Guerra e pace
Se si sbagliano le parole
Senza offesa per Dio, che d’altra parte, nonostante ciò che dice la Meloni, non ha bisogno di essere difeso, sappiamo che la creazione come l’abbiamo immaginata e raccontata per secoli è un mito. Non è andata come la racconta la Bibbia. La Genesi del resto non va presa alla lettera. Un’interpretazione letterale delle Scritture, ha detto la Commissione Biblica per togliere ogni alibi alla presentazione di un Dio vendicativo e violento, “è un suicidio del pensiero”. Ciò vuol dire che alle verità della Bibbia dobbiamo chiedere non i fatti ma i significati.
Ma una cosa sappiamo, una cosa di quel mito è sicuramente vera: la prima operazione che hanno fatto gli uomini per diventare umani è stata quella di dare un nome alle cose. E i nomi sono corrispondenti alle cose: “Sunt nomina consequentia rerum”. Però molti nomi si sono corrotti. Dunque il problema più grande per restare umani è di non tradire il nome, e quando il nome non dice più le cose, cambiare il nome, o quel che ne dice il vocabolario.
Il primo nome tradito è quello della donna, il più importante, perché la donna è il culmine della creazione: come ha detto il poeta David Maria Turoldo, “dopo aver fatto la donna Dio ristette dal creare”. Ma che il suo nome dipenda dalla metafora che la donna sia stata tratta da una costola dell’uomo, non significa certo che si debba instaurare il patriarcato, né tollerare il femminicidio, ma vuol dire che le due umanità, quella maschile e quella femminile, mai più dovranno essere separate.
L’altro nome, non meno importante, tradito, è quello della pace. Già al tempo di Tacito si diceva che avevano fatto un deserto e l’avevano chiamata pace. Oggi in Ucraina chiamano pace la vittoria, e intanto gli uni non volevano la NATO, e anche se vincono hanno ormai più NATO ad incombere sui confini, gli altri non si curano del fatto che le terre che vogliono riconquistare restino per secoli un deserto a uranio impoverito, regalo degli amici inglesi e americani.
Ma anche la vittoria non significa vittoria e non promette la pace: come ha spiegato Raimundo Panikkar, che ha studiato i circa 8000 trattati di pace che si sono avuti da prima di Hammurabi (scritti anche sui mattoni) fino ad ora, mentre l’inchiostro o i mattoni erano ancora freschi, i cannoni e le lance del vicino già erano pronte per le nuove guerre. “Pensate a tutta la storia. La vittoria non porta mai alla pace, porta alla vittoria”.
L’altro nome è quello della difesa dei confini. Finora si intendeva come difesa dei confini il contrasto alle invasioni armate. Ma purtroppo per i nostri governanti, i profughi non sbarcano sulle nostre coste facendosi ragione con le armi, quindi non si possono bombardare i barchini, né fare con le navi da guerra il blocco navale, né schierare i carri armati Ariete e Leopard sulla spiaggia dell’isola dei Conigli a Lampedusa, dove a sbarcare sono le tartarughe che vengono a deporvi le uova. E così oggi per difesa dei confini si intende che i naufraghi non devono essere raccolti in mare, o il meno possibile, e che stiano nei lager libici o gettati nel deserto del Sahara piuttosto che lasciati prendere il mare e affacciarsi così minacciosi alle nostre coste. Se poi nonostante tutto riescono a sbarcare, la difesa dei confini si arretra fino a imprigionare i miranti per 18 mesi nei centri di detenzione messi “in località scarsamente popolate” e “facilmente sorvegliabili”, per poi espellerli con i voli di Stato, due poliziotti per la custodia di ogni respinto, più di quanti ne servivano ai generali argentini per gettare dagli aerei i dissidenti nel mare.
Altra espressione travisata è quella di “trafficanti di uomini”. Storicamente si riferiva ai mercanti di schiavi, che non erano poi tanto incivili se gli acquirenti erano i ricchi proprietari americani. Oggi si usa per indicare quelli che a peso d’oro mettono in viaggio i migranti sui gommoni o sui barchini, per trasferirli al di là del Mediterraneo. Ma se trafficante designa chi scambia la vita degli uomini per danaro, trafficanti di uomini non sono solo gli scafisti ma anche chi ne vende il riacquisto alla Tunisia, o chi chiede ai profughi 5000 euro per non metterli in prigione prima di respingerli.
Oggi pertanto per salvarci, dobbiamo restaurare le parole; ma non basta dire pane al pane e vino al vino, occorre che il pane sia veramente pane e che il vino sia veramente vino.