Se questa è una donna

o delle inaccettabili motivazioni contro l’ordinazione delle donne nel Medioevo

Genealogia di un’esclusione

Nella Chiesa antica, le donne ricoprirono vari ruoli ministeriali ordinati al servizio di determinate comunità con specifiche funzioni. Durante i secc. XI e XII però l’ordinazione fu ristretta alle funzioni di presidenza eucaristica e ai maschi. Precedentemente, infatti, il diaconato era considerato un ordine e nel diaconato le donne erano incluse – vi fa riferimento anche il Concilio di Calcedonia. Successivamente esse vennero escluse da ogni ministero e responsabilità sulla base del loro sesso. Anche i toni delle argomentazioni contro l’ordinazione delle donne si inasprirono. Il celibato venne reso obbligatorio per il clero, il cui modello fu fortemente monasticizzato, con conseguente ossessione rigorista sulle leggi di purità. La marginalizzazione e la denigrazione delle donne presente nelle argomentazioni teologiche coeve fa parte della tattica volta ad incoraggiare la continenza e il celibato.
Le precedenti argomentazioni che già insistevano sull’inferiorità naturale delle donne, si arricchiscono di elementi sessuofobici. Pier Damiani (†1072) arriva a descrivere le donne in termini ripugnanti chiamandole incantatrici dei chierici, carne del diavolo, pozione delle menti, materia del peccare, occasione del perdersi, cagne, sanguisughe, vittime dei demoni. A parte alcune eccezioni, come Abelardo o Savonarola, gli autori tra il XII e il XV secolo risultano piuttosto unanimi nell’attribuire alla donna una posizione di inferiorità naturale rispetto all’uomo.

Impedimentum sexus

Le argomentazioni per escludere le donne dai ruoli ecclesiali restavano quelle della cultura patriarcale (la donna è inferiore), ma nuovi accenti intervennero ad esasperare quelle posizioni. Il Decretum Gratiani – una collezione di leggi canoniche redatta tra il 1130 e il 1150 che diventerà normativa in tutta la Chiesa occidentale – afferma che la donna deve velarsi il capo in segno della sua sottomissione perché non è creata a immagine di Dio. Si rafforza l’accusa di essere – in quanto Eva – causa principale del peccato originale. La stessa condizione femminile diventa negativa con la giustificazione lessicografica di Isidoro di Siviglia – ma già di Varrone – secondo la quale mulier (donna) deriva da mollitia (debolezza) mentre vir (maschio) da virtus (forza). Il tutto contribuì a gettare le donne in uno stato di forte sottomissione sociale. Il Decretum stabilì che le donne non avevano il diritto di accusare nessuno in tribunale, né di testimoniare o di intercedere (al pari dei bambini), erano escluse dal ruolo di giudici e dalle funzioni connesse all’avvocatura.
I canonisti riesumano l’impurità cultuale delle donne: Rufino di Bologna († 1191) afferma che le donne mestruate non devono entrare in chiesa. Siccardo di Cremona († 1215) sostiene che dopo un parto le donne non sono ammesse in chiesa; il tempo di esclusione cambia a seconda del sesso del neonato: in caso di una neonata, il tempo raddoppia. Tommaso di Chobham (†1233), afferma l’inferiorità del sesso femminile intrecciandovi l’argomento dell’impurità a causa del mestruo ed esclude le donne dagli uffici liturgici perché possono indurre alla concupiscenza i maschi.
Uguccione da Pisa († 1210) afferma che le donne non possono essere ordinate per una legge della chiesa e per il sesso: infatti Dio appare più potente e più glorioso nella creazione del maschio, perché fatto per sé, direttamente da Dio, mentre la donna dall’uomo e quindi deva anche glorificare Dio attraverso la mediazione di un uomo: dunque i maschi devono istruire le donne e non viceversa. Il semplice fatto di essere donna avrebbe negato la possibilità di esercitare funzioni ministeriali quand’anche fosse stata conferita un’ordinazione (tanto è vero questo che per quanto riguarda gli ermafroditi: se sono più femmine che maschi non possono ricevere gli ordini, ma se hanno una prevalenza del sesso maschile, sì).
Anche circa l’insegnamento e la libertà di parola delle donne, i toni diventano sempre più aspri e misogini, probabilmente a causa delle polemiche sollevate dalla libertà di predicazione delle beghine e di quei movimenti – poi dichiarati ereticali – come i valdesi, i catari, i lollardi che permettevano alle donne maggiori spazi all’interno della Chiesa, sulla base del maggiore rilievo dato al sacerdozio comune.

