Dalle parole d’amore di Gesù nasce la mia vocazione

Conversazione con Debora Rienzi

Debora Rienzi è laureata in Filosofia all’Università di Padova e in Medicina all’Università di Bologna. Dopo aver vissuto alcuni anni nella Fraternità Femminile dell’AMI (Associazione Missionaria Internazionale) come missionaria laica consacrata, ha intrapreso la vita monastica nel Monastero delle Monache Camaldolesi di Poppi (AR). Nel 2018 ha pubblicato una raccolta della sua produzione poetica, Mi bolle il cuore (per i tipi di Fara Editore). Negli ultimi anni si è dedicata alla ricerca teologica studiando presso lo Studio Teologico delle Benedettine Italiane e il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, divenendo una studiosa dell’interconnessione fra teologia, scienze e spiritualità.

Camaldoli luogo del silenzio, dell’ascolto, della meditazione, luogo dove si può ammirare una fra le foreste più belle d’Italia, alle pendici del Pratomagno. Siamo in provincia di Arezzo, nel comune di Poppi immersi nella natura incontaminata. Nel mezzo a tutta questa bellezza a pochi chilometri dall’eremo incontriamo nel Monastero delle Monache Camaldolesi Debora, monaca camaldolese, un incontro ricco e suggestivo che ci ha riempito di gioia, di spiritualità, di umanità.

Ciao Debora come stai? Chi è Debora Rienzi?

Ciao Stefano, permettimi di citare una poesia di Emily Dickinson: Io non sono nessuno! Tu chi sei? / Anche tu sei nessuno? / Bene allora saremo in due. Ma non dirlo a nessuno! / Ci caccerebbero e tu lo sai. / Che orrore essere Qualcuno. / Che volgarità, come una rana / che ripete il suo nome tutto il mese di giugno / a un pantano che la sta ad ammirare.

Un po’ forte come poesia, ma dice bene che il nostro essere non si esaurisce nelle definizioni, biografie, curriculum… La sapienza orientale direbbe neti neti, “né questo, né quello”. D’altro canto, ripercorro volentieri alcuni snodi della mia vita, in cui colgo l’accompagnamento di Dio. Mia madre è gallese e metodista, mio padre, non più in vita, era italiano e cattolico: ringrazio il Signore per questa commistione originaria, che mi rende cromosomicamente estranea a qualsiasi patriottismo o fondamentalismo. Pago certamente anche lo scotto di un certo sradicamento, che si è manifestato nella mia vita nel passare da un’infanzia e prima adolescenza in parrocchia, ad una giovinezza inquieta agnostica e anticlericale, fino ad approdare, a trent’anni, ad un’esperienza in missione, in Eritrea – i poveri mi hanno evangelizzato e salvato, in un momento di grande crisi personale –, da cui sono scaturiti quindici anni di vita missionaria come laica consacrata nell’AMI (Associazione Missionaria Internazionale). Ed infine, da sei anni, la vita monastica camaldolese… beata fragilità e irrequietezza, che mi ha condotto al monastero, dove vivo quel silenzio e raccoglimento di cui non saprei più fare a meno e che sento in continuità con tutto il mio cammino, come un andare più a fondo. Lungo questo percorso esistenziale arzigogolato, ho avuto la possibilità di studiare filosofia, medicina e teologia. Lo studio è una grande grazia per la mia vita.

Fai parte della Comunità Monastica delle Monache Camaldolesi di Poppi, in provincia di Arezzo, come si svolge la tua giornata?

La giornata comincia presto. Personalmente non so rinunciare ad un tempo di meditazione silenziosa in cella, prima dell’Ufficio condiviso con le Sorelle alle sei. Dopo l’Ufficio segue un tempo per la lectio e poi ci sono le Lodi. La celebrazione eucaristica feriale non è quotidiana, poiché sperimentiamo che un digiuno eucaristico intermittente rende più vigile e feconda la partecipazione alla Messa, soprattutto a quella domenicale. Le altre Ore comunitarie sono per noi quella Media a mezzogiorno e il Vespro serale. Il ritmo quotidiano prevede poi che la mattina sia dedicata prioritariamente al lavoro sia manuale che intellettuale e il pomeriggio al raccoglimento in cella, e quindi allo studio e alla lectio da riprendere e approfondire. Personalmente dedico anche del tempo alla pratica dell’Aikishintaiso, un’arte marziale interiorizzata, perché sperimento che il cammino spirituale si nutre anche della cura del corpo, e della psiche. Siamo un tutt’uno e la via di piena risposta alla Chiamata è psico-fisico-spirituale.

Recentemente è uscito il tuo ultimo libro “Dio rimane” con un sottotitolo molto significativo “Ri-orientamenti teologici”. Ci puoi spiegare quali secondo te sono questi ri-orientamenti?

