Ridire la fede, vivere la  speranza

Conversazione con  Gianfranco Ravasi

Arrivare a Roma, arrivare in via della Conciliazione per incontrare dopo diversi anni il Cardinale Gianfranco Ravasi, per un dialogo su temi di stretta attualità, riempie di una grande gioia e di emozione. Carissimo Cardinale Ravasi, lei è uno degli uomini di Chiesa che più autorevolmente si è confrontato con le tante domande e inquietudini della modernità. In una società come la nostra, laica e secolarizzata, quale può essere lo spazio della fede?

In questa società secolarizzata ci sono due percorsi che in maniera particolare bisogna sottolineare, percorsi che si annodano tutti attorno ad un’unica componente fondamentale: la mutazione antropologica. Su questo grande viale anche la fede deve inoltrarsi e ci sono due corsie che sono particolarmente rilevanti in questo periodo. La prima corsia è quella della scienza. Scienza e tecnica insieme, anche se non sono sinonimi pongono dei gravi problemi, delle gravi interrogazioni all’etica e soprattutto alla fede cristiana. Vorrei fare tre esempi. Primo, il problema della genetica: l’intervento sul dna, la possibilità quasi di creare un nuovo modello di uomo e di donna, pensiamo al trasumanesimo e al postumanesimo. Secondo, le neuroscienze: quindi il tentativo della cosiddetta fisicalista, per cui cervello e mente si identificano, cioè sono il prodotto quasi elettronico della capacità di questa straordinaria struttura che è il cervello, fatta come si sa dagli 80 ai 100 miliardi di neuroni, quante sono le stelle della via lattea, della nostra galassia. Un “micros-cosmos” come diceva Democrito nell’antichità classica. Terzo elemento capitale è l’intelligenza artificiale: soprattutto un’intelligenza che presuppone una macchina con un algoritmo aperto, la quale può compiere decisioni “libere” di vario genere, con problemi sul lavoro che si ridimensionerebbe, e al positivo, come per tutte le discipline, sulle terapie.

E l’altra corsia cui accennava?

L’altra corsia nella quale si corre molto è l’infosfera, cioè la comunicazione informatica, con tutte le sue articolazioni immaginabili e possibili, con tutti i suoi esiti, positivi ma anche drammatici. In questo ambito, per citare il famoso titolo di un libro di Umberto Eco, non dobbiamo essere né apocalittici, come lo sono alcuni, né integrati, al punto tale da essere quasi schiavi. È necessario essere presenti, essere capaci di usare questa nuova situazione comunicativa, che si accosta accanto all’omelia, alla catechesi… però è indubbiamente una delle vie privilegiate. Per concludere, alla base di tutto questo c’è l’interrogazione sul concetto di natura umana, perché non esiste più attualmente un concetto di natura umana condiviso, una volta era chiaro, l’ontologia precede la deontologia, l’etica è una conseguenza di una struttura essenziale.

Pensa al gender?

Penso soprattutto alle teorie del gender, ma non solo, penso al concetto di verità molto mutevole, non più oggettivo ma soggettivo. Entra in campo la necessità da parte della teologia di una nuova riflessione, fermo restando che la dimensione ontologica è importante, strutturale, però è importante anche quella culturale, l’evoluzione, della figura umana attraverso i secoli e le esperienze a cui ho fatto riferimento.

Abbiamo tante guerre, lontane e vicine a noi. Quella nel cuore dell’Europa sta rendendo sempre più difficile il cammino ecumenico, si torna quasi a benedire ognuno le sue armi. L’“ut unum sint” come condizione di credibilità dei cristiani sembra fare naufragio. Da dove possiamo ricominciare?

Da un lato, indubbiamente, con l’Ortodossia russa il dialogo si è raggelato, anche perché ha un’impostazione che è sostanzialmente teocratica, statocratica, e c’è un po’ d’affanno. Però, dall’altra parte, direi che c’è una figura spirituale, religiosa, che è abbastanza condivisa, ed è proprio la figura di papa Francesco. Non ci sono personalità nel mondo della cultura e della politica che godano di un primato di ascolto, come lui. In passato la figura di un pontefice che diventava significativa veniva presa con molta cautela, adesso c’è più sensibilità. Per cui di fronte alla difficoltà evidente che lei ha posto, c’è indubbiamente questa potenzialità che si annoda soprattutto intorno ai temi della pace e dell’ecologia. Da un lato la socialità, la pace, l’accoglienza e dall’altro il rispetto della natura; su questi due temi penso che tutte le Chiese si ritrovino spesso portando ognuno la propria lettura, secondo le diverse sensibilità. E anche nel dialogo interreligioso, dove c’è proprio quella dimensione planetaria che dicevamo prima. Direi che è un “double face” il mio giudizio sul percorso ecumenico e interreligioso.

