L'editoriale
Memoria e politica
Il Sindaco di Parrano, un piccolo Comune umbro, mi ha invitato il primo Ottobre, a dire qualcosa nel corso dell’inaugurazione di una via dedicata a Enrico Berlinguer. Per me è stata l’occasione di ritornare sulla tre giorni del leader del Pci ad Assisi, giusto 40 anni fa. Correvano infatti il 7, l’8 e il 9 di Ottobre del 1983, a meno di un anno dalla sua morte l’11 giugno dell’anno seguente.
Ricordo quei giorni di un’ottobrata mite, con le vie di Assisi ormai spopolate dopo le festività francescane. Nella sera mentre accompagnavamo il sobrio e silenzioso Segretario si sentivano solo le televisioni accese nelle case e i commenti sottovoce di qualche curioso che vedeva camminare per le viuzze del centro un Berlinguer magro come un chiodo. Ogni tanto chiedeva qualcosa, rispondeva sobriamente a un saluto, dava l’idea di avere il pensiero agli impegni che lo attendevano. Non era una star né mai avrebbe voluto esserlo, d’altra parte non esistevano allora i partiti del leader ma i leader di partito. La mattina seguente salì le scale del Comune con un gigantesco fascio di giornali e poi ci si avviò verso il Sacro Convento, dove il Custode padre Vincenzo Coli e i frati attendevano una visita, impensabile solo qualche lustro prima. Mi sono andato a rileggere il discorso che Berlinguer tenne il giorno seguente al termine di quella Marcia per la Pace nel prato della Rocca di Assisi. I temi centrali erano pace, disarmo e riequilibrio tra nord e sud del mondo. Anzi, in fondo, questo era un tema unico, un obiettivo difficile e necessario. La questione contingente era quella della installazione dei missili a Comiso e la linea che si proponeva con la mobilitazione, che aveva per slogan «Trattino gli Stati parlino i popoli», era quella di realizzare un equilibrio tra Nato e Patto di Varsavia non con l’incremento di nuovi ordigni nucleari ma con la loro riduzione progressiva e bilanciata. Solo un taglio alla spesa per gli armamenti poteva peraltro liberare risorse indispensabili allo sviluppo dei Paesi usciti dal colonialismo senza imboccare la strada del neocolonialismo e garantire la sostenibilità dello stato sociale. È lungo questa strada che il movimento operaio poteva incontrarsi con la sensibilità sociale, solidale e universalistica della tradizione cristiana.
Il carteggio tra il Vescovo Bettazzi e Berlinguer (1976/1977) e l’ingresso di molti autorevoli esponenti del mondo cattolico (La Valle, Codrignani per far riferimento a storici collaboratori di questa rivista) e anche protestante (il Pastore Tullio Vinay) come indipendenti nelle liste comuniste, ed ora l’incontro di Assisi, rappresentano altrettanti significativi passaggi di una apertura e di un arricchimento del patrimonio di valori di una forza che voleva innovarsi ma senza perdere la dimensione critica nei confronti dell’assetto sociale dominante e senza rinunciare ad un progetto di liberazione dalle logiche di guerra, dalle grandi disuguaglianze planetarie, dall’ingiustizia sociale. E senza abbandonare il proprio insediamento popolare come ci racconta la presenza del Segretario del Pci davanti ai cancelli della Fiat (26 settembre 1980). Apertura e radicamento non sono affatto in contraddizione come la devastazione successiva dell’insediamento sociale dei partiti italiani si è incaricata di dimostrare. Ma torniamo sul prato della Rocca. Li Berlinguer disse a lungo dell’Umbria con l’attenzione profonda alla terra da dove parlava che si è oggi persa nelle apparizioni fugaci e incolte di piccoli leader da galoppo elettorale. Parlò della particolare sensibilità di questa Regione al tema decisivo della pace rispetto al quale svolgeva un prezioso ruolo nazionale, alla sua radice profonda nella spiritualità francescana, in quella follia del Poverello che metteva a nudo la follia mortifera della violenza; come la sua spoliazione metteva a nudo l’offesa della miseria, come la sua estrema fedeltà alla Chiesa metteva a nudo le diverse infedeltà dell’istituzione al Vangelo. Questo è il fecondo paradosso di Francesco, ancora oggi un matto da slegare. E come non cogliere anche tra le righe nascoste di quel discorso un senso di vicinanza all’usus pauper delle cose.