Alla luce della consapevolezza, anche dolorosa, che una certa impostazione teologica classica non risponde adeguatamente alle nuove domande e sfide del nostro tempo, penso che si debba contribuire a un cambiamento di paradigmi, che peraltro è già in atto. A livello teologico in senso stretto, penso che si debba cominciare con il dare alla dottrina il posto che le spetta, ovvero un posto relativo… ai contesti storico-culturali, e dunque in continuo progresso sotto l’azione dello Spirito Santo. Mi sembra che questo ricollocamento sia favorito dal recupero delle facoltà non solo intellettive della nostra comprensione della fede: una comprensione anzitutto esperienziale, a partire dalla “carne”, ovvero dalla nostra umanità, in cui entrano in gioco a buon diritto anche percezioni, sensazioni, sentimenti, relazioni, oltre che concetti e speculazioni. Si tratta di un ri-orientamento nella direzione dell’integralità della persona umana rispetto alla relazione con Dio e alla riflessione teologica. Un altro livello, richiamato come urgente anche nella Relazione finale della prima sessione del Sinodo, è un ri-orientamento sul piano del linguaggio. E su questo, come sottolineato recentemente da Papa Francesco nel Motu Proprio Ad theologiam promovendam, ci soccorrono le altre discipline, le quali, con le loro categorie, ci aiutano a rinnovare le nostre parole (e idee) su Dio, con Dio. Penso in particolare alle scienze umane quali la l’antropologia e la psicologia, ma anche alle scienze naturali, come la fisica, la biologia, le neuroscienze. Ma se ne potrebbero citare anche altre. C’è una sapienza in ogni disciplina, cui attingere per far emergere la vita di Dio nella concretezza della realtà. Ed infine parlerei di un ri-orientamento sul piano delle immagini che abbiamo di Dio, alcune delle quali, in questo nostra epoca storica, non rendono più ragione della speranza che ci abita, con il rischio, già in atto, che molte persone in sincera ricerca spirituale si allontanino dalla proposta cristiana. Si rende necessario passare da una visione teista di un Dio onnipotente, lontano, tappabuchi direbbe Bonhoeffer, padre padrone giudicante, ad un’immagine frutto di esperienze spirituali unitive, intime (non intimiste), cordiali, riconcilianti, profonde e “potenti” in un senso diverso: quello della vicinanza di un Dio partner, presente, adamitico – cioè integrale (non patriarcale) –. Uno spostamento di questo tipo, permette inoltre di cogliere l’interdipendenza e la connessione del tutto e di tutti, consapevolezza alla quale le scienze – penso ora in particolare alla fisica quantistica – sono già arrivate. Mi sembra che la teologia abbia bisogno di rimettersi ad imparare qualcosa, prima di pretendere di mettersi in cattedra.

Nella prefazione al tuo libro il teologo Andrea Grillo pone questa domanda: in quale scaffale lo metteremo nella nostra Biblioteca?

Propongo di infilarlo nel nuovo scaffale di “Teologia trans-disciplinare” auspicato, implicitamente, nel Proemio di Veritatis gaudium.

Chi è per te il teologo nella Chiesa del 2024?

Raimon Panikkar sosteneva che la teologia è qualcosa di più di un’ermeneutica di un testo rivelato o insegnato, e, in questo senso, penso che non possa essere ridotta ad un approccio tecnico-specialistico alle fonti della nostra fede, sia scritturistiche che della tradizione. Mi sembra che l’acquisizione profetica del Concilio Vaticano II, che riscopre e valorizza l’apporto del sensus fidei fidelium (richiamato esplicitamente anche nel documento di Sintesi della prima sessione del Sinodo in corso) sia oggi centrale, a sostegno di una definizione della teologia e del servizio del/della teologo/a che non si riduca a criteri formali. Ogni cristiano/a, seriamente impegnato in un cammino di esperienza di Dio e di formazione (studio), può e deve contribuire all’attuale riflessione teologica, nella consapevolezza che l’essere “fuori” da un certo circuito accademico a volte può essere addirittura un vantaggio, e proprio sul piano speculativo: meno autoreferenzialità e più apertura alle altre discipline ed esperienze, rappresentano infatti una boccata di ossigeno vitale in questa cambiamento d’epoca, anche teologica.

L’anno scorso si è conclusa la prima fase del Sinodo voluto da papa Francesco. Quale contributo di valutazione vorresti dare, tenendo presente la Relazione di Sintesi cui accennavi e le questioni emerse, su cui si dovrà tornare nella prossima Sessione?

