L'editoriale
Il sogno necessario
E dunque ora che fare? Cosa immaginare per il futuro della terra dolorante e insanguinata di Israele e di Palestina? Dentro lo spessore di un odio seminato nel tempo dell’indifferenza della comunità internazionale e nel prevalere dentro i due campi delle forze più ciniche, miopi e aggressive? Nel periodo caratterizzato da un lato dal crescente logoramento della democrazia israeliana fino alle ripetute e grandi manifestazioni di piazza contro l’attacco da parte di Netanyahu e del suo governo di iperdestra alla magistratura costituzionale di cui anche Rocca ha ripetutamente parlato, e dall’altro dalla sempre più irriducibile spaccatura dentro il mondo palestinese tra Fatah e Hamas fino alla rottura tra l’Amministrazione della Cisgiordania e quella di Gaza. Per ricreare le condizioni di sbocco di un conflitto senza fine bisogna prima di tutto cercare di comprendere la situazione, le forze in campo e le loro dinamiche. Mai come ora valgono, soprattutto per quanti amano questa terra e i suoi popoli, le parole di un grande ebreo perseguitato anche dalla sua comunità, Baruch Spinoza: nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere. Non si tratta di mettere tutto sullo stesso piano. È evidente che tra un Paese pluralista e una organizzazione terrorista con basi di massa non c’è equidistanza però anche un Paese pluralista può con le sue scelte alimentare tensioni così profonde sulle quali finiscono per germinare e ingigantirsi le forze peggiori. Quelle che hanno portato a quello shabat di inizio ottobre che non solo deve essere condannato ma che, occorre dirlo, rappresenta un abominio senza precedenti. Ce lo dicono con grande sofferenza anche quanti, David Grossman e tanti altri intellettuali e pacifisti israeliani spesso residenti nei kibbuzzim violentati, hanno sempre combattuto per la pace e la convivenza ed hanno compreso e sostenuto la causa palestinese. Tuttavia il diritto di Israele a difendere la propria sicurezza non può, come sta avvenendo, scaricarsi sulla popolazione civile di Gaza nelle forme terribili cui stiamo assistendo e in violazione del diritto internazionale di guerra e di qualsiasi senso di umanità. C’è uno straordinario pensiero che Etty Hillesum scrive nel proprio diario di internata e poi di martire su cui varrebbe la pena riflettere: “È proprio l’unica possibilità che abbiamo, non vedo alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale…”
Non esiste altra strada di superamento di questo antico conflitto (lo Stato binazionale è solo una fuga in avanti pericolosa) se non quello di riprendere la via verso la costituzione di due Stati per due popoli avendo come bussola le risoluzioni delle Nazioni Unite e i diversi accordi disattesi lungo questi decenni. Forse quando si tocca il fondo dell’errore e dell’orrore si possono riaprire ipotesi apparentemente, sul momento, irrealistiche ma che costituiscono quel sogno necessario che abbiamo scelto come titolo di copertina di questo sofferto numero della rivista. Due popoli, due Stati con un rapporto confederativo che possa coinvolgere anche la Giordania, Paese i cui cittadini sono palestinesi per più del cinquanta per cento, in una terra che va dal Giordano al Mediterraneo. Per Israele è l’unico modo di garantirsi una sicurezza che non si fondi esclusivamente sulle armi, per i palestinesi l’unico modo per avere, per la prima volta, uno Stato, in un territorio che, lungo la storia, ha conosciuto solo una infinità di dominazioni. La comunità internazionale e in primo luogo l’Europa, se riesce ad uscire dalla sua invertebrata nanità politica, debbono sostenere con ogni sforzo questo processo. È fondamentale per la pace dentro un quadrante simbolico, culturale, economico e strategico tendenzialmente deflagrante. L’alternativa a questo è solo l’imporsi con la forza di uno dei soggetti in campo con la prospettiva di un ampliarsi della guerra fin dove non si sa e del dilagare del terrorismo interno e internazionale. In questo senso gli opposti fondamentalismi religiosi sono un veleno mortale. Israele non è tout court il popolo ebraico e il popolo ebraico è popolo che ha avvertito la chiamata di Dio non perché più virtuoso degli altri ma per essere, semmai, segno di pace tra gli altri, essendo come tutti gli altri, per dirla con uno dei fondatori del moderno Israele popolo di lavoratori, di donne e di uomini virtuosi, di ladri e di puttane. E cosi per il popolo arabo di Palestina sarebbe certo auspicabile che emergesse con più forza la compresenza di musulmani, cristiani, laici come per molti anni è stato che lascino immaginare un futuro non solo di indipendenza ma anche di libertà soprattutto per i giovani e le donne.
È ovvio che se si continua a coltivare il retropensiero secondo cui il male sta nella decisione delle Nazioni Unite di consentire la nascita dei due Stati prima inesistenti e che Israele deve essere espulso dall’area con le buone o con le cattive, allora non resta che il terrorismo e la guerra. E analogamente se in Israele si pensa ad un grande Stato “ebraico” non c’è che l’insicurezza permanente, la tensione, l’armarsi fino ai denti e l’aumento dell’odio e dello spirito di vendetta da parte di un popolo oppresso e privato dei propri diritti.
Capisco che questo ragionamento riposa ancora largamente su desideri ed auspici e tuttavia essi non sono campati in aria ma radicati in una terra che, in alcuni momenti preziosi, ha avvertito l’esistenza di una via d’uscita tanto ardua quanto reale e praticabile, un’altra via, per la quale valga la pena deporre le armi delle ragioni che, dall’una parte e dall’altra, possono essere accampate.
Le condizioni per seguire questa strada, l’unica realistica a dispetto delle apparenze contrarie, sono certamente difficili ma chi è fuori dal fuoco del conflitto ha il dovere di aiutare a definirle.
Innanzi tutto che cessi il massacro della popolazione civile a Gaza;
che si interrompa la crescente colonizzazione della Cisgiordania;
che l’Autorità Nazionale Palestinese, magari rinnovandosi e ponendosi all’altezza di questo tempo cruciale, prenda le distanze dal terrorismo e rilanci la proposta di un accordo sulla base del diritto internazionale;
che il mondo arabo moderato assuma la questione della costituzione dello Stato di Palestina dentro la cornice dei cosiddetti accordi di Abramo che invece stavano passando sulla testa dei palestinesi;
che la comunità internazionale accompagni un percorso sul quale, almeno a parole, i diversi Stati che la compongono si dicono concordi.
La via del terrorismo e della guerra non ha consentito di realizzare in settant’anni né la sicurezza di Israele né la nascita dello Stato palestinese. Avrà un senso o no imboccarne un’altra? Con molto realismo, senza massimalismi, senza integralismi e sovraeccitazioni religiose, si può immaginare non l’amore reciproco ma una convivenza decente. Il resto potrà farlo la scoperta progressiva di quanto quella terra, curata da due popoli, possa divenire ricca di benessere per tutti.
Non è troppo sperare in questa prospettiva, è troppo poco non fare tutto il possibile perché essa muova dei passi.