Vivere ardendo e non sentire il male

Extracanone

Ingeborg Bachmann
Il libro Franza
Adelphi, 2024, pp. 377
€ 14,00

Un romanzo incompiuto può essere bello e interessante? Senz’altro sì, come nel caso de “Il libro Franza” di Ingeborg Bachmann, ripubblicato oggi da Adelphi. Per certi versi proprio l’incompiutezza dell’opera restituisce un legame profondo con l’autrice e chi ama Bachmann non può fare a meno di procurarsi questa nuova edizione, perché in essa emerge lei, la sua scrittura così intrisa nella sua vita. In passato era uscito con il titolo “Il caso Franza” e oggi ne viene proposta una nuova edizione, filologicamente più rigorosa e ricca, curata in Italia da Luigi Reitani, germanista e traduttore, scomparso nel 2021, grande studioso di Bachmann. Reitani introduce il volume con un breve saggio “La nostalgia di Iside” in cui si illustra la storia del libro, le sue edizioni e interpretazioni, la nuova edizione italiana del ciclo “Cause di morte”, per poi concentrarsi sulla struttura del libro, i personaggi principali, le prospettive narrative e i luoghi d’azione.

“Il libro Franza”, sin dalla sua prima pubblicazione postuma nel 1978, è considerato una delle opere più politiche di Bachmann, sia per quel che riguarda i richiami al femminismo sia per ciò che concerne la critica del fascismo, per quanto i rapporti di Bachmann con il movimento femminista e con l’antifascismo furono tutt’altro che stereotipati. Già nel 1986 Xaver Schwarzenberger, collaboratore di Fassbinder, ne ricavò il film “Franza”, mentre “Viaggio nel deserto” si intitola il film che Margarethe von Trotta ha voluto dedicare alla figura di Bachmann nel 2023, cinquantenario della sua morte, richiamando un viaggio in Egitto che Bachmann fece insieme all’allora suo compagno Adolf Opel, dopo la fine della relazione con Max Frisch, e che trova ne “Il libro Franza” una trasposizione letteraria. Dall’edizione critica emerge chiaramente come “Il libro Franza” doveva inglobare quella che Bachmann aveva precedentemente concepito come una pubblicazione a parte “Il libro del deserto” e che poi confluì nel progetto successivo delle “Cause di morte”, dando così vita al progetto di romanzo che non trovò però mai compimento definitivo.

A recarsi in Egitto sono Fransiska (la Franza del titolo) e suo fratello Martin. La protagonista si era rifugiata nella casa dei nonni in Galizia per fuggire dal marito che a Vienna l’aveva costretta ad abortire, incarnazione di un fascismo antropologico, nel senso inteso da Bachmann di storia che si cala nell’io dei personaggi, riproposizione della dinamica vittima-carnefice con i suoi richiami agli eventi di cui fu testimone la scrittrice sin da ragazzina con l’avvento del nazismo. Il fratello di Franza le va in soccorso e la porta in viaggio in Egitto: tra il Nilo e il deserto emergono, come in un’opera di decifrazione dei geroglifici che corrisponde a un viaggio nella psiche, scandito da momenti allucinatori per l’uso di droghe, gli strati degli abusi psicologici e fisici da parte del marito. Non c’è salvezza né catarsi, le ferite interiori sono troppo profonde, la malattia prende il sopravvento e il ritorno dal deserto getta nuovamente la protagonista nelle mani dei carnefici, questa volta nelle vesti di un medico viennese, fino a trovare la morte. “È un libro che parla di un delitto… tenta di far conoscere, di ricercare qualcosa che non è scomparso dal mondo. Oggi è soltanto infinitamente più difficile commettere delitti, ecco perché questi delitti sono tanto sublimi che quasi non riusciamo ad accorgercene e a comprenderli, benché vengano commessi ogni giorno nel nostro ambiente, tra i nostri vicini di casa” ebbe a scrivere Bachmann della sua opera, ispirandosi probabilmente al maestro di saggezza Me-ti del “Libro delle svolte” di Brecht.

De “Il libro Franza” Bachmann preparò cinque prefazioni diverse, così come dei capitoli che lo dovevano comporre esistono numerose versioni, anche di poche pagine. Nell’edizione critica oggi proposta si riesce a cogliere il lavorio, le idee narrative che ancora ribollivano nell’ottobre del 1973, quando l’autrice morì nel reparto grandi ustionati dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma. Venti giorni prima era stata vittima di un incendio nel suo appartamento romano di Palazzo Sacchetti a Via Giulia. Accanita fumatrice di Gitanes senza filtro, un mozzicone ardente fece prendere fuoco alla vestaglia e lei – intorpidita dai barbiturici che assumeva in dosi massicce – non riuscì a mettersi in salvo. A nulla servirono i farmaci fatti giungere con un permesso speciale dalla base NATO di Napoli, utilizzati dall’esercito statunitense per i soldati in Vietnam. Già all’epoca dei fatti alcuni pensarono al suicidio, ma in oltre cinquant’anni non si sono trovate né conferme né smentite a tale ipotesi e l’episodio della morte rimane avvolto dal dubbio. Chissà se la desecretazione di documenti personali, annunciata dalla famiglia Bachmann per il 2025, contribuirà a far luce sulla vicenda.

