Casa Alta, laicamente credente

Incontro con Stefano Sodaro

Ciao Stefano, come stai?

Carissimo Stefano, grazie, abbastanza bene, nonostante incertezze e preoccupazioni per chi ci è caro. La vita presenta continue contraddizioni, sofferenze delusioni, nuove complessità, ma la fiducia deve sempre accompagnarci. Perché ci sono anche gli entusiasmi e le passioni amorose.

Chi è Stefano Sodaro?

Mi piacerebbe rispondere alla Dostoevskij “un folle”, ma sarebbe risposta di pura presunzione. Semplicemente allora: un cinquantacinquenne, marito e padre di famiglia, funzionario di banca, giornalista pubblicista, con una laurea in giurisprudenza ed una passione devastante per la vita ecclesiale, il diritto canonico, la teologia. In effetti, a pensarci, abbastanza un folle, sì, ma – come dicono a Bose dei laici – “senza importanza”.

Siamo a Trieste, una delle città più belle e affascinanti d’Europa, città mitteleuropea, città di mare,

crocevia di mondi latini, tedeschi, slavi, con numerosi confini geografici, politici, culturali e storici,

approdo della rotta Balcanica per gli immigrati. Città di Umberto Saba, Italo Svevo, Franco

Basaglia, Alice Weiss, madre di don Milani…com’è oggi Trieste?

Trieste è davvero un “multiverso”. È la città dove sono nato e vivo, e mentre un tempo non vedevo l’ora di andarmene, di scappare via, ora, a questa età, mi accorgo che non potrei stare in un altro luogo. E provo a dirti perché con le parole del nostro grande filosofo Pier Aldo Rovatti: “Perché a Trieste non sai più chi sei”. E questa condizione di ignoranza su se stessi, oltre a piacermi molto, mi struttura, mi pare la condizione di nascita e rinascita d’ogni speranza.

In questa realtà nasce l’Associazione “Casa Alta”, ci puoi spiegare che cos’è? E come nasce?

Casa Alta è effettivamente unita in profondità alla storia culturale di Trieste. Cercavo un appartamento che mi facesse da libreria – o, cerco d’essere sincero, da “deposito libri” – ed un amico mi rivela d’essere proprietario dell’appartamento dove visse sino alla morte, nel 1957, il nostro più grande poeta dialettale, Virgilio Giotti. Solo che era sfitto, con il medesimo proprietario, anche l’appartamento esattamente di fronte a quello del poeta, sullo stesso pianerottolo. E sulla parete esterna del palazzo – che risale al 1914 – sono riportati alcuni versi di Giotti che canta la sua “casa alta”. Abbiamo iniziato così, la vigilia di Natale del 2018, dando avvio alle attività associative il 1° gennaio 2019. Poi lo statuto associativo, prevedendo un amplissimo oggetto – dalla letteratura, alla psicanalisi, all’arte, all’archivistica (siamo anche di fronte alla sede dell’Archivio di Stato), alla teologia, alla filosofia – ci ha permesso di ampliare il raggio dei possibili coinvolgimenti con persone di tante provenienze diverse, addirittura anche dall’Argentina, e devo dire che le presenze non triestine sono assolutamente maggioritarie.

Possiamo parlare di un’Associazione ecumenica, che rapporto avete con i musulmani, ebrei, protestanti?

Siamo un’associazione laica, non siamo un’associazione ecclesiale, né un movimento confessionale o realtà di questo tipo. Eppure proprio la consapevolezza di simile laicità ci ha portato – quasi senza accorgercene – a frequentare intensamente le zone di prossimità con le fedi. Ci sentiamo debitori delle nostre radici fondative, pur laiche, alle molte tradizioni religiose presenti a Trieste. La tua domanda è impegnativa: con il mondo ebraico abbiamo avuto un’intensa collaborazione che è sfociata nella celebrazione del cosiddetto “Shabbat di tutti”, condotto dalla socia onoraria Miriam Camerini, lo scorso giugno a Bose, e Letizia Tomassone, pastora valdese a Napoli e pure nostra socia onoraria, è anche la mia insegnante di “Teologie femministe e di genere” alla Facoltà valdese.

Il rapporto con l’Islam è qualcosa che abbiamo in animo da tempo e ci piacerebbe in particolare svilupparlo sul lato della presenza ed identità femminile; da qui una dilatazione dei tempi che però

vorremmo colmare a breve.

