L'incontro
Il grande orrore degli allevamenti intensivi
Il film Food for Profit svela i terribili retroscena dell’industria della carne
Conversazione con Giulia Innocenzi
Immaginatevi un maiale a sei zampe o una mucca senza corna e con due organi riproduttivi. Potrebbero essere animali come questi, a breve, a essere stipati in allevamento per produrre cibo e latte destinati all’uomo. Incubo distopico? Pare proprio di no, visto che le galline senza piume sono già una realtà in certi allevamenti israeliani, così come i maiali ad accrescimento rapido “prodotti” nelle fattorie industriali cinesi (dove si alleva e si macella un miliardo di suini l’anno) e i superpolli messi all’ingrasso un po’ ovunque in Europa, così obesi da non poter più camminare. Animali selezionati geneticamente per diventare nel minor tempo possibile serbatoio di proteine a basso costo e di scarsa qualità.
L’obiettivo è semplice e brutale: sviluppare una zootecnia orientata esclusivamente alla produttività, ossia alla velocità di produzione e all’abbattimento dei costi. A vantaggio di chi? Certamente dei grandi gruppi dell’industria della carne. Ma non dell’ambiente, non della qualità del cibo, non della salute pubblica, e certo nemmeno di animali considerati come oggetti, privi di diritti e di dignità.
Giulia Innocenzi, coraggiosa reporter impegnata da anni sul fronte delle inchieste giornalistiche più scomode, ha girato con il regista Pablo D’Ambrosi Food for Profit, un dirompente documentario investigativo, frutto di oltre cinque anni di lavoro e distribuito in questi giorni nelle sale italiane.
Il film documenta un dato clamoroso: il 90% degli allevamenti europei applica il modello intensivo. Ma i cittadini sono tenuti all’oscuro di questo, perché manca in Ue una definizione di allevamento intensivo. Ambiguità che consente di destinare buona parte delle risorse della Pac (Politica agricola comune) proprio agli allevamenti intensivi. Ci può spiegare il meccanismo che ha scoperto e il ruolo delle lobbies dell’agrifood a Bruxelles?
«La Pac elargisce quasi 400 miliardi di euro in sussidi nell’arco di sette anni. Ma l’obiettivo nobile di sostenere i piccoli agricoltori si è tradotto in un aiuto economico sempre più sproporzionato a favore dei grandi gruppi industriali e degli allevamenti intensivi. Tant’è che negli ultimi vent’anni molte aziende agricole medie e piccole hanno chiuso e nel frattempo il numero medio di animali allevati in grandi concentrazioni è aumentato esponenzialmente. Di fatto, i cittadini europei stanno finanziando un sistema agricolo insostenibile sotto tutti i punti di vista, a partire dai maltrattamenti agli animali, ma anche sotto il profilo dell’inquinamento dell’ambiente e del pericolo per la nostra salute. Il punto è che questi soldi arrivano ai grandi gruppi industriali grazie alle lobbies che esercitano in modo opaco grande influenza e pressione sui decisori politici. Nel film abbiamo seguito con una telecamerina nascosta i colloqui fra un lobbista, nostro infiltrato, e alcuni eurodeputati schierati in modo risoluto sul fronte del sostegno alla produzione e al consumo di carne. Come si vede, il risultato è che questi eurodeputati sono disposti a credere a qualunque ipotesi scientifica, persino a quella di produrre maiali a sei zampe creando in laboratorio una mutazione genetica, se solo intravvedono il miraggio di un incremento della produzione o di una diminuzione dei costi. Sono disposti a dare credito a qualunque interlocutore e a prendere in considerazione ogni tipo di ipotesi, anche le più aberranti sotto il profilo etico come l’editing genetico. Oggi a Bruxelles operano 25 mila lobbisti, la maggior parte dei quali si iscrive nell’area dell’agrifood, e tutto ciò rappresenta un elemento che inquina fortemente la nostra democrazia».
Intanto in Italia la politica alimenta la narrazione del Made in Italy, ma a quanto pare buona parte delle materie prime viene prodotta proprio secondo la logica industriale intensiva.
«Che il Made in Italy dell’agroalimentare viva in una specie di valle felice è una convinzione da sfatare. Gli animali che entrano nelle produzioni dei consorzi dell’area Dop (pensiamo ai prosciutti e ai formaggi) provengono in gran parte dagli allevamenti intensivi. La verità è che l’eccellenza del Made in Italy, che consiste in trasformazione e marketing, nasconde una disumana realtà produttiva, fatta di maltrattamento e sfruttamento senza regole. La qualità della nostra materia prima non è così distante da quella degli Stati Uniti o di altri Paesi».
