L'editoriale
L’uguaglianza non è un ferro vecchio
Ormai da qualche decennio c’è una parola rimossa, in alcuni casi addirittura demonizzata: uguaglianza. La sua storia è gloriosa e travagliata quant’altra mai. Le sue radici profonde stanno in primo luogo nella fede cristiana. Lo aveva ben capito Friedrich Nietzsche quando a proposito di essa aveva parlato come di un veleno ugualitario seminato per tutto il mondo a venire. D’altra parte, confessare di essere fratelli e sorelle perché figli di uno stesso padre/madre alla lunga produce le sue conseguenze, mina la legittimazione di ogni gerarchia antropologica. La rivolta degli schiavi e degli sfruttati di ogni tempo trova qui un punto d’appoggio.
Anche se poi la religione ha in molti casi benedetto le disuguaglianze, le gerarchie sacre e profane, gli ordini costituiti in nomine Domine. E tuttavia questa radice profonda ha acceso un fuoco ugualitario inestinguibile.
Dentro le culture laiche della modernità quel fuoco ha continuato ad ardere: dalla Rivoluzione francese a quella sovietica, a tutti i percorsi di riforma sociale che hanno attraversato l’Europa per impulso del pensiero socialista e di quello cristiano-popolare.
La stella polare dell’uguaglianza ha via via dato luogo a diritti civili e politici, a diritti sociali, alla parità di genere. Prima di essere tutti e tutte diversi siamo tutte e tutti uguali. Naturalmente questa spinta ha sempre trovato avversari agguerriti in nome della superiorità della razza, della civiltà, della religione, della cultura, della competenza, del mercato ecc. E bisogna aggiungere che in nome dell’uguaglianza si sono costituiti regimi nei quali, sotto mentite spoglie, sono risorte antiche gerarchie.
Inoltre, è sempre stato problematico tenere insieme uguaglianza e libertà. Certo si è anzitutto uguali come esseri liberi ma è altrettanto vero che solo l’uguaglianza ci fa liberi dal bisogno e dalla sottomissione. Forse la terza parola chiave della Rivoluzione francese, la fraternità, non è riuscita ad essere il fondamento della coesistenza delle altre due. Ma la scommessa, la fatica e la costruzione della fraternità è decisiva e in sua assenza finiranno costantemente per aver ragione coloro che pensano che l’interesse generale può essere solo il risultato della competizione per l’affermazione individuale di ognuno.
Se caliamo queste brevi riflessioni nella situazione delle nostre società vediamo che da circa un trentennio a questa parte è proprio la posizione, individualista, mercatista (o più spesso pseudomercatista) ad avere avuto la meglio. Una vittoria culturale ed etica prima ancora che economica e politica. E si deve rilevare che anche le forze della sinistra sociale e politica di diversa ispirazione hanno assunto posizioni così subalterne al pensiero unico neoliberale che le ha progressivamente disancorate dalla propria tradizionale base sociale, di classe e popolare. Rimettere il dentifricio dentro il tubetto non sarà facile.
Il problema è che tutto questo ha comportato per una parte cospicua di popolazione, soprattutto ma non solo nel nostro Paese, l’abbandono dell’esercizio di qualsiasi pratica democratica a cominciare dal voto o la ricerca di protezione da parte delle forze populiste capaci di stornarne altrove (pensiamo all’esagerazione del pericolo migratorio) ansie e preoccupazioni del tutto comprensibili.
Certo è che il tema delle disuguaglianze è tornato ad essere assai rilevante, né esso si misura (che anzi si maschera) con l’andamento generale del PIL o col mito taumaturgico della crescita, o con i dati grezzi sull’occupazione. La mobilità sociale ascendente è rallentata fin quasi a fermarsi; è molto difficile assicurare studi universitari ai figli delle classi popolari e alle classi medie impoverite e comunque attraverso l’accesso a corsi specialisti postuniversitari in Italia e all’estero si sta definendo una forte rigerarchizzazione sociale su basi rigorosamente classiste, veicolata da una ideologia del merito che nasconde il background sociale e smarrisce la necessità costituzionale di rimuovere “gli ostacoli….che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”: lo straordinario art.3 della nostra Costituzione repubblicana.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che la povertà assoluta e relativa sia nettamente aumentata, ne sanno qualcosa la Caritas, la Comunità di Sant’Egidio, le Mense francescane ecc. che vedono allungarsi le file per i pasti e le richieste più generali di assistenza; è in netto aumento la popolazione che rinuncia a curarsi e quella condannata a lunghe e spesso fatali liste di attesa; è più che mai diffuso il lavoro povero, la estrema polarizzazione dei redditi e la precarizzazione del lavoro. Giova ricordare che i salari dei lavoratori italiani sono tra i più bassi d’Europa e più alto è il numero delle ore lavorate. Come è evidente il passaggio dal lavoro al lavoretto per buona parte delle generazioni più giovani. Insomma, si è poveri lavorando e spesso, col collasso del sistema sanitario nazionale, ci si impoverisce per curarsi. Anche per questo agglutinarsi di marginalità sociali e umane, le periferie urbane in modo particolare sono attraversate da fenomeni di tensione e di crescente disagio che a loro volta alimentano ostilità verso le istituzioni e diventano terreno fertile per populismi e demagogie d’ogni risma.
È ovvio che non è solo questo il nostro Paese ma il punto da cui porci non è quello di affermare astrattamene e celebrare i grandi valori della libertà e dell’uguaglianza ma quello, da una parte di dare risposte immediate a bisogni immediati (una sorta di mutuo soccorso), dall’altro riproporsi l’obiettivo di dare una rappresentanza politica ad una parte estesa della società non con prediche dall’alto ma con pratiche dal basso; con la faticosa ridefinizione di un nesso “sentimentale” con un popolo ormai atomizzato ma che in fondo può affermare i propri diritti ad un lavoro sicuro e dignitoso, alla tutela della salute e alla cura delle malattie in modo universale e paritario, ad accedere fino ai più alti livelli di istruzione, solo ritrovando il filo di un percorso politico comune. Per forze di matrice sociale, costituzionale, di sinistra questa può essere la strada se non vogliono limitarsi ad una ordinata e magari professionale gestione dell’esistente ma vogliono ritrovare l’ambizione di governare un cambiamento profondo, un’alternativa di modello sociale e non semplicemente di cambiare un governo, per brutto che sia. E sa il diavolo se lo è quello attuale.
Tutto questo care lettrici e cari lettori per spiegare la copertina di questo numero!