L'incontro
Riportare la Chiesa al suo primo amore
Conversazione con Paolo Ricca
Incontrare il Pastore Paolo Ricca, figura eminente del mondo evangelico non solo italiano, è sempre un’esperienza che arricchisce, non solo per la forza del suo pensiero e la levatura teologica del maestro, la chiarezza assoluta dell’esposizione segno di un forte rigore intellettuale e di un grande rispetto per quanti lo ascoltano e lo leggono ma, direi, prima ancora di questo, perché si avverte la passione dell’uomo e la grande fede che ha accolto e trasmesso nel corso della sua intensa vita di uomo di chiesa e di studio. In pochi altri ho sentito come in Paolo Ricca questa forza evangelica contagiosa. A volte in donne e uomini meno noti ma pieni di fede, nei semplici che stanno salvando il mondo senza accorgersene come scrive Borges nella splendida lirica Los Justos. D’altra parte, e chiedo scusa di questa poco giornalistica confessione personale, il mondo evangelico è stato per me, nato nella mattonella cattolica, luogo di amicizie con pastori e con fratelli e sorelle che ho sempre sentito come una straordinaria ricchezza nel mio tentativo di diventare cristiano e nei cui luoghi di culto e di vita mi sono sentito sempre a casa. Sarei per partire, Professor Ricca, dalla realtà cruda che stiamo vivendo con una feroce guerra proprio nel nostro continente, quello sulla cui Costituzione, poi abortita, avremmo voluto scrivere a caratteri cubitali il riferimento alle radici cristiane. Nel suo bellissimo testo «Dio. Apologia» ci parla di tante immagini di Dio e delle critiche che gli sono state mosse. Ma quale immagine di Dio e dei cristiani vien fuori da questo conflitto? Viene fuori, purtroppo, la peggiore immagine di Dio e dei cristiani che si possa immaginare. Viene fuori l’esatto contrario del Dio annunciato dai profeti d’Israele, un Dio «arbitro tra molti popoli» (Isaia 2,4), o «arbitro tra nazioni potenti» (Michea 4,3), mentre nella guerra russo-ucraina abbiamo rivisto un Dio nient’affatto «arbitro», ma al contrario nazionale, per non dire nazionalista, un Dio russo secondo la Chiesa ortodossa Russa e ucraino secondo la Chiesa Ortodossa Ucraina. Abbiamo assistito impotenti a una doppia nazionalizzazione di Dio, un Dio «degli eserciti» secondo il senso letterale della parola, un Dio bellicoso e belligerante che – lo ripeto – è l’esatto opposto del Dio di Gesù, che dichiara «beati» e «figli di Dio» i «facitori» di pace, cioè quelli che della pace non parlano, ma la fanno (Matteo 5,9), che è anche il Dio dell’apostolo Paolo che sorprendentemente ci descrive l’«armatura di Dio» (come se Dio fosse un guerriero!), a partire dalla quale l’apostolo allestisce un vero e proprio strip-tease del legionario romano, che egli idealmente spoglia di ogni «pezzo» della sua ben collaudata armatura, per poi rivestirlo con altre armi completamente diverse, e cioè la verità come cintura, la giustizia come corazza, lo zelo dato dall’evangelo della pace come calzature, la fede come scudo, la salvezza come elmo, lo Spirito che è la parola di Dio come spada (Efesini 6,14-17). Di tutto questo, cioè del Dio creduto e confessato da Gesù, da Paolo e – fino a prova contraria – dalla fede tutti i cristiani, non abbiamo visto neppure l’ombra. Tanto che se Dio dovesse effettivamente essere così come appare da questo conflitto un Dio nazionalista e guerrafondaio – l’unica opzione possibile sarebbe uno schietto ateismo. Se non abbiamo finora abbandonato la fede cristiana, è perché siamo profondamente convinti che Dio è tutt’altro da come viene fuori da questo sciagurato conflitto. In questo quadro che fine fà anche la dimensione dell’ecumenismo? Quanto ai cristiani si deve fare un discorso analogo, su due fronti: quello ecumeni co e quello della pace (del resto tra loro strettamente collegati). Sul fronte ecumenico il conflitto ha rivelato che Chiese