Food for Profit solleva innanzitutto un problema etico (le sofferenze degli animali), ma anche sanitario. In tutta Europa vige un modello brutale, che avete documentato entrando sotto copertura in molti allevamenti: polli malati o troppo magri uccisi a bastonate in Polesine, mucche da latte lasciate per mesi nei loro escrementi nei dintorni di Berlino, maiali imbottiti a forza di antibiotici in Polonia e nella regione spagnola di Mursia…
«C’è chi non vuole vedere immagini così terribili e preferisce continuare a mangiare carne senza preoccuparsi di come viene prodotta. Tuttavia penso che proprio chi consuma carne dovrebbe essere informato per primo, perché ciò che stiamo facendo oggi agli animali tocca un punto bassissimo della nostra civiltà. Spero che un giorno la Storia ci chiederà conto di questo, perché ciò significa che quel giorno avremo superato la concezione degli animali come cose, come bulloni di una catena di montaggio, condannati a ingrassare per diventare cibo, indipendentemente dalla loro condizione di sopravvivenza».
A questo proposito, nel film interviene autorevolmente il filosofo australiano Peter Singer, autore del fondamentale saggio Liberazione animale (appena ripubblicato da Il Saggiatore). Singer sostiene che lo specismo, l’idea cioè che una specie sia superiore alle altre, equivale eticamente al razzismo. «Gli animali – scrive Singer – sono le principali vittime della Storia, e il trattamento subito da quelli domestici negli allevamenti intensivi è forse il crimine peggiore della Storia».
«Singer dice che siamo abituati a dividere gli animali in due categorie: quelli che fanno parte delle nostre famiglie, e come tali godono di uno status paragonabile a quello degli esseri umani, e quelli invece di cui ci cibiamo, della cui sorte non ci curiamo minimamente. Questi ultimi non hanno niente di diverso dai cani o dai gatti domestici, e in certi casi (ad esempio il maiale) sono esseri intelligenti e curiosi come e più di un cane. Dunque si tratta di una classificazione del tutto arbitraria e ipocrita, che non ha nulla di giustificabile sotto il profilo scientifico e tantomeno sotto quello etico. Bisognerebbe iniziare a pensare che gli animali di cui ci cibiamo sono creature con uno status morale, portatrici di interessi e capaci di provare emozioni, di percepire piacere e dolore. Esattamente come i cani e i gatti, che l’uomo considera animali da compagnia, il maiale o la mucca, ma anche galline e tacchini, sono esseri viventi dotati di coscienza e in rapporto esperienziale con il mondo. Ritengo che sia un dovere morale di ogni cittadino essere consapevole di queste trappole culturali. Oggi sappiamo che si può vivere e nutrirsi anche senza mangiare animali, sta a ciascuno fare le sue scelte. Ma non si può vivere nell’ignoranza, non è accettabile infilare la testa sotto la sabbia per non vedere».
Di grande rilevanza è anche la questione ambientale: non tutti sanno che i gas prodotti dagli allevamenti bovini costituiscono il più potente agente inquinante dell’atmosfera. Per non parlare delle emissioni di ammoniaca o delle infiltrazioni di nitrati, che inquinano le falde acquifere oltre che l’aria.
«La produzione di cibo contribuisce a un quarto delle emissioni di gas serra, fra le cause principali del cambiamento climatico in atto. Gli allevamenti intensivi, da soli, provocano il 14% delle emissioni, più dell’intero comparto dei trasporti e della mobilità. Senza contare poi che, per far posto ai grandi allevamenti e alle piantagioni di soia Ogm necessarie per alimentare gli animali in cattività, in Amazzonia e altrove si distruggono ogni anno migliaia di ettari di foreste. Le conseguenze ambientali dell’allevamento intensivo sono devastanti. Lei prima citava la Mursia, dove siamo stati per documentare il disastro in atto: nonostante sia una regione molto arida, si continuano ad aprire nuovi allevamenti intensivi di maiali, che richiedono un’enorme quantità d’acqua. Il risultato è un collasso idrico, che ha messo in ginocchio l’agricoltura e le stesse attività umane. Inoltre, la massiccia infiltrazione di nitrati (prodotti dalle deiezioni animali) nelle falde acquifere ha causato una catastrofica moria dei pesci della laguna costiera del Mar Menor, mandando in rovina centinaia di famiglie di pescatori. Sono solo alcuni esempi, ma è chiaro che il modello produttivo intensivo (nel mondo vengono allevati in condizioni terribili 80 miliardi di animali) va abbandonato al più presto, perché ha un costo sociale, ambientale e sanitario insostenibile. E se in Cina e in India il consumo di carne è in netta crescita, per ovvie e comprensibili motivazioni legate all’incremento della popolazione e alla scarsità di cibo, noi Paesi occidentali, che ci troviamo in tutt’altra situazione demografica e nutrizionale, abbiamo il dovere morale e storico di essere i primi a cambiare rotta. Non possiamo pretendere che gli allevamenti intensivi vengano ripudiati da altri prima di farlo noi».
L’esponenziale crescita demografica su scala mondiale (l’aumento ammonta a circa 75 milioni ogni anno) fra meno di vent’anni porterà la popolazione sul nostro pianeta a toccare i nove miliardi di individui. Agli occhi di molti economisti, ciò giustifica la pratica dell’allevamento intensivo, così come lo studio e la diffusione di coltivazioni Ogm.