Il conflitto di questi giorni nella terra di Gesù sembra riportare a galla il volto più rude dei fondamentalismi religiosi. C’è secondo lei lo spazio per un dialogo nel quale possano rialzare la testa le componenti migliori? La preoccupa il ripartire di fenomeni di antisemitismo anche in Occidente e in Europa?

A questo proposito farei tre considerazioni: la prima è che purtroppo, anche in questo caso, non esistono né istituzioni né figure, a parte papa Francesco, che siano talmente al disopra e talmente ascoltate che possano incidere. L’Onu, questa grande istituzione socio-politica, è impotente. Le religioni stesse non possono fare più di tanto, prendiamo Islam ed Ebraismo. L’ebraismo è marginale, c’è l’aspetto religioso, ma molti ebrei non sono credenti e dall’altra nell’Islam c’è il rischio della grande tentazione fondamentalista. Quindi, le religioni, la cultura, possono si lanciare appelli ma non ci sono personalità tali da veicolarli. Secondo: io direi che esiste una frontiera che è stata varcata, lo dico per tutte e due, ma in modo particolare per Israele con l’intervento su Gaza. La legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura… come detto nel libro dell’Esodo al capitolo 21 è una norma tutto sommato di giustizia, è una norma di proporzionalità, di giustizia commutativa, che vale anche per il positivo, bene per bene. Qual è invece la via che è stata adottata? È la via di Lamech, che dice alle sue due mogli, nel capitolo quarto della Genesi, che se uno mi fa una scalfittura io lo ammazzo, se uno mi fa un livido io gli uccido il figlio, se Caino è stato vendicato sette volte io sarò vendicato settantasette volte. Questo è già stato praticato subito da Hamas, però viene praticato anche adesso da Israele su Gaza. Questa forma di vendetta totale, assoluta è veramente un grande dramma. Il dramma è che vince Lamech, rispetto anche ad una giustizia che ha la sue esigenze severe. La terza considerazione che voglio fare è sull’antisemitismo, che ha molteplici colori, perché è qualcosa che è nato nelle religioni, anche in ambito cristiano. Pensiamo che cosa voleva dire considerare gli ebrei come i responsabili della morte di Cristo. Questo elemento religioso un po’ oscuro che veniva adottato è continuato per secoli fino alla dichiarazione “Nostra aetate” del Concilo Vaticano II. Poi c’è l’antisemitismo istintivo, oscuro, che viene rappresentato dai naziskin, che non sanno niente, non sanno cosa è accaduto con l’olocausto. Pensiamo poi a certe forme di antisemitismo che non sono esplicite, ma che vanno in questa linea. C’è anche il risvolto che nasce da situazioni concrete di disagio e questo è un antisemitismo immediato, che non cerca di ragionare su questioni complesse. Poi ci sono quelli estremamente apologetici sulle scelte fatte dalla politica israeliana che non aiutano. In questa luce si tratta di un fenomeno molto complesso, la diffusione nelle sue varie forme, può essere anche ampia e pericolosa perché genera mostri.

Quest’anno, nel centenario della nascita, si ricorda don Lorenzo Milani, l’autore fra l’altro della “Lettera ai giudici”, “L’obbedienza non è più una virtù”. Nello scenario politico attuale l’utopia della nonviolenza non trova spazio e la sicurezza viene garantita armandosi sempre più. Quale dovrebbe essere secondo lei la voce dei cristiani e della Chiesa?