Mi permetto un contributo un po’ pepato, per amore della Chiesa. Mi sembra infatti che, rispetto alle aspettative, questa prima fase del Sinodo abbia lasciato un po’ di amaro in bocca. Non tanto rispetto a delibere che necessariamente potranno darsi solo in ultima fase, quanto rispetto ad alcuni temi importanti che non sono stati nemmeno citati, come l’ordinazione sacerdotale delle donne, o sono stati richiamati con poca chiarezza, come l’assenza della citazione della sigla lgbtqia+. Mi sono chiesta il perché di questa che appare come una mancanza di coraggio e, temo, un segno poco profetico. Al Sinodo in corso sembra mancare un po’ di anima… Nel documento traspare un certo timore rispetto alla tensione che si potrebbe innescare esplicitando maggiormente le divergenze di posizione, quasi a voler coprire, con la solarità dell’esperienza sinodale fatta, le inevitabili ombre e difficoltà del processo. Mentre, a mio avviso, i conflitti possono essere, come ci ha insegna il teologo gesuita Michel de Certeau, estremamente fecondi se gestiti con sapienza. E con una fecondità eminentemente teologica. Colgo inoltre, in questo atteggiamento un po’ pusillanime, una contraddizione di fondo: si parla reiteratamente di “sinodalità/sinodale” come stile di partecipazione di tutti al discernimento comune, e poi si lasciano fuori le posizioni più scomode di alcuni (e forse neppure pochi, tra il Popolo di Dio). E questo in una fase del lavoro che semmai dovrebbe invece allargare il più possibile gli orizzonti, sapendo che ci penserà la prossima Sessione a ridurli, mentre il processo inverso mi sembra più difficile, perché alcune tematiche non saranno reintrodotte. Il Papa sta dando molti segnali importanti – non ultimo Fiducia supplicans, ma penso anche alla riforma della Curia – ma non può essere lasciato solo. E se la Chiesa perderà ulteriore terreno rispetto alle domande del nostro tempo, potrebbe trovarsi ad essere ancora più irrilevante, per gli uomini e donne del nostro tempo, di quanto non lo sia già diventata.

Nella Chiesa si parla spesso di tradizione e tradizionalismo. Che differenza c’è?

Sappiamo che gli –ismi denotano la presenza di un’ideologia, che, come spiega lucidamente la monaca benedettina sr Teresa Forcades – nel suo libro “Il corpo gioia di Dio” – è «qualsiasi spiegazione della realtà che presenti sé stessa come “naturale”, negando i propri condizionamenti culturali, economici e socio-politici e così blindandosi rispetto alla critica e a un possibile cambiamento». A differenza dal tradizionalismo, la tradizione invece presenta un’intrinseca vitalità, data dal dipanarsi lungo la storia di esperienze – e riflessioni – che mutano, e che possono mutare proprio in funzione della stabilità delle radici. Per usare questa immagine: una pianta che non muta con le stagioni, perdendo le foglie in inverno e ributtandone di nuove in primavera, ha le radici morte. Quando invece le radici sono forti e sane, si muovono impercettibilmente e trovano costantemente i nutrienti nel terreno (fuori metafora: nei mutevoli contesti storici), affinché la pianta viva e dia frutto: frutti nuovi ad ogni stagione. Potremmo allora dire che il tradizionalismo è la tomba della tradizione, perché volendo fissare le radici, non permette loro di adattarsi al terreno e continuare ad attingerne le sostanze vitali.

Al termine del libro tu citi una poesia di padre David Maria Turoldo: “Sbagliarsi su Dio è un dramma. E’ la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita.” Che idea abbiamo noi di Dio?

Come scrivo nel libro: “Non si tratta di «avere ragione» rispetto a un’idea di Dio, quanto di superare lo schema sillogistico delle riflessioni teologiche classiche, per aprirsi ad un’esperienza, innanzitutto, e ad un’elaborazione, secondariamente, più aperte, inclusive, interroganti, sostanzialmente in itinere”. Le parole di Turoldo ci aiutano a prendere coscienza che questa ricerca esistenziale, spirituale e teologica è vitale per ogni essere umano. Mi consolo molto vedere che oggi esistono correnti, ancora un po’ nascoste – come un turgido sottobosco –, che stanno riformulando le nostre idee di Dio, alla luce dell’evoluzione della coscienza, e in tutto questo rivolgimento penso che siamo chiamati ad intercettare l’azione, scomoda ma entusiasmante, dello Spirito.

Chi è per te Gesù di Nazareth?

La piena realizzazione dell’umano, manifestazione del divino. Gesù per me è relazione con la “dimensione cielo” della mia anima, dove la verità è sussurrata e non gridata, e la gioia è cristallina e non sguaiata. Gesù è quel calore che alimenta le braci nascoste nella sorgente da cui emerge Dio. E quando si manifesta, prendendo corpo nella Parola e nella storia, innesca l’inaudito desiderio di essere povera e mite, distaccata infine dalle sirene del successo e del potere, tentazioni rumorose anche in una scelta di vita religiosa. Dalle segrete parole di amore di Gesù nasce la mia vocazione; in lui e per lui si dà il pane quotidiano che sostiene il mio passo; con lui, lievito nascosto di ogni realtà dell’universo, è possibile l’impossibile libertà e felicità da cui sento avvolta la mia vita.

In penombra
di silenzio
una brezza di pensiero
cala
lievemente
e si rifugia
sotto il mare
dove libero è l’amore.