Tutti uguali ma alcuni più uguali di altre

Secondo Duns Scoto (†1308) l’unico argomento per un’esclusione delle donne dal sacerdozio sarebbe un’ipotetica esplicita volontà di Cristo, che sola potrebbe giustificare ciò che altrimenti sarebbe una «maxima iniustitia».
Guido da Baisio († 1313) scrive: «La donna non è un membro perfetto della Chiesa: lo è soltanto l’uomo» motivandolo sulla base della colpa nella caduta di Adamo».
Egidio di Bellamera (†1407) afferma che «le donne sono escluse dagli uffici civili e da quelli pubblici» perché «sono fragili e meno intelligenti».
Le argomentazioni si ripetono: la donna avrebbe una debolezza strutturale. una razionalità meno vivace, una mutevolezza di emozioni, una disposizione instabile e non adatto a governare.

Mulier da mollitia

Nelle leggi ecclesiastiche le donne sono considerate al pari dei bambini o dei servi, soggette alla protezione e alla correzione dei maschi. Intellettualmente inferiori ai maschi, sono ritenute volubili, inaffidabili e ignoranti, devono essere protette, disciplinate e governate dagli uomini maschi. Non sono in grado di comprendere la legge e quindi di applicarla.
A Bernardo di Botone (†1266), canonista di Parma, viene attribuita la seguente affermazione: «Che cosa è più leggero del fumo? La brezza. Cosa più della brezza? Il vento. Cosa più del vento? Una donna. Cosa più di una donna? Niente». Le donne sarebbero troppo stupide per conoscere la legge e quindi non possono essere responsabili di fronte a essa.
Enrico da Susa (†1272) non interrompe la denigrazione: «Il sesso delle donne è naturalmente più debole, infatti comunemente ella vive meno a lungo poiché ha meno calore naturale e quindi quanto prima finisce quanto prima deve arrivare a completezza […]. Platone dice la verità quando afferma che le piante cattive crescono prima di quelle buone.»
Nicolao dei Tudeschi (†1453) afferma che la donna non è degna di fiducia, mentre l’uomo è capace di persuadere; la testimonianza degli uomini rispetto a quella delle donne è sempre da preferire: l’uomo è chiamato vir non per il suo sesso, ma perché ha costanza e forza d’animo.

Alle radici del principio mariano

Parallelamente, e paradossalmente, accanto a questa linea svalutativa delle donne, inizia una traiettoria di esaltazione devozionale della donna-angelo e acquista forza quello che oggi si chiama il “principio mariano” fondato su un dualismo antropologico determinista ed essenzialista. L’eterno femminino viene esaltato in Maria, elevata a modello delle donne; modello inarrivabile e schiacciante perché quanto più risulta determinante l’unicità e il privilegio di Maria, tanto più le donne concrete, identificate con Eva, sono relegate a ruoli di subordinazione. Sebbene questa linea di pensiero sembri esaltare l’ideale femminile, di fatto denigra le donne concrete. Bernardo di Chiaravalle (†1153) chiaro esempio di questa traiettoria afferma infatti: «il sesso femminile è il più vile, infatti ha uno spirito lussurioso». Maria, quindi, è perfetta perché casta, feconda, vergine e madre. Nella contrapposizione tra Eva (e in lei tutte le donne e anche gli uomini peggiori) e Maria, la prima è fonte di morte, la seconda è fonte di salvezza, tanto elevata da essere inarrivabile e diventare (quasi) divina, un divino femminile, proiezione dei desideri maschili, che ha poco a che fare con la Maria biblica.