«L’allevamento intensivo costituisce in realtà il più grande spreco di cibo che esista. Non è vero che l’agricoltura non basta a sfamare il mondo. È solo il modello che è profondamente sbagliato. Due terzi dei terreni coltivati in Europa sono destinati alla produzione di mangimi da allevamento, che con grande dispendio di energia ed enorme consumo di risorse naturali vengono poi riconvertiti in calorie di origine animale destinate all’alimentazione dell’uomo. Sarebbe molto più efficiente destinare gran parte di quei terreni direttamente alle coltivazioni destinate all’uomo, senza passaggi e riconversioni, riservandone magari una piccola parte al rimboschimento».
Nel film lei ha intervistato anche David Quammen, autore del celeberrimo Spillover, il quale spiega che il modello dell’allevamento intensivo ci potrebbe portare presto a una nuova pandemia, ben peggiore del Covid, a causa delle resistenze batteriche sviluppate dagli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi.
«L’antibiotico-resistenza sarà una delle emergenze dei prossimi decenni. Si calcola che dal 2050 i morti per questa patologia potrebbero essere dieci milioni l’anno. Quammen spiega che tenere migliaia di animali geneticamente simili all’interno di enormi capannoni chiusi li espone all’attacco di virus e batteri, che in breve tempo sviluppano una resistenza ad antibiotici somministrati loro massicciamente e indiscriminatamente, come abbiamo dimostrato con la nostra inchiesta, in quasi tutti gli allevamenti. Una volta che questi virus colpiscono l’uomo, per quel salto di specie che si è tragicamente visto nel caso del Covid-19, gli antibiotici diventano inefficaci, perché i virus sono già “addestrati” a evolversi in modo da vanificarne gli effetti. L’influenza aviaria, che per ora ha colpito gli umani in maniera sporadica e circoscritta, rischia di diventare la prossima pericolosa pandemia. Eppure, si continuano ad aprire nel mondo nuovi allevamenti intensivi di polli».
E infine, va citato anche un problema sociale. C’è una generalizzata situazione di sfruttamento dei lavoratori di allevamenti e macelli, spesso senza alcuna tutela e soggetti “invisibili” perché in piena illegalità.
«Questo è uno degli aspetti più sottaciuti dell’industria della carne e nel film ce ne siamo occupati infiltrando persone dotate di telecamera negli allevamenti e nei macelli. I lavoratori in nero, perlopiù immigrati non in regola, sono tantissimi, sia in Italia sia in Europa. Lavorano a ritmi forsennati, senza alcuna tutela salariale, sanitaria e previdenziale. La loro produttività e la loro paga sono legate ad esempio alla velocità di carico di animali vivi sui camion, possiamo immaginare con quali conseguenze per la salute loro e dei poveri animali, terrorizzati dalla violenza con cui, spesso nottetempo, vengono ammassati e gettati nelle gabbie».
Cosa pensa delle proteste dei contadini in Italia e in Europa?
«In realtà, la maggior parte di loro non è composta da contadini, ma da imprenditori agricoli. Da un lato, si lamentano giustamente dei bassi prezzi con cui vengono retribuite le loro produzioni. Oggi il sistema premia la grande distribuzione e il marketing, piuttosto che il produttore. Per questo dovremmo cercare tutti di utilizzare meno la grande distribuzione in favore di un rapporto più diretto con i produttori agricoli, magari tramite l’adesione a gruppi di acquisto, che permetterebbero una più equa remunerazione dei produttori a fronte di una maggiore qualità delle derrate. Ma l’altro versante della questione è che gli imprenditori agricoli vorrebbero aver licenza di continuare a inquinare utilizzando massicciamente pesticidi e fertilizzanti chimici, senza riservare tempi di stasi alle colture. Se la politica non li aiuterà ad affrontare strutturalmente e tempestivamente la transizione ecologica, il cambiamento di paradigma produttivo che si renderà obbligatorio arriverà in maniera repentina. Le nostre tasse dovrebbero aiutare gli agricoltori a riconvertirsi, non essere indirizzate a sostenere chi l’ambiente lo sta distruggendo».
Con quali risorse siete riusciti a finanziare un lavoro così lungo e difficile come Food for Profit?
«La mia gratitudine va a tutti quei cittadini e quelle fondazioni che hanno deciso di cofinanziare il nostro progetto prima ancora che iniziassimo a girare. Pablo D’Ambrosi ed io abbiamo lavorato gratuitamente a questa inchiesta, perciò, oltre ad aver attinto ai nostri risparmi, durante tutti i cinque anni di lavorazione abbiamo dovuto dedicarci anche ad altre cose, per ricavarne sostegno economico. Nessuno voleva produrre il film, perciò ce lo siamo prodotti da soli, con tutte le incognite del caso. Per la distribuzione, ora ci stiamo affidando alla società civile: cittadini, associazioni e circoli ci stanno regalando una visibilità e un’accoglienza assolutamente impreviste, il che ci stupisce e ci riempie il cuore. Stiamo portando il film in tutta Italia, giorno dopo giorno (info su www.foodforprofit.com). Sapere che non siamo soli e che il nostro messaggio è così sentito e condiviso ci ripaga di tutti i sacrifici fatti e dei rischi corsi in questi cinque anni».