L'intervista
Cento anni dalla nascita di Lorenzo Milani
Riflessioni e spunti di discussione con Aldo Antonelli
Nel centenario dalla nascita di Lorenzo Milani, abbiamo voluto fare alcune riflessioni con Aldo Antonelli, prete, coordinatore di Libera per la provincia dell’Aquila ma, soprattutto, intellettuale dalle posizioni spesso scomode e controcorrente. Aldo Antonelli è stato ordinato sacerdote a Verona nel 1968, quando l’eco delle opere, della testimonianza di Lorenzo Milani era ancora fortissimo.
Lorenzo Milani, al tempo, era in buona e nutrita compagnia, apparteneva a quel numero di intellettuali (preti, politici, etc.) che Mario Lancisi, in un suo recente libro, ha chiamato “I folli di Dio” (Ed. San Paolo 2020) riferendosi a Giorgio La Pira, Giovanni Vannucci (frate dei servi di Maria, come padre David Maria Turoldo), Ernesto Balducci, Primo Mazzolari, Zeno Saltini (fondatore di Nomadelfia), e l’elenco potrebbe proseguire a lungo.
Negli anni del tuo seminariato e nei primi anni del tuo sacerdozio, cosa significavano il messaggio e l’opera di Lorenzo Milani e degli altri “folli di Dio” come li ha definiti Mario Lancisi? Quale era il clima culturale nel cattolicesimo di quegli anni?
Per ben contestualizzare il discorso con le dovute riflessioni è bene richiamare due contesti che si sono “con-fusi”, cioè incontrati e fecondati insieme: il Concilio Vaticano II e il ’68. Due movimenti, uno in ambito ecclesiale e l’altro a livello socioculturale, che si sono fecondati a vicenda e che solo in seguito, con il ritardo proprio di ogni movimento politico, hanno trovato espressione a livello politico/sociale.
Il Concilio ha aperto ai credenti il cammino di conversione nella reinterpretazione del Vangelo come fermento, liberando la chiesa dall’involucro pietistico della religiosità feticista. Vangelo come “buona notizia” di liberazione.
I temi cari a Lorenzo Milani erano diversi, primo fra tutti quella della scuola come “scuola della parola” (“Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua” da una lettera al “Giornale del Mattino” -1965-). La scuola di Lorenzo Milani era una scuola “di classe”? Che differenza c’è tra Barbiana e la scuola di Gramsci e del PCI, che volevano unire scuola e lavoro?
Nella tradizione del PCI (mettiamo da parte Gramsci, che ci porterebbe molto lontano…) la scuola e il lavoro sono stati sempre visti in un rapporto, anche se fecondo, di giustapposizione. Mentre nell’esperienza milaniana il lavoro e la scuola erano talmente intrinsecamente legati che il lavoro era scuola e la scuola lavoro.
La scuola di don Milani era “di classe” non direttamente, ma di converso. Mi spiego meglio.
A don Milani non piacevano i proclami propagandistici, bensì la realtà dei fatti. In realtà, se ci si riflette bene, l’istruzione in quanto tale, quella che diventa chiave di “lettura” dei fatti e “interpretazione” degli eventi e non nozionismo, è sempre un fatto “di classe”. Il sapere cortigiano, quello “nozionistico/pappagallesco” (tanto per intenderci) non è cultura. E, tanto per tornare ai nostri giorni, ho timore che lo scialo martellante di “informazione” cui oggi la massa di cittadini è invasivamente sottoposta, non abbia niente a che fare con la cultura che, comunque, è sempre “di classe”.
Una “scuola della parola” è ancora urgente in una società post capitalista? Non è superata da una società tecnocratica che esige una scuola “funzionale”?
Appunto. Il problema, oggi, in una società “scolarizzata”, non è la scuola, ma il pensiero. Metto il termine “scolarizzata” tra virgolette per evidenziare l’equivocità del termine. Una scuola che insegna semplicemente a leggere e scrivere porterebbe essere, al limite, un allevamento di pappagalli…
Se la scuola non educa al “pensiero critico” diventa un allevamento di sudditi, diventa, come tu ben dici, funzionale al sistema. Ai nostri giorni, senz’altro, funzionale al sistema produttivo.
A voler semplificare, la scuola per Lorenzo Milani era “scuola di parola” per poter diventare “scuola di cittadinanza”, che consentisse ai giovani di appropriarsi e fare esercizio dei propri diritti? È ancora un modello attuale?
Io aggiornerei l’espressione in “Scuola del pensiero critico”, perché il compito della scuola è trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti. Il grande Mario Lodi a una scuola puramente trasmissiva di saperi dall’alto opponeva un insegnamento che contemplava la collaborazione al posto della competizione, il recupero invece della selezione, la ricezione critica piuttosto che l’ascolto passivo. Una scuola autentica crea cittadini attivi, non polli da batteria.
Che vuol dire per un cristiano, oggi, la locuzione “scuola del merito”?
È un’espressione che non mi piace e che ritengo diseducativa. La scuola del merito trasforma le aule in campi di battaglia, le valutazioni in medaglie al merito, i banchi di scuola in trincee e i compagni di classe in rivali.
Altro tema caro a don Milani era l’obbedienza che non più una virtù: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”. (Lettera ai giudici 18 ottobre 1965). Il tema della disobbedienza, o meglio, della obbedienza alla propria coscienza era piuttosto diffuso al tempo di don Milani. Lo ritroviamo in Primo Mazzolari, ad esempio. Tu che ne pensi? Si può rimanere “ortodossi” e “disobbedire”?