Avremmo bisogno di tante voci profetiche, oggi non ci sono voci forti, a parte papa Francesco, come dicevamo prima, qualche Vescovo, qualche cristiano… ma lei s’immagini cosa era la sua Firenze con padre Balducci, La Pira e poi padre Turoldo, don Mazzolari… figure che avevano creato un’atmosfera particolare anche se allora non compresa, ignorata ed emarginata dalla Chiesa. Credo che vale la preghiera di Turoldo: “mandaci, o Signore ancora profeti che parlino dal roveto ardente”. Abbiamo bisogno di queste voci che parlino non soltanto del tema della pace, che affrontino tutti i temi correlati, si pensi a che cosa è la giustizia, che cos’è anche il possesso della scienza, come dicevamo prima, il possesso dell’informatica… avere questo vuol dire avere un potere e ci sono tanti che questo elemento non ce l’hanno. Don Milani diceva: “Se sai sei, se non sai sei di qualcun altro”. Questo è significativo per esempio per quanto riguarda la cultura, e lui ha fatto tanto attraverso la sua scuola, senza poi parlare del tema della pace, dell’obiezione di coscienza e così via. Io penso che evocare queste figure vuol dire chiedere a Dio, prima di tutto, e poi alla Chiesa di avere voci che inquietino le coscienze, che artiglino l’attenzione e che provochino in qualche modo, non soltanto con giuste affermazioni etico-teologiche, che poi rimangono discorsi un po’ freddi, ma dando qualcosa di più. E guardando alla storia della Chiesa ci sono state figure che hanno affrontato periodi non facili, che hanno fondato istituti religiosi, congregazioni che si dedicavano agli ultimi. Erano proprio quelle voci che incarnavano il Vangelo con calore e con colore.

Il prossimo anno ci sono le elezioni europee, l’impegno dei cattolici in politica è quasi assente. In che modo i cristiani possono dare un contributo alla vita della polis?  Da più parti si ripropone l’idea di un partito cattolico. Le sembra praticabile questa scelta?

Personalmente direi che l’opzione per un partito cattolico, un elemento strutturato, non ha più senso adesso, avrebbe una marginalità senza incisività. Invece il problema vero è quello che lei dice, al di là delle elezioni europee, di fare in modo che si abbia, prima di tutto, la consapevolezza che noi cristiani siamo minoranza, una minoranza che non deve essere però tentata dalla chiusura integralista, chiusa nella sua oasi, ma dovrebbe essere capace di esercitare quell’arte molto difficile, che io ho adottato nel “Cortile dei gentili”, l’arte del dialogo, la via del confronto. Essere nell’interno di strutture, di partiti, con un’anima, con una propria identità creativa, che è poi quella del discorso della montagna. Io penso che bisogna ritornare ancora al Vangelo e soprattutto essere capaci di riuscire a concretizzare. Lei pensi cosa vuol dire avere l’idea chiara del rapporto con il prossimo; però poi dovremmo avere un’idea concreta sull’accoglienza, elaborare una visione credibile della società ed è in questa luce che indubbiamente questa minoranza creativa, per ora, non si è manifestata nell’interno di queste strutture e si è spesso adeguata.

C’è forse anche un problema di formazione e di competenza?

Qui si ritorna al discorso precedente, non abbiamo personalità capaci, anche nel mondo laico, e la qualità politica attuale è piuttosto bassa. Pensiamo, ad un esempio, al livello dei politici, di tutti i partiti, del dopo guerra, italiani ed europei, non c’è bisogno di fare i nomi perché avevano tutti una qualità, una preparazione altissima. Pensiamo nel mondo della cultura, parlava Norberto Bobbio e c’era un ascolto, era una presenza, lui era di un certo orientamento politico, ma era una voce che inquietava anche lì. La grande esigenza rimane quello di riuscire a creare veramente figure – in questo caso figure cristiane – che diano spessore al messaggio evangelico e che siano capaci di seminarlo e di alimentarlo nella società e nei partiti che sono una delle vie in cui si esprima la politica, che è una realtà molto più estesa. Purtroppo è ancora valido quello che diceva Socrate contro Gorgia il quale propone la retorica come elemento di coinvolgimento, quello che domina ai nostri giorni purtroppo: “Se uno è malato ha bisogno del medico, se uno è marinaio ha bisogno del capitano, se uno vive nella polis ha bisogno di uno competente…”. Perché, allora, noi tutti ci lasciamo abbindolare e conquistare da chi fa il retore, da chi fa propaganda, pubblicità? È la domanda che si faceva Socrate, ed è una riflessione anche per i nostri giorni. È per questo che c’è un grande lavoro da fare nella formazione, nel far sì che le poche voci flebili diventino sempre più forti e risuonino all’interno dell’orizzonte sociale.

Da qualche anno è iniziato nella Chiesa il cammino sinodale. Che bilancio ne possiamo trarre oggi? Non pensa che si stia ancora sottovalutando il ruolo soprattutto delle donne e dei laici?

