Progresso, tra vette e costi sociali

Difficile sottrarsi al fascino di questa parola e lo verifichiamo partendo dall’etimologia latina progrĕdi, da prō, avanti, e grădi, camminare, andare. Si apre così davanti ai nostri occhi l’immagine di un percorso lineare e continuo, punteggiato di acquisizioni che portano al miglioramento delle condizioni materiali e morali del genere umano.

Un po’ di storia

Questo miglioramento storicamente doveva inevitabilmente portare a un confronto tra antichità e modernità ed è propriamente la querelle des anciens et des modernes sviluppatasi in Francia nella seconda metà del ’700. Avviata dapprima sulla dialettica tra sostenitori della letteratura classica e moderna, si sarebbe presto ampliata in ambito filosofico ed estetico. Bernard de Fontenelle, letterato e filosofo francese (1657-1757), nella «Digressione sugli antichi e sui moderni», partendo dalla considerazione della immutabilità della natura, contestava la presunta superiorità degli antichi sui moderni, che, invece, fruendo di quanto realizzato dagli antichi, procedono nel cammino della conoscenza, col vantaggio – tra l’altro – di poter evitare gli errori passati. La mente dei moderni sarebbe così quella degli adulti, da confrontare con quella infantile degli antichi. Il paragone – però finisce qui, perché non ci sarà vecchiaia per il genere umano. Questo saggio di filosofia della storia è importante perché introduce la categoria storiografica del progresso, innestando un processo che «non avrà mai fine». Inoltre, scardinando la tradizione che ossequiava l’autorità del passato, apre le porte all’illuminismo, con la concezione laica della storia e con la considerazione della felicità come obiettivo realizzabile sia nell’aldilà, che su questa terra. In epoca romantica l’idea di progresso diviene legge esiziale dell’evoluzione umana, secondo un processo inarrestabile che si autoalimenta, a prescindere dall’azione dell’uomo. Il positivismo, poi, fornisce all’idea di progresso l’attrezzatura ideologica e, con l’emergere di una coscienza politica, raggiunge la maggiore affermazione creando le premesse per lo sviluppo della cultura borghese del secondo ’800. Le critiche al positivismo a partire dalla fine del secolo, si rivolgono all’idea di progresso come autorappresentazione, che punta quasi esclusivamente sulla razionalità; la stessa concezione del tempo non è più continua, mentre si evidenzia lo scetticismo verso un progresso generale che riesca a comprendere tecnica e cultura. Gli studi antropologici rivelano poi gli stadi dell’evoluzione umana, accantonando l’idea di uno sviluppo unico e – soprattutto – svelando come siano fallaci criteri di valutazione che pretendono di essere validi ad ogni latitudine. E siamo al postmoderno, con le critiche sempre più insistenti e qualificate verso un modello di sviluppo illimitato della tecnoscienza, di cui sono evidenziati i limiti.

Potere e progresso

Fine dell’ottimismo? Forse no, ma urge qualche riflessione. Le tragiche esperienze di due guerre mondiali, consumate nel breve arco di 30 anni, con il contorno della Shoah e di Hiroshima, ci inducono al disincanto rispetto alla precedente fiducia in un corso ordinato della storia e al mito ottimista dell’era moderna fondato sul progresso tecnologico. È un progresso che fino al secolo scorso determinava cambiamenti accettabili in quell’assetto sociale che oggi rischia di essere scardinato dal ritmo frenetico del neoliberismo vorace. E allora ecco la domanda: il progresso tecnologico porta a una prosperità condivisa per tutto il genere umano?

Due professori del Mit, Massachussets Institute of Technology, Daron Acemoglu e Simon Johnson se ne occupano in un libro appena pubblicato: «Potere e progresso». Gli autori non demonizzano il progresso tecnologico, ma sostengono che non bisogna trascurare i costi sociali che esso ha comportato e comporta ancora oggi. In agricoltura, ad esempio, il passaggio dalla società di raccoglitori e cacciatori a quella stanziale ha determinato la creazione di élite e di sfruttati, perché gli incrementi di produttività, determinati anche da innovazioni tecnologiche, hanno favorito per molto tempo soprattutto le élite. Ragionamento similare vale per la rivoluzione industriale, che ha causato l’ampliamento delle distanze reddituali tra i vari soggetti aziendali. Per stemperare gli squilibri c’è chi sostiene che la ricchezza di chi è in vetta alla piramide sociale sarebbe discesa verso la parte più bassa. È l’effetto «sgocciolamento» (trickle down per gli anglofili), che in realtà non opera, come dimostrano stati1 26/09/2023, 11:23stiche inoppugnabili, che denunciano anzi l’aggravamento degli squilibri negli ultimi decenni. Da quanto esposto emerge che l’innovazione tecnologica da sola non riesce a far avanzare il genere umano e quindi non rappresenta il progresso che punta al miglioramento generale. Questo risultato si potrebbe conseguire con l’intervento della politica e del sindacato ed è quello che è avvenuto durante i trenta anni seguiti alla seconda guerra mondiale. Sono i trente glorieuses, che hanno visto gli Stati creare il welfare state, grazie al quale i benefici sono stati assegnati a un numero elevato di persone. In quegli anni alle valutazioni economiche sono state associate quelle non economiche, quelle idee che hanno ampliato l’orizzonte sul fronte sociale e politico.