Collegato a “Casa Alta” “Il giornale di Rodafà”…

“Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano”, settimanale web di cui sono direttore responsabile e che ha superato la boa dei 700 numeri, è in effetti un po’ il fratello gemello di “Casa Alta”, anche se nasce molto prima, nel 2009, “spinoffando”, come si dice, la rubrica “Liturgia del quotidiano” che in precedenza era presente sul settimanale diocesano di Trieste “Vita nuova”. Nel tempo “Rodafà” è diventato un po’ un personaggio autonomo (per chiarirci, “Rodafà Sosteno” non è altro che l’anagramma del mio nome e cognome, escogitato, per così dire, dallo stesso amico proprietario dell’appartamento dove ha sede “Casa Alta”), che ogni settimana cerca di riflettere su ciò che accade con uno sguardo laterale, di sbieco, senza evadere dalla complessità del reale magari con qualche slogan semplicistico. No, siamo convinti che la complessità va assunta concretamente anche con la sua pesantezza e difficoltà d’interpretazione. Hanno sinora scritto in molti ed in molte su “Il giornale di Rodafà” – anche una giovanissima teologa ventiquattrenne, Paola Franchina, che è poi la Vicepresidente di Casa Alta, e proprio Miriam Camerini, ad esempio, ha tenuto sino ad aprile scorso una sua rubrica intitolata “The Rabbi is in” -: vedremo cosa ci riserverà il futuro. Proseguiamo a scrivere finché avremo qualcosa da dire e senza “padroni” di alcun tipo, dal momento che il giornale è totalmente gratuito e non riceviamo sovvenzioni da nessuno.

Come si pone la vostra Associazione nell’ambito ecclesiale e se possiamo dire all’interno della Chiesa italiana?

Tengo molto a ribadire che siamo un’associazione laica e dunque non soggetta a vincoli confessionali di alcun tipo. È però assolutamente vero che la nostra reciprocità, nella concreta vita associativa quotidiana, anche se per lo più a distanza – ma la distanza non rende meno concreta la vicinanza, salvo non si voglia che sia così -, ci ha portato ad un’intensità di relazioni comunitarie tale per cui a volte ci domandiamo se sia sufficiente l’assetto giuridico che abbiamo ora. Lo valuteremo tutte e tutti assieme. Con questa consapevolezza, di totale laicità appunto, guardiamo alla vita della Chiesa italiana, dove fioriscono segni di novità che sembrano finalmente incrinare un immobilismo preoccupante che ci ha accompagnati almeno sino all’elezione di Papa Francesco. Per quanto concerne Trieste, credo basti menzionare la testimonianza del nuovo vescovo, Enrico Trevisi, e la sua appassionata vicinanza ad ogni uomo ed ogni donna del contesto cittadino. A volte mi domando: ma non dovrebbe anche la Chiesa, la “ekklesía”, cioè l’“assemblea”, essere una casa ospitale per chiunque e, dunque, in un certo senso, davvero laica? “Laico” viene infatti pure dal greco, “láos”, “popolo”.

Un momento importante di “Casa Alta” sono gli incontri online aperti a tutti.

Sì, crediamo che l’emergenza sanitaria abbia, oltre alle tragedie, rivelato anche nuove possibilità comunicative impensate ed impensabili grazie alla tecnologia. Facciamo però una doverosa premessa, come dire?, “politica”: noi ci siamo convintamente schierati dalla parte di chi, autorità comprese, evidenziava l’assoluta necessità di evitare in ogni modo la diffusione del covid, osservando strettamente lock-down, inviti alle vaccinazioni e massima attenzione alla preservazione della salute dei più fragili e non ci siamo concessi alcuna defaillance intellettuale, o intellettualoide, al riguardo, anche se consapevoli della sofferenza che la limitazione alla vita ha provocato. Io stesso ne ho avuto drammatica esperienza come papà di due adolescenti. Ma “primum vivere, deinde philosophari”. Da qui l’idea di farci vicini gli uni agli altri con iniziative di video incontri online – e poi rivedibili in registrazione – sulle più diverse tematiche di interesse culturale: dalla presentazione di libri, alla teologia, alla riflessione sulle spaventose guerre in corso, alla psicologia. Ora proseguiamo, ma preferibilmente con un regime misto – online ed in presenza, come ormai si dice – che pure si sta rivelando una enorme risorsa di prossimità, con buona pace di “puristi” d’ogni dove.