E il Verbo si fece maschio

Nei trattati teologici, a partire dal 1240-50, avanza un’insistenza inedita sull’importanza della sessuazione maschile per l’ordinazione.
Bonaventura (†1274) sottolinea che la funzione di potestas spiritualis tipica del Cristo deve essere significata da un maschio perché è il sesso migliore, il più forte, il “più perfetto” e in lui l’imago si ha in modo preminente; la donna è «infirmior». Il maschio è migliore anche per la communicatio idiomatum, perché Cristo ha comunicato all’uomo che ha assunto le sue proprietà divine e queste proprietà sono comunicate maggiormente dal sesso maschile. L’incarnazione di Cristo si è verificata non tanto nell’homo ma nel vir. Anche il “dominio” di cui parla Gen 1,26 si riferirebbe solo al maschio. Così la donna non può essere capo dell’uomo e anche il potere di certe donne, quali Debora, la profetessa giudice del Libro dei Giudici, non va considerato di ordine spirituale, ma solo temporale. Perfino le abbadesse, non potendo in alcun modo assumere il ruolo di guida, sono per lui semplicemente delle sostitute di un abate in una comunità femminile e sono tollerate solo perché un abate non potrebbe abitare con le monache senza rischi. La capacità di significare il potere spetta dunque solo all’uomo maschio, il solo a poter ricevere la grazia di stato perché porta in sé l’immagine di Cristo capo.
Bonaventura utilizza per il vescovo una metafora matrimoniale che suppone chiaramente un subordinazionismo di genere tipico dello schema socioculturale antico: il vescovo-sposo rappresenta Dio, mentre la Chiesa-sposa gli è sottomessa, come le mogli. Inoltre, mentre il collegamento tra il ruolo dello sposo e la mascolinità del vescovo risulta essenziale, non lo è il collegamento tra il ruolo della sposa con la femminilità dei membri della Chiesa che infatti sono anche maschi. Insomma, se nello sposo il legame tra sex e gender risulta determinante, nella sposa è indifferente.
La “mascolinità” in quanto significa autorità, libertà e ragione è ritenuta una caratteristica di tutti i maschi per il fatto stesso di essere nati maschi. In questo ambito, si inserisce Tommaso d’Aquino (†1274) che riassume le tendenze di questo contesto, anche teologico.
Dall’arcaica biologia di Aristotele egli ricava l’idea che la donna sarebbe fisiologicamente un maschio menomato («vir occasionatus») e poiché alle differenze fisiche devono corrispondere anche differenze psicologiche o spirituali, la donna è anche psicologicamente inferiore. Per lui la creazione della donna non era nemmeno così necessaria se non per la procreazione. Tommaso ritiene che le donne manchino di ragione, requisito necessario a ogni ruolo di presidenza. Cita poi Aristotele dicendo che il potere in mano alle donne conduce alla rovina.
Guglielmo Durando (†1296) ripeterà il tema della debolezza del corpo delle donne e della loro imperfezione a livello di ragione. Ecco come le migliori menti del passato non siano state in grado di individuare gli effetti delle convenzioni sociali sul loro pensiero, identificando in modo errato la subordinazione sociale della donna con la nozione stessa di femminile.

Lascive come Eva

Ugo di San Caro (†1263) afferma che la natura di ogni donna è fatta per la trasgressione. Enrico di Gand (†1293) sostiene che la donna non ha costanza, non è capace di portare a termine qualcosa perché è fragile, non ha autorità quindi non può insegnare perché non ha vivacità di parola. Tuttavia ella può insegnare a casa ai bambini o alle altre donne.
Thomas Netter (†1430) afferma che il peccato adesca tramite la voce allettante della donna così da far cadere l’intelletto in una rete di dolci parole. La donna non deve insegnare all’uomo perché il suo sesso è più debole. È lei ad aver portato nel mondo la morte tramite il serpente, infatti ella è incline all’errore e conduce all’errore altri.
I teologi del XIV e XV secolo si allineeranno su queste tematiche. Solo Domenico de Dominicis, vescovo di Torcello e Brescia (†1478), ammetterà che le donne possono avere anche un potere di giurisdizione, come i laici e le badesse, in foro esterno e cioè possono ricoprire cariche pubbliche, tuttavia non possono predicare, secondo quanto detterebbero i consueti divieti paolini. Innocenzo III del resto aveva tolto, nel 1210, alle badesse il potere di benedire le monache, udire le loro confessioni, leggere il Vangelo e predicare in pubblico, tutte funzioni previste dalle Regole monastiche antiche. Queste infamanti definizioni delle donne dicono meno delle donne di quanto esprimano di coloro che le pronunciano. Sono infatti definizioni di uomini maschi bisognosi di denigrare l’alterità, disprezzando così anche sé stessi.