolversi di indicazioni, valori e stili di vita laboriosamente costruiti dalla religione nel corso di millenni per collegare la vita degli individui con il divino.

   In secondo luogo, la rivoluzione ecclesiologica richiesta dall’ingresso nella condizione storica della diaspora comporta una riflessione sull’unità dei cristiani e l’allontanamento dalla paura della differenziazione interna interpretata come dissidenza. La sociologia delle diaspore documenta sicuramente un rischio di dispersione, ma non la fine del messaggio che la costituisce e del “popolo” che la rappresenta. La diaspora è un luogo di tensioni, di continui riadattamenti. Ma pur in presenza di tali rischi le diaspore rappresentano anche spazi di ricomposizione permanente della religione, spazi fecondi in termini di rinnovamento creativo del pensiero e delle pratiche, come indicano già ora iniziative di ogni genere, spirituali, teologiche, liturgiche, socio-caritative.

In terzo luogo, il vivere la fede in contesto diasporico pone la domanda del “dove è Dio”, “dove è Chiesa”. La domanda è essenziale, poiché la Chiesa non ha un luogo geografico specifico. Il Dio che essa annuncia non è localizzato in un luogo particolare e non ha una sua specifica residenza. Nessuna istituzione, struttura o luogo di culto può contenere tutto il mistero di Dio. Il teologo Daniel Marguerat indica tre forme della Chiesa: la dispersione, la pluralità, il provvisorio. La dispersione è un indicatore di incompletezza e di legittima diversità, ma non di dissoluzione e di disordine. É la volontà di non imporsi, ma non di dissolversi e lasciarsi decostruire, rendendosi insignificante. La pluralità è il segno dell’insufficienza di ciascuno, e il bisogno dell’altro. Non siamo cristiani senza l’altro. Per cercare la verità, cosi come per comprendere il Vangelo, e necessario essere molti e diversi. Il provvisorio è un segno di incompiutezza e di fragilità e indica cambiamenti in prospettiva e viaggio verso il futuro. Dispersione, pluralità e provvisorietà sono caratteristiche piu o meno accentuate, ma indicano elementi che troviamo anche nel Gesù dei Vangeli.

In quarto luogo vivere la fede in contesto diasporico pone i due problemi che la psicologia sociale definisce: dissonanza cognitiva estrutture di plausibilità: la prima è la fatica di vivere tra altri che non condividono le proprie idee; le seconde sono gli ambienti nei quali ci sentiamo ‘a casa nostra’. Vivere nella diaspora della società secolare produce negli individui religiosi il disagio di doversi confrontare con i valori, convinzioni e stili di vita diversi, soprattutto quando essi sono contrastanti con quelli della propria fede religiosa. Quando si presenta un conflitto tra i pensieri, le emozioni e i comportamenti di un individuo e quelli del contesto in cui egli vive, è naturale che ne provi disagio e cerchi di alleviare la conflittualità che produce la dissonanza cognitiva con strutture di plausibilità. Sono esse che gli danno la sensazione di essere tra i ‘suoi’ e a ‘casa sua’. In esse (gruppo, comunità, associazione, manifestazione, celebrazione, evento, blog online e altre) l’individuo riduce la dissonanza cognitiva e rafforza la propria identità nella condivisione di elementi cognitivi consonanti con i propri modelli di riferimento.

Si tratta di quanto indicava Blaise Pascal nei suoi Pensieri quando consigliava, a coloro che vedevano minacciata la propria identità religiosa e avevano difficolta a mantenere interiormente la fede, di comportarsi come se credessero con sicurezza e di condividerlo con altri. Le strutture di plausibilità quindi tendono non tanto a eliminare gli elementi dissonanti, quanto a rafforzare quelli consonanti con la propria identità, in coerenza con un comprensibile principio di risparmio cognitivo per chi vive in diaspora, condizione dalla quale non è pensabile sfuggire, ma con la quale è però possibile convivere moltiplicando le strutture di plausibilità. E quanto avevano capito anche i cristiani dei primi secoli descritti nella Lettera a Diogneto, integralmente inseriti nel mondo pagano ma fortemente uniti alle loro comunità domestiche.