Qualche nota a margine

La dottrina sociale della Chiesa si muove su questa linea, perché «la vita sociale non è qualcosa di accessorio» (Gaudium et spes, 25), ma è una dimensione essenziale e inalienabile, e lo stesso uomo, oltre che un individuo è soprattutto una persona, «una natura dotata di intelligenza e di volontà libera e dunque una realtà ben superiore a quella di un soggetto che si esprime nei bisogni prodotti dalla mera dimensione materiale» (Pacem in terris). Dopo gli anni «gloriosi», l’avvento di neoliberismo e globalizzazione senza regole ha cambiato lo scenario con la subordinazione della politica all’economia. Paul Samuelson (Nobel per l’Economia) ha scritto: «Non mi interessa chi scrive le leggi di una nazione, se posso scrivere i suoi manuali di economia». È un pensiero che consegna il potere all’economia e al mercato. Ne è seguito lo sviluppo anarcoide odierno, che punta solo alla crescita del Pil. Ecco allora esperti espertissimi e professori dalla solenne aria professorale avvicendarsi al capezzale dell’economia del nostro mondo interconnesso per scrutarne l’andamento, armati di statistiche aggiornate che danno indicazioni su variazioni anche dello zero virgola su cui accapigliarsi. In queste settimane, per inciso, c’è apprensione perché la fabbrica del mondo, la Cina (patria del capitalismo di Stato) «cresce» meno del previsto. L’imperativo è sempre categorico: produzione e consumo devono comunque crescere, perché fingiamo allegramente di ignorare che il problema dell’umanità non è nelle quantità, ma nella distribuzione sperequata dei prodotti, che, accantonando ogni principio di solidarietà, genera quantità enormi di scarti e sprechi, con l’effetto collaterale dello smaltimento gravoso dei rifiuti. Produrre, dunque, sempre e non importa come. Non interessa se l’obiettivo viene raggiunto trascurando i diritti di chi lavora (gli infortuni mortali sono diventati una piaga purulenta). Sono aggirabili le norme sullo smaltimento di rifiuti e di sottoprodotti delle lavorazioni (i casi Enichem ed ex-Ilva sono emblematici). È facoltativa la tutela dell’ambiente, perché è più utile cementificare, e pazienza se siamo affetti da un certo strabismo contabile, che ci fa rilevare tutto quanto guadagniamo nel privato, «dimenticando» quello che perde la collettività. È fondamentale, poi, operare con la massima rapidità. «Non importa se vai avanti piano, l’importante è che non ti fermi», recita così un pensiero di Confucio, ma è vox clamantis dal deserto cinese di più di 2500 anni fa. Oggi sono sfruttate al massimo le risorse della Terra, anche se sono limitate e se finiamo col sottrarle a chi verrà dopo di noi. È il caso di accennare all’Earth Overshoot Day, Giorno del Sovrasfruttamento della Terra, che misura annualmente il giorno dell’esaurimento ufficiale delle risorse che la Terra può offrire in un anno. Quest’anno è stato il 2 agosto, sicché dal giorno successivo il mondo è in «debito»; per l’Italia era scattato già il 15 maggio. Nel 1973 l’indice generale era stato fissato al 3 dicembre. Superfluo ogni commento. Ci basta stralciare un pensiero lapidario e profondo dall’intervento del Presidente Mattarella all’assemblea di Confindustria del 15 settembre. Dopo aver ricordato che «le aziende sono al centro di un sistema di valori, non solo economici», ha ammonito che «non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione». Continua invece l’inseguimento del Pil, con aggiornamenti continui su giornali, tv e social. Ci sono – è vero – anche altri indici, come l’Isu – Indice di Sviluppo Umano recepito dall’Onu, che tiene conto oltre che del Pil, dell’alfabetizzazione e della speranza di vita, ma interessano soltanto qualche anima bella. Potrebbero essere consultati da politici che, collaborando con i tecno-scienziati, punterebbero a un progresso armonico e diffuso. La politica dovrebbe puntare a 2 26/09/2023, 11:23«parametri non solo economici, ma anche morali» (Octogesima adveniens, 43) e instaurare un ordinamento coerente con la dignità della persona umana, ma ha rinunciato al suo ruolo e con la deregulation ha favorito la nascita del capitalismo finanziario spericolato. La drammatica crisi del 2008, con il fallimento della Lehman Brothers, ne è stata la conseguenza lampante e in quella occasione è stata invocata la mano pubblica per scongiurare il peggio. Concludendo, si può ritenere che la tecnologia, prevalendo sulla politica, non sia neutrale rispetto all’assetto sociale, perché incorpora il potere, ma è un potere che sfugge a ogni regola etica, privilegiando l’attivismo rispetto al pensiero, l’egoismo rispetto alla solidarietà, l’isolamento individualistico rispetto alla socializzazione e riducendo la complessità dell’essere umano a mero ingranaggio materiale del sistema. Il risultato è sotto i nostri occhi, con un arricchimento abnorme di una ristretta cerchia di soggetti, la discesa del ceto medio verso la povertà e, in generale, l’ampliamento della divaricazione nella distribuzione della ricchezza. Difficile dunque parlare di «progresso sostanziale» che invece si realizzerebbe con la tecnologia avanzata (che persegue i propri specifici obiettivi) e con la politica che guida e organizza il contesto per realizzare il bene comune. «Il progresso della società è impensabile quanto lo sviluppo della personalità individuale senza il terreno fertile della comunità». Lo scriveva cento anni fa un grande, Albert Einstein.