“I folli di Dio”, nella spiritualità russa, sono i portatori di una sapienza che vive nella stoltezza. Ma con questa espressione sono indicati anche gli esponenti della Chiesa cristiana, in particolare fiorentina, protagonisti di una stagione religiosa e civile del dopoguerra come Giorgio La Pira, don Facibeni, il cardinale Elia Dalla Costa, don Milani, padre Balducci, padre Vannucci, padre Turoldo… dove sono oggi “i folli di Dio”?

Ecco, appunto, mi hai “beccato”, caro Stefano, anche se non me la sento, te lo dicevo, neppure di aspirare a simile “follia”, peraltro tanto necessaria e salutare. Del resto sei anche tu membro autorevole del Consiglio Direttivo di Casa Alta e, assieme a Roberto Del Buffa, siete entrambi concittadini di quelle straordinarie figure fiorentine profetiche che hai citato. Proviamo a metterla così: “i folli di Dio” sono le vittime, coloro che soffrono, qualunque sia la loro sofferenza. L’autorità delle vittime – come insegna Johann Baptist Metz – è l’autorità dei folli. E per Trieste, che ha vissuto nella propria carne la rivoluzione basagliana, cioè finalmente la liberazione dalla logica manicomiale, il confronto con la follia è stata la porta, che oggi si vorrebbe richiudere, verso l’alterità. “I folli di Dio” allora sono le altre, gli altri, che soffrono per la propria condizione per appunto “altra”, di estraneità, di apparente diversità, di irriducibilità ad una melassa culturale di luoghi comuni, secondo cui, in fondo in fondo, un po’ di violenza è pur necessaria, un po’ di controllo è pur necessario, un po’ di egoismo è solo un gran bene, dove – è una frase che mi è stata rivolta proprio personalmente solo qualche giorno fa – bisogna “accettare e basta” quel ci viene ordinato di fare. Un’attitudine all’ingiunzione che è abbastanza tipica del clericalismo di qualunque credo militante. Accettare e basta. Ecco no. Casa Alta sta a contatto con la follia (per così dire, “inaccettabile”) del cielo propria sopra il suo tetto, dove d’estate fanno il nido le rondini e d’inverno i gabbiani si accoccolano sui camini. E quei “folli di Dio”, che, come dire, “in seconda battuta” incontrano le altre e gli altri si lasciano incantare proprio dalla alterità dei e delle disobbedienti agli stereotipi ed alle apologie. Mi pare sia la storia effettiva di tutti coloro che hai nominato.

Per concludere questo nostro incontro, una domanda strettamente personale, chi è per te Gesù di Nazareth?

La domanda mi intimorisce e mi induce ad un invincibile pudore. Posso articolarla in un modo un

po’ particolare? Immaginiamo che “di Nazaret” sia un normale cognome, come – che so – “di Giacomo”, “di Greco”. Ora immaginiamo pure che, esistendo in spagnolo la versione femminile del nome “Gesù”, che si traduce con “Jesusa”, anche il nostro ultra celeberrimo (e, permettimi, assai devozionistico) “Gesù” possa essere nome femminile. Quali conseguenze ne deriverebbero per una spiritualità adulta? Su questo mi fermo qui, in silenzio, senza rispondere, appunto per pudore. Sai, “Gesù di Nazaret” per me è “Un tal Jesús”, come si intitola una serie radiofonica diffusissima in America Latina e del tutto ignota in Italia. Oppure è Colui cui si ispira Celestino V nel dramma di Silone “L’avventura d’un povero cristiano”. O la presenza che riempie da vita del mite e semplice “abate Gaston”, protagonista del romanzo “Ad ogni uomo un soldo” di Bruce Marshall. O quell’esperienza – sì, un “uomo-esperienza”, od anche un “uomo/parola” – di cui scrive Adriana Zarri nel suo “Nostro Signore del deserto”. Od ancora colui che ispirò Paulo Freire, i cui cent’anni dalla nascita nel 2021 sono stati celebrati con un convegno alla Cittadella di Assisi, cui, con mia sorpresa, vollero invitare anche me quale Presidente di Casa Alta e gli atti sono ora pubblicati nel volume, edito proprio da Cittadella, “Paulo Freire: educare alla partecipazione, praticare la libertà”, a cura di Carlo Ridolfi, socio anch’egli di Casa Alta. Altro non me la sento di dire. Ops, “altro”, ecco, appunto…

Grazie Stefano, grazie delle tue parole e della tua disponibilità

Grazie a te, caro Stefano e buon lavoro.