CHIESA IN DIASPORA O IN MINORANZA?

La valutazione sull’opportunità di riconoscere di essere in diaspora, pur con la responsabilità di testimoniare ancora i propri valori e stili di vita nello spazio pubblico, accentua oggi le discussioni all’interno della Chiesa, rilevando una linea di divisione tra chi si sforza di pensare al rapporto con il mondo di un cattolicesimo che fa propria la condizione di diaspora che la società contemporanea gli prescrive, e chi, invece, ritiene che la Chiesa non possa accettare questa situazione, continuando a interpretare la questione in termini di autodifesa e riconquista.

È contrapposizione, non solo ideologica, ma teologica, poiché si tratta del confronto tra una visione che associa la vitalità della Chiesa alla sua influenza geografica, culturale e politica sulla società, e la visione diasporica, propria del cattolicesimo inteso come “anima della società”, che accetta di “essere in mezzo agli altri” come diceva Michel de Certeau in La faiblesse de croire. La definizione della Chiesa che accetta di essere “tra gli altri” in una società che a essa non si rivolge più come in passato non significa, però, che la Chiesa non abbia più nulla da dire. Questa conversione dello sguardo su se stessa e sul proprio ruolo implicherebbe una rivisitazione integrale della teologia cristiana, a partire dal principio fondativo di portare il messaggio evangelico fino ai confini della terra.

La separazione tra Chiesa e Stato, tra sfera spirituale e sfera secolare della vita è sempre stata presente nella cultura cristiana, a differenza che in altri contesti, quale quello islamico. E ciò a causa della convinzione della provvisorietà dell’ordinamento di questo mondo a confronto della realtà definitiva del Regno di Dio. Nel linguaggio sociologico si potrebbe concludere in forma positiva che i cristiani oggi sono una parte attiva nelle società secolari. Tutte le società in Europa e nelle Americhe si organizzano secondo i principi della laicità dello spazio pubblico e del pluralismo dei valori e degli stili di vita. Vi sono coinvolte pure le religioni, in tutte le loro forme collettive e individuali. In tale condizione, esse non potranno che essere in diaspora. Nelle società premoderne tale questione non era rilevante, poiché la religione era un tutt’uno con l’appartenenza a una comunità. Il carattere essenzialmente etnico-territoriale della religione si espresse dopo le guerre di religioni del 1500 nel principio cuius regio, eius religio. In tale contesto si collocava l’accusa di empietà per tutti coloro che rifiutavano la religione.

UNA PROPOSTA SINODALE?

Nel 1500 la Chiesa cattolica realizzò una grande riforma per contrastare il protestantesimo. Oggi, molti ritengono necessario analogo coraggio per convivere con la modernità contemporanea e superare alcune scelte tridentine non più sostenibili in questa fase storica. La prima è la territorialità tridentina delle comunità parrocchiali, diocesane e dell’intero sistema ecclesiastico, in questa fase storica in cui tutto è sempre più relazionale e digitale. La seconda è il superamento della rigidità liturgica attuale basata sulla predominanza della messa rigidamente regolata dal messale che penalizza la creatività delle singole comunità nel linguaggio, nelle forme espressive, nei paramenti, nello stile dei partecipanti. La terza scelta è il superamento dell’attuale struttura degli ordini gerarchici, con l’esclusione delle donne dagli ordini maggiori del diaconato e del presbiterato e l’esclusione degli uomini sposati dal presbiterato. La quarta scelta è il superamento del rigido ecumenismo che per paura di scissioni impedisce alla Chiesa cattolica di Roma di scelte necessarie imposte dal messaggio evangelico. Le vie per cercare e pregare Dio possono essere diverse e non negano l’amore reciproco. Lo ripeteva il cardinal Cusano: Una religio in varietate rituum.