Berlinguer già nel 1977 aveva parlato dell’esigenza di una politica di austerità contro l’appiattimento antropologico del consumismo. Una politica che accorciasse il divario sociale e la disuguaglianza. Non fu compreso; oggi al posto di questa idea di sobrietà e di giustizia abbiamo un aumento della povertà e la proletarizzazione delle classi medie. Ho aggiunto qualcosa. Ma il senso del discorso berlingueriano era questo. Fu forte anche la sottolineatura della religiosità laica di Aldo Capitini che nel 1961 portò dalla sua Perugia su questo colle la persuasione nonviolenta. Un cammino faticoso e lungo che oggi sembra uscito dall’orizzonte, mentre torna a prevalere il plumbeo realismo sempre antico, sempre nuovo e sempre smentito del si vis pacem para bellum. Ma la cosa più sorprendente di questo ricordo ormai lontano è, al di là del merito delle singole posizioni, l’altezza e la profondità della riflessione politica, il suo ancoraggio a un retroterra culturale solido, il senso del proprio ruolo e della propria autonomia e responsabilità, il suo sguardo oltre i confini di casa, la sua ambizione di progettare e governare il futuro.
Il confronto con la situazione attuale non deve spingerci né a disperare né a tentare riedizioni fuori tempo ma a pensare come, dentro le contraddizioni del tempo nostro, possiamo immaginare un impegno civile e politico che non si rassegni alla pura gestione del mondo com’è o tuttalpiù alla pur meritoria opera di curarne le ferite: ambientali, sociali ed esistenziali.
Scrivo mentre decine di migliaia di disperati approdano a Lampedusa. E tra gli uomini di governo è lotta a chi fa di più il viso delle armi. Ma una riflessione su questo fenomeno di fondo che, sic stantibus rebus, tenderà ad aumentare di intensità non si vede, forse perché a tutti manca un versante da cui guardarlo: la messa in discussione dello sfruttamento della natura e delle risorse materiali e umane di popoli e Paesi interi da parte delle potenze mondiali grandi e meno grandi. Se accoglienza e solidarietà non si accompagneranno ad emancipazione vera e cooperazione senza spirito predatorio non ci potrà essere un reale governo di questo processo. In questa direzione si può immaginare una grande politica europea verso l’Africa fino a pensare ad un’area euroafricana protagonista rilevante di un mondo a più voci.
Senza un nuovo ordine internazionale multilaterale e giusto non ci può essere che riarmo, rinascita di nazionalismi patriottardi, di sovranismi senza sovranità, di conflitti interimperialistici che dalla bassa intensità potrebbero sfociare in una catastrofe bellica generale (come ci racconta la guerra in Ucraina), di un aggravarsi della crisi climatica e dell’aggressione all’ambiente e alle sue risorse non rinnovabili.
Una tale complessa e pericolosa situazione dovrebbe indurre a coltivare qualcosa che va al di là del presente, ricostruire una visione, di quel che può esistere dopo la forma sociale e politica del mondo che abbiamo. Organizzare la speranza, per usare un’espressione cara al nostro Ernesto Balducci. Appunto, dare forza, soggettività, protagonismo all’aspirazione alla pace e alla giustizia. Sicuro che la tradizione cristiana e quella socialista sono ferri vecchi? O non può essere che attingendo a quelle sorgenti ideali si facciano rivivere in novità di forme e di contenuti speranze perdute e passioni spente? Abbiamo lasciato Berlinguer sul prato della Rocca. In 40 anni il mondo è cambiato. Ora tocca a noi, soprattutto ai più giovani.