sorelle nel senso proprio e pieno del termine, perché professano e vivono la stessa fede cristiana secondo la stessa tradizione ortodossa, non sono state in grado di far valere la loro fraternità (o sororità) fondamentale e vitale, e si sono drammaticamente separate: la loro appartenenza a due Nazioni diverse ha soffocato in entrambe la loro comune appartenenza all’unica Chiesa, cioè all’unico popolo di Dio. Una sconfitta imprevista, che suscita una tristezza infinita ed è motivo di confusione e umiliazione per l’intera cristianità. Sul fronte del servizio alla pace, si è registrato un ennesimo, completo fallimento cristiano: l’impotenza della Chiesa di essere quello che dovrebbe essere, ma non è mai stata in venti secoli di storia: un corpo di pace tra i popoli. Se la Chiesa (quando dico «Chiesa» intendo tutte le Chiese viste come un’unica, grande Comunità sparsa nel mondo) è, come pretende di essere, «corpo di Cristo» in terra, e Cristo è creduto e confessato come «principe della pace», la Chiesa non può essere altro che il «corpo» del principe della pace, dunque «corpo di pace». La parola «corpo» va presa molto sul serio: non «corpo mistico» (di cui la Scrittura non parla mai), neppure «corpo spirituale» che sarà quello della risurrezione (I Corinzi 15,44), ma «corpo», semplicemente e fisicamente inteso, come fisico era quello del figlio di Maria. Così sono le anime e i corpi fisici dei cristiani e delle cristiane (non le anime senza i corpi!) che costituiscono il «corpo di Cristo» come «corpo di pace». In che modo però il corpo di Cristo può essere concretamente in mezzo ai popoli un corpo di pace? Ecco, quale potrebbe essere una proposta profetica ed evangelica da fare e da attuare? L’unica «scelta evangelica profetica» da fare è quella – secondo me obbligata – della nonviolenza. Sarebbe una rivoluzione, perché questa scelta la Chiesa non l’ha mai fatta. Sarebbe una svolta epocale, nascerebbe una Chiesa in buona parte diversa. Ogni parrocchia o comunità dovrebbe diventare una palestra di nonviolenza, nella quale s’insegna la teoria di questa disciplina e si imparano le tecniche mediante le quali la si pratica. Sono tutte cose ignote ai cristiani e non è certo un insegnamento che s’impari in poco tempo. Maestri possono esserlo, in questo ambito, Gandhi e Martin Luther King, e in Italia possiamo pensare anche a don Lorenzo Milani con il suo discorso ai cappellani militari, di tanti decenni or sono. Se la Chiesa vuole davvero essere «corpo di pace» e così vincere la sua cronica impotenza a impedire la guerra, cioè l’omicidio collettivo pianificato e praticato (omicidio che, spiritualmente, è al tempo stesso anche un suicidio!), non c’è altra via che scegliere la nonviolenza. La diplomazia è importante, ma non è mai riuscita a impedire le guerre. Questo può ottenerlo solo un «corpo di pace», che è qualcos’altro che un corpo diplomatico. Adottando la nonviolenza la Chiesa strappa le armi dalle mani dei suoi figli e impedisce anzitutto a loro di sparare, uccidere e distruggere. In secondo luogo la Chiesa si pone come «corpo di pace» in mezzo agli eserciti schierati e impedisce loro di scontrarsi, proprio come ha fatto quell’uomo in camicia che col proprio corpo si pose davanti a quattro giganteschi carri armati in Piazza Tienammen in Cina, e li fermò. Quell’uomo è l’icona (come si dice oggi) della Chiesa «corpo di pace». O la Chiesa diventa questo oppure continuerà a essere la crocerossina che cura i feriti e seppellisce i morti, ma non impedisce né gli uni né gli altri. In questa chiusura etnica, nazionalistica delle Chiese (non c’è solo Kirill) non bisognerà riscoprire il carattere costitutivamente cattolico del cristianesimo? Glielo domando anche perché l’ho sentita parlare (in Vaticano!) del carisma dell’universalità, in qualche modo custodito dalla Chiesa di Roma. È possibile immaginare una forma di servizio all’unità dei cristiani, nel riconoscimento delle diversità? Anche perché la loro divisione ne mina la credibilità in una fase già caratterizzata da una marginalità crescente. La cattolicità è persino più di un carisma, è una struttura permanente e portante della Chiesa cristiana, che fin dai suoi primordi è «una, sancta catholica, apostolica». Ed è veramente sorprendente constatare che la sua coscienza di essere una comunità universale è stata presente nella chiesa del 1° secolo che, sul piano numerico, era molto esigua: una vasta diaspora di piccoli gruppi disseminati nello smisurato impero romano. Ora mi sembra evidente che non sia casuale che quella di Roma sia l’unica grande Chiesa che abbia conservato nel suo nome ufficiale l’aggettivo «cattolica» e che sia anche l’unica che abbia fatto del papato – che da sempre ha dichiarato di porsi al servizio dell’unità cristiana – il perno istituzionale dell’intero edificio cattolico romano, facendone addirittura, con il Vaticano I, un dogma, cioè un articolo di fede. È però successo, nella storia della Chiesa, che proprio il papato sia diventato occasione e persino artefice o concausa di divisione tra cristiani nell’XI, nel XVI e ancora nel XIX secolo; e sia tuttora uno degli ostacoli maggiori alla ricomposizione dell’unità cristiana, indipendentemente dalle persone che svolgono quel ruolo. Proprio perché la Chiesa di Roma ha mantenuto più di tutte le altre la coscienza della sua universalità e ha sempre ritenuto che il papato sia un’istituzione «al servizio dell’unità cristiana» (e non solo al servizio dell’unità cattolica romana), a lei – mi pare – incombe il compito di ripensare radicalmente il papato – si tratterebbe, in realtà, di rifondarlo – per farne davvero uno strumento al servizio dell’unità cristiana, e non solo di quella cattolica, com’è stato finora, da più di mille anni. Come immaginare un così arduo compito? Non è facile immaginare se e come questa rifondazione sia possibile. Ma è un fatto che due papi, Giovanni Paolo II e Francesco, hanno parlato pubblicamente in documenti ufficiali di una necessaria e auspicabile «conversione di Pietro», riferendosi ovviamente non alla persona dei pontefici, ma all’istituzione che essi di volta in volta rappresentano. Se questa «conversione» (parola estremamente impegnativa!) avvenisse davvero, non c’è dubbio che aprirebbe prospettive inedite nella storia del papato. Già che siamo sull’ecumenismo, al cui sviluppo lei ha fortemente contribuito, mi permetta una domanda che spero non sia solo una curiosità. Che cosa apprezza in particolare il Pastore Ricca nella tradizione cattolica e in quella ortodossa e quale considera il dono più prezioso che la tradizione protestate può offrire ai cristiani del nostro tempo? Della tradizione cattolica apprezzo lo sforzo di tenere insieme universalità e unità, ereditata dall’impero romano (senza però ricorrere all’esercito!) due grandi valori umani e cristiani, perché l’umanità è una pur essendo diversa, ed è la stessa dappertutto nel mondo, pur con tutte le differenze che la contraddistinguono. Anche nell’ambito del Consiglio Ecumenico delle Chiese si vivono questi due valori, ma la Chiesa cattolica li persegue in maniera sistematica, sia pure nella sua parzialità confessionale. Della tradizione ortodossa soprattutto la liturgia che sembra sia stata composta sul confine tra terra e cielo, tra tempo ed eternità, e che nella sua celebrazione impegna mirabilmente tutti i cinque sensi umani, coinvolgendo, insieme all’anima, anche il corpo, «tempio dello Spirito» (I Corinzi 6,19). Della tradizione protestante il dono più prezioso è senza dubbio la centralità e autorità superiore riconosciuta alla Scrittura per la vita della Chiesa e della fede. Ma anche una sinodalità non episodica, ma congenita alla Chiesa stessa, che la vive in strutture permanenti di governo e decisione. Quali passi ci sono stati da dopo il Concilio soprattutto e quali i nodi principali da sciogliere per avere tra cristiani di diverse confessioni una condivisione più piena? Anche un’ospitalità eucaristica che per tanti battezzati non farebbe certamente problema? Dopo il Concilio, oltre che il clima generale del rapporto tra le Chiese, è enormemente migliorata la qualità delle relazioni anche e proprio a livello di base. L’ospitalità eucaristica è una possibilità reale, che però è tuttora vietata dalle Autorità cattoliche ed è completamente esclusa – direi quasi esecrata! – dalle Chiese ortodosse che la considerano pratica eretica. Eppure, come dice la bella parola «ospitalità», fondamentalmente non è altro che riconoscere insieme che, alla mensa del Signore, siamo tutti ospitati da Lui! E, come dice la liturgia cattolica, nessuno di noi è degno di accostarsi a quella mensa, né oserebbe accostarsi se non avesse udito l’invito che Gesù rivolge a tutti, anche a Giuda! Forse nessuna Chiesa ha ancora riflettuto abbastanza sul fatto, testimoniato da tutti gli evangeli, che Gesù ha voluto celebrare l’Ultima Cena anche con Giuda. È probabile che se questa riflessione avvenisse, tante barriere non potrebbero non sparire. Resto ancora sull’oggi. Nel Paese dove governa una madre cristiana avviene che a 100 metri dalla riva di Cutro si spezza un barcone e con esso la vita di tante persone, soprattutto bambine e bambini. Fame, guerre, cambiamenti climatici, regimi oppressivi spingono milioni di persone a migrazioni appunto bibliche. C’è una parola che non suoni retorica che come cristiani possiamo dire credibilmente?
L’unica parola che potrebbe non suonare retorica nella situazione illustrata dalla tragedia di Cutro è una confessione di peccato da parte del popolo italiano la cui maggioranza si dichiara ancora cristiana e che ha affidato la guida del Paese a un Governo incapace di riconoscere i propri errori o le proprie manchevolezze che indubbiamente hanno contribuito al verificarsi di quella tragedia. Nel suo testo affronta all’inizio tutte le principali obiezioni del pensiero moderno alla fede in Dio. Quante di esse hanno contribuito a purificare l’immagine di Dio che ha dominato per secoli in ambiente cristiano? Dopodiché rimane il mistero dell’esistenza, anche per la filosofia (perché l’essere e non il nulla?), che legittima la ragionevolezza della sfida teologica. Ma il compito della teologia non è forse eliminare false immagini di Dio più che costruirne in positivo? In questo senso essa non è una sorta di «gaia scienza»? L’Europa è, a mia conoscenza, il solo continente al mondo nel quale, grosso modo dal Seicento in avanti, è avvenuta una critica della religione, quindi in primis del cristianesimo, che non è eccessivo definire spietata o feroce, anche se una parte delle critiche riguardava più le Chiese che Dio. Questa contestazione è stata in un senso benefica perché di solito s’è trattato di critiche serie e in parte fondate. Esse comunque documentavano un crescente e diffuso disamore per il cristianesimo e hanno obbligato i cristiani ad avviare un processo autocritico su un doppio registro: quello della distanza tra messaggio cristiano e vissuto cristiano, e quello della coerenza (o meno!) tra l’odierna dottrina e prassi cristiana e l’insegnamento e la vita di Gesù di Nazareth, nel cui nome oggi ancora la Chiesa parla e agisce. Ed è anche il compito della teologia? Questo è anche, in ogni tempo, il compito della teologia: non quello di fare l’apologia della Chiesa così com’è, qualunque cosa dica o faccia, all’insegna di un fatale «la Chiesa ha sempre ragione», che sarebbe una specie di suicidio della teologia; il suo compito è di essere una sentinella, che instancabilmente si sforza di riportare la Chiesa al suo «primo amore», così facile da abbandonare, come capitò già nel 1° