L'editoriale
Il prossimo non è quello che viene dopo
Il bellissimo disegno che Amaro ci ha concesso per la copertina di questo numero racconta uno dei più noti episodi presenti nell’Evangelo di Luca (10,25-37): quello del samaritano, cioè di colui che, di fronte al volto sofferente di uno sconosciuto (“un uomo”), a differenza di tutti coloro che blindati nel proprio ruolo e nel proprio compito non trovano il tempo nemmeno per fermarsi e guardare, interrompe il suo cammino, vede il ferito spogliato e percosso, lo soccorre, si fa carico del dolore e del bisogno di quell’ ecce homo. C’è una fulminea frase di Tolstoj che suona così: “Se riesci a provare dolore, sei vivo. Se riesci a sentire il dolore degli altri, sei umano”. Ogni pratica di relazione umana e ogni idea di organizzazione sociale dovrebbe partire da qui, da quella che un grande teologo tedesco, J.B. Metz, definisce l’autorità di coloro che soffrono. Se non si mette qui la punta del compasso per tracciare l’arco della giustizia sociale non si costruisce una convivenza decente e tanto meno felice. Non si può essere felici dentro la chiusura egoistica e la presunta e presuntuosa autosufficienza individuale, familiare, di classe o anche nazionale. Quella che il samaritano indica è un’altra strada rispetto a quelle che anche uno sguardo immediato ci pone sotto gli occhi tra guerre, disuguaglianze crescenti tra Paesi e dentro di essi con una concentrazione della ricchezza mai così estrema, messa in discussione di libertà, tutele, diritti sociali, spazi di democrazia. E l’acutizzarsi di una gigantesca e ormai tangibile crisi dell’equilibrio ambientale. Tutto questo richiederebbe quello che è stato definito un pensare radicale e un agire accorto. Non il chiacchiericcio della politique politicienne che da ogni salotto televisivo scioglie nel gossip la densità dei problemi reali, non il rubinetto sempre aperto da cui sgorga il profluvio di notizie che da ogni parte del mondo grattano appena la superficie delle questioni cruciali che riguardano la vita reale delle persone. Dentro questa grande bolla si veicola l’idea che le dinamiche reali dell’umanità, quelle economiche, quelle geopolitiche, quelle ecologiche sono guidate da leggi inesorabili su cui non è possibile esercitare alcun controllo e alcun governo; magari ti lasciano l’illusione solipsistica di un cinguettio. È possibile, in questo contesto, che la politica, cioè la pretesa delle donne e degli uomini di governare la polis, definendo i fini da raggiungere ed i valori su cui poggiare la convivenza, torni ad essere centrale e non ancilla di giganteschi interessi sempre più mobili e sfuggenti? Essi non hanno occhi per vedere lo sconosciuto “mezzo morto” sulla strada tra Gerusalemme e Gerico. Una politica capace di vedere le sofferenze e le ingiustizie, di farsi carico di esse, di percorrere un’altra strada. Capace di pensare una nuova rivoluzione etica e sociale riprendendo il filo del discorso che le istanze e le lotte democratiche, socialiste, femministe, ambientaliste, hanno condotto avanti nel corso di secoli e che hanno spostato l’asticella dei diritti umani, civili, sociali, di genere. Oltre il fallimento storico di alcune ideologie bisogna operare affinché non scompaia l’idea e la pratica della giustizia.
Come rifondarla una politica capace di governare la tecnica, orientare l’economia al bene comune, tenere insieme libertà e uguaglianza? A partire da dove nell’epoca della crisi verticale della rappresentanza e delle forme storiche di organizzazione democratica come i partiti? Dovremo forse pensare a innervare politicamente tante esperienze che dal basso praticano un’altra via, che rifiutano la logica dello scarto, che testimoniano concretamente l’accoglienza, il recupero, la solidarietà. D’altra parte, l’idea e la pratica del mutuo soccorso fu nell’Ottocento l’incubatore di soggetti politici orientati all’uguaglianza e alla comune destinazione dei beni. Forse le buone pratiche orizzontali possono incarnare nel presente l’istanza radicale del samaritano. In questo numero il nostro Marco Bevilacqua ha incontrato don Ettore Cannavera protagonista di un’esperienza di recupero e di reinserimento dei “perduti”. Questi sono i luoghi da cui può germogliare un’alternativa alle logiche dominanti; l’idea e il tarlo necessario che un altro paradigma sociale è possibile; che altre relazioni umane sono praticabili. E che infine il benessere economico e spirituale, il buen vivir, può esistere solo nella condivisione.