Hai fatto riferimento a due sacerdoti: don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari, a cui possiamo aggiungere padre Ernesto Balducci e padre David Maria Turoldo, e tutti i disobbedienti di Dio che non si sono piegati alle dittature del potere assoluto e del pensiero dominante.
Il significato della parola “obbedienza” è stato stravolto. Il termine deriva dal latino “ob-audire”, che significa “ascolto”, cosa ben diversa da “eseguire”. Il vero “obbediente” è colui che sa ascoltare. Ascoltare gli altri e la propria coscienza, le voci e i silenzi, i richiami delle vittime prima che gli ordini dei “principi”.
Ernesto Balducci, citando il cardinale Villot, distingue cinque tipi di strutture della Chiesa: le istituzioni ecclesiali (sacramento, culto), le istituzioni ecclesiastiche (parrocchie, congregazioni), le strutture temporali cristiane (scuole cattoliche), quelle di ispirazione cristiana (partiti, sindacati) e, infine, le strutture neutre ponendo dubbi sulla conformità alla Parola delle ultime tre. Don Milani, secondo Balducci, “aveva risposto a questi dubbi restando fedele alle istituzioni ecclesiali e mettendosi in urto con tutte le altre”. Può gestirsi, secondo te, una comunità ecclesiale applicando principi così radicali?
Più che fedele alle istituzioni ecclesiali, direi “fedele alla Chiesa”, cosa ben diversa. “L’obbedienza non è più una virtù”! Ti dice niente questo titolo? Occorre vivere una “obbedienza in piedi”, secondo la bella espressione di Fonsegrive ripresa tante volte da don Mazzolari.
E a questo proposito san Tommaso amava spesso ricordare che “il precetto del magistero non è che comando umano: ma la coscienza è voce di Dio”.
Sempre padre Balducci diceva che oggi non è più possibile fare come il cardinale Caetano che andò ad incontrare Lutero con le decretali sotto il braccio, mentre Lutero ci andava con la Bibbia. È così difficile, per la Chiesa, tornare semplicemente al Vangelo? E cosa vuol dire, esattamente?
Direi che per la chiesa/istituzione non è affatto agevole, mentre per la Chiesa/comunità credente è felicemente liberante. La domanda non è da poco. Il Vangelo è liberante, ma sotto certi aspetti è anche destabilizzante. A questo proposito è molto istruttiva una relazione di prelati del 1533 che scrivevano al papa mettendo in guardia i fedeli dalla lettura del Vangelo.
“Debbono farsi tutti gli sforzi acciocché si permetta il meno possibile la lettura del Vangelo… Basti quel pochissimo che suol leggersi nella messa, né più di quello sia permesso leggere a chicchessia.
Finché gli uomini si contentarono di quel poco, gli interessi della Santità Vostra prosperarono”.
Ma quando si volle leggere di più, cominciarono a decadere.
Quel libro, insomma (il Vangelo), è quello che più di ogni altro ha suscitato contro di noi i tuoni e quelle tempeste per le quali è mancato poco che noi fossimo interamente perduti.
Ed invero, se qualcuno lo esamina interamente e diligentemente, e poi confronta le istruzioni della Bibbia con quel che si fa nelle nostre chiese, si avvedrà subito che la nostra dottrina è molte volte diversa e, più spesso ancora, ad essa contraria”. Grazie a Dio, oggi, non siamo a quel livello…
Parliamo ora di “Pipetta, m’hai inteso davvero?”. Nel 1950 Lorenzo Milani scrive la celebre “lettera a Pipetta” un giovane comunista, con il quale commenta le elezioni di due anni prima, che aveva vinto la Democrazia Cristiana, per la quale anche Don Milani, come la grande maggioranza del clero cattolico italiano, aveva fatto propaganda, obbedendo alle indicazioni della curia.
In questa lettera, Lorenzo Milani dice al giovane comunista che comprende le sue ragioni perché è povero, affamato e vinto ma, quando diventasse vincitore e sazio, lui lo tradirebbe. Che significa, secondo te?
La vita e l’opera di Lorenzo Milani, alla luce di questa, ed altre prese di posizione, sono, in qualche maniera, ascrivibili alla c.d. sinistra marxista? Il compito del prete e del cristiano è, in qualche maniera, sempre quello di stare dalla parte di chi perde?
Le lotte degli emarginati e degli esclusi, degli sfruttati e degli oppressi, quelle indirizzate alla loro liberazione e promozione sociale, vanno sempre condivise e assunte come proprie dai cristiani. Il loro fine, secondo don Milani, ma anche secondo l’etica evangelica della “Liberazione”, non è quello di sostituirsi ai vecchi padroni, ma quello di sostituire la logica del dominio con nuovi rapporti di cooperazione e fratellanza. Non, quindi, l’alternanza di dominio, ma una alternativa di “co/operazione”.
La lettera a Pipetta è magistralmente istruttiva.
Quanto al marxismo, se inteso come movimento politico, rimane in conflitto e inconciliabile in questa prospettiva. Se considerato come filosofia, come pensiero critico, allora si rivela estremamente utile nelle lotte di Liberazione. Non dimentichiamo, a questo proposito, che l’Etica è una branca della Filosofia. Marx, è sempre bene ricordarlo, era un filosofo, non un “politico”!
Quanto ai cristiani è bene ricordare che il loro compito non è quello di “salvarsi l’anima” (come volgarmente si dice), bensì quello di essere “segno profetico” di questo nuovo modo di essere. Non a caso, nel Vangelo, Gesù intimava ai suoi discepoli di essere seme, luce e lievito.