Tre anni prima si era tolto la vita gettandosi nella Senna uno dei suoi grandi amori, Paul Celan. Con lui Bachmann aveva avuto una storia da giovanissima, quando faceva parte del Gruppo 47, letterati e scrittori di lingua tedesca alle prese con la rinascita culturale dopo il nazismo. Terminata la relazione i due rimasero sempre in contatto, ne è testimonianza il loro ampio epistolario proseguito fino alla morte di lui nel 1970. Celan, di famiglia ebrea, con i genitori morti nei campi di sterminio, sfuggito lui stesso alla morte negli anni della guerra, Bachmann figlia di un insegnante che aveva aderito al regime nazista, laureata con uno studio su Heidegger e poi su Wittgenstein. Letteratura (poesia in primis) e filosofia in un ambiente come quello dell’Austria dall’Anschluss al dopoguerra, dagli ultimi scampoli del Circolo di Vienna alla nuova generazione di scrittori e scrittrici.

Dopo gli studi Bachmann aveva cominciato a lavorare nel campo del giornalismo radiofonico, ambiente in cui rimarrà per tutta la vita, nonché a collaborare con l’amico musicista Hans Werner Henze, che anni dopo la convincerà a raggiungerlo in Italia. Ma presto a Vienna Bachmann conobbe Celan e fu subito amore, incontenibile e ingovernabile. Per loro fu presto riconoscimento e successo: Celan fu definito da Adorno come il più importante lirico di lingua tedesca dopo Rilke, Bachmann si aggiudicò il premio messo in palio dal Gruppo 47 per le sue poesie e pochi anni dopo finì sulla prestigiosa copertina di “der Spiegel” e anche oggi Bachmann è considerata tra le più importanti scrittrici in lingua tedesca del Novecento. Tuttavia, quello con Celan si dimostrò un amore impossibile, troppo tormentato da permettere di stare insieme e infatti le strade si separarono, pur restando in costante e intimo contatto.

Ancor prima del suicidio di Celan, Bachmann aveva sofferto della fine della relazione con Max Frisch: troppo svizzero lui, troppo innamorata di Roma lei, nata a Klagenfurt in Carinzia, a pochi chilometri da Slovenia e Italia, immersa sin dall’infanzia in un clima multiculturale e multilinguistico (la famiglia aveva un ramo di origine slovena e apparteneva alla minoranza protestante) che per tutta la vita la accompagnò facendole cambiare continuamente abitazione, ma prediligendo su tutte la Città Eterna (in cui pure alternò diversi appartamenti). Avevano provato a convivere, ma lui insisteva per Zurigo, lei per Roma e la storia dopo poco più di quattro anni finì. Fu proprio dopo la fine della relazione con Frisch che Bachmann si recò in Egitto. Ebbe un crollo psichico, iniziò trattamenti clinici e farmacologici, da lì le rimase quella confidenza con i sedativi che le fu poi fatale in occasione della morte. Frisch pubblicò “Il mio nome sia Gantenbein”, dove la trasposizione letteraria della loro relazione non sfuggì a Bachmann che di par suo decise di dedicare una serie di romanzi ai “modi di morire” o “cause di morte” (il termine tedesco Todesarten è utilizzato da Bachmann come variazione del più comune Lebensarten che sta per “modi di vivere”).

Aveva nel frattempo abbandonato la poesia: le veniva troppo facile scrivere versi e temeva di farlo senza una vera ispirazione esistenziale. Aveva deciso di dedicarsi alla prosa, dapprima in forma di racconti, poi più avanti con il progetto della serie di romanzi sulle “cause di morte”. L’abbandono dei versi, ripresi solo in rare occasioni, fu per Bachmann una sorta di seconda fase della sua scrittura, più problematica, critica, sofferta: un passaggio dal periodo estetico-metaforico delle poesie a quello speculativo-utopico degli scritti in prosa. È il periodo che Bachmann venne chiamata all’Università di Francoforte per una serie di lezioni di poetica, dove la sua riflessione ebbe modo di approfondirsi su posizioni vicine a quelle di Marc Bloch. Riuscì a pubblicare solo il primo dei romanzi previsti per declinare le cause di morte, “Malina” nel 1971, mentre “Il libro Franza”, iniziato ben prima, rimase sempre in lavorazione, con continue nuove stesure e versioni alternative: quelle che oggi possiamo apprezzare nell’edizione pubblicata.