C’è il rischio di usare la parola sinodo, sinodalità, sinodale, come un mantra in cui si mette su tutto. Il primo atto che si è svolto è stato quello di porre uno sguardo su questa piattaforma che è la comunità ecclesiale attuale, ci sarà da fare molto quando si passerà al livello operativo e lì certamente il problema delle donne sarà un problema rilevante, anche se non va fossilizzato solo sul sacerdozio femminile. Se noi teniamo conto che quando c’è la Pentecoste e sono tutti riuniti, c’è Maria e ci sono gli apostoli. Gli apostoli sono i vescovi e Maria la madre di Gesù. È più importante Maria o gli apostoli? Evidentemente la Madre! Allora, in questa luce, nella gerarchia della Chiesa perché deve essere soltanto considerato rilevante il ruolo dei vescovi, dei presbiteri e non invece la dimensione di una presenza femminile mariana, una figura che possa gestire la prassi della Chiesa, le scelte, la ricerca? Bisogna avere la consapevolezza di costruire la presenza della figura femminile nella Chiesa e non basta assegnarle un timbro clericale, oppure qualche funzione di tipo amministrativo, burocratico, gestionale. Bisogna introdurre ormai accanto alla tradizionale figura sacerdotale anche questa figura femminile nuova, in modo che si abbiano nel consesso, come nel giorno di Pentecoste, due voci, due valori, due dimensioni diverse. E questo è un grande lavoro che deve fare ancora la teologia e l’ecclesiologia.

Lei che è un uomo di Chiesa e cultura ha contagiato tanti alla lettura avvincente della Bibbia. È di questi giorni in libreria il suo ultimo libro “L’alfabeto di Dio” nel quale guida il lettore alla conoscenza meditata e profonda sulle parole bibliche su cui si fonda la nostra fede. Ci può dire come possiamo leggere oggi la Scrittura e come riscoprire in essa la Parola di Dio?

Credo che bisogna sempre tener conto di due dimensioni e in pratica questo libro lo fa. Da un lato, userei proprio un’espressione di Massimo il Confessore, un autore del VI secolo che diceva: “Se non conosci le parole, come puoi conoscere la Parola?”. Ecco allora l’importanza del primo livello che consiste nel ricordare che la religione ebraico-cristiana è una religione storica. Non sono tesi astratte per sette teologiche che discendono dal cielo; la scoperta di Dio, della sua Parola avviene nell’interno delle strade polverose del mondo e della storia. Pensiamo alla fatica che si fa nel leggere la Bibbia, proprio perché è la nostra storia, ci sono le guerre, chi si lamenta, ci sono i malati, c’è la figura di Cristo, che è una figura umana oltre che essere il Verbo. Ecco perché nel libro ho proposto cinquantacinque parole ebraiche e sessanta parole greche proprio per ricordare che dobbiamo cominciare a conoscere il linguaggio, l’alfabeto di Dio. Questo è necessario per evitare i fondamentalismi, per evitare una lettura carismatica, istintiva: uno apre a caso e mette in pratica. No, bisogna capire che c’è un discorso, c’è un percorso all’interno nelle Scritture. Il secondo è che attraverso questa via bisogna riuscire a scoprire il filo sottile, il filo d’oro che tiene insieme le Scritture e questo viene realizzato attraverso lo studio, la lettura che ti fa vedere cosa la Parola di Dio dice in sé e dice a te. È un po’ il tema della lectio divina. Quindi direi almeno due atti da fare, primo un atto della ragione che coinvolge lingua e storia e dall’altra parte sentire dietro quelle parole il messaggio che Dio ti vuole dare, una concezione della storia che è in progresso, che conosce la speranza, cosa che la classicità non conosceva. Nella classicità la concezione della storia era circolare, “non c’è speranza non c’è paura” dicevano gli storici, invece il cristianesimo è basato, retto, sostenuto dalla speranza. Cristo è continuamente presente nella storia.

Facendo riferimento a quello che lei prima diceva, quali sarebbero le innovazioni fondamentali di cui la Chiesa avrebbe bisogno, soprattutto a livello teologico, per mettere il Vangelo a contatto con una società che si sta sempre più allontanando dalla pratica religiosa? “Rendere ragione della speranza che è in noi” passa solo per la carità o anche per la credibilità della fede che professiamo? Secondo lei non c’è un’afonia o un conformismo dei teologi?

Rispondere a questa domanda è un sinodo, il sinodo ha proprio lo scopo di rispondere alle sue domande, che sono ardue e di grande complessità. Un primo passo da fare è quello di cominciare a cambiare linguaggio. Il linguaggio della Chiesa deve essere capace d’intercettare i nuovi linguaggi, sapendo bene che linguaggio non vuol dire soltanto parlare, ma anche l’agire, avere un’attenzione, una sintonia con la cultura contemporanea per introdurre però un messaggio che è provocatorio. Noi parliamo ma non ci capiscono, ormai non abbiamo più questa forza del nostro linguaggio, della nostra comunicazione. Questa sarebbe la tappa primordiale, primitiva, poi ci sono tutte quelle interrogazioni che sono sottese e che devono tener conto della necessità, della razionalità, dell’analisi, della fede: “Fides et ratio”. Ma dall’altra parte “beati quelli che ascoltano e mettono in pratica”, quindi c’è anche la dimensione caritativa. Questo fa parte di un sistema che abbiamo nei Vangeli, del comportamento di Gesù, ma che deve essere riscritto per una società molto diversa com’è la nostra. Ecco la centralità del linguaggio inteso in questo senso.

C’è chi individua in una sorta di amnesia escatologica, la resa della Chiesa alle logiche mondane. Cosa ne pensa? In che modo “ultimo e penultimo” possono entrare in un rapporto fecondo?

Questo è proprio alla base della religione biblica, in particolare del cristianesimo: necessità di “logos e sarx”, grande fedeltà alla storia, ma attenzione non esauriamoci lì, che tutto sommato è anche impegnativo. Ma anche rispondere alle domande radicali, che senso ha questa nostra vita? Che cos’è l’oltre, l’ultimo? In questo senso credo che veramente c’è il rischio che si arrivi, come diceva lei, al penultimo ma poi non si va oltre, non si va più di tanto, non si cerca di entrare nel senso ultimo dell’essere e dell’esistere. Il Nuovo Testamento, in particolare l’Apocalisse, Romani 8, ecc. ci dicono del Regno di Dio, e questo è uno dei campi correlati al discorso della relazione tra “penultimo” e “ultimo”, nel cui annuncio dovremmo particolarmente impegnarci.

Siamo nel periodo che precede il Natale. A 800 anni dal Natale di Francesco a Greccio. Come testimoniare oggi il suo messaggio? Che augurio si sente di fare ai lettori di “Rocca” che l’hanno sempre seguita e a nome dei quali le rivolgo gli auguri più fervidi.

L’augurio più importante in questo tempo e in questo periodo è forse quello che si annoda attorno ad una parola, abusata in passato, ma che dobbiamo ancora riproporre nonostante tutto. Noi viviamo quest’anno un Natale di sangue. Perfino Brecht, in una sua poesia, rappresentava la vigilia di Natale con una coppia con figli, in una stamberga, dove passa il vento e il freddo… e lui conclude dicendo: “Signore Gesù, tu ci sei veramente necessario”. Non basta portare il pacco natalizio, fare la carità: questo è importante, ma non basta. C’è bisogno di qualcosa di più… ed è la parola speranza. Abituare la gente a guardare un po’ più alto, anche se non c’è subito quello che tu desideri, cerca di creare anche tu un qualcosa di oltre e di altro. Sperando che questo oltre e altro abbiamo alla fine la maiuscola. C’è una bella immagine che usa Péguy, scrivendo quel poema, citato anche recentemente da papa Francesco, “Il portico del mistero della seconda virtù”, che è la speranza. Ha un’immagine suggestiva e dice che la speranza è una delle tre virtù teologali. Le altre due sono le sorelle maggiori, la fede, credere è una conquista grandiosa, per non parlare della carità, dell’amore, eppure se non ci fosse la speranza resterebbero sempre ferme. La speranza fa quello, dice lui, che fanno i bambini, quando i genitori stanno camminando per una strada e si fermano a vedere le vetrine, oppure si fermano a parlare con degli amici; cosa fa il bambino o la bambina? Li strattona perché vuole andare avanti. Noi abbiamo due grandi genitori, fede e amore, ma abbiano anche questa “piccola” virtù che spinge, che strattona, che non ti fa rimanere lì ai margini scoraggiato o peggio ancora disilluso. In questo senso credo che sia l’augurio da fare, provare a rischiare, a sperare ancora e naturalmente sperando si deve andare avanti di un passo, perché la speranza trascina avanti e ti costringe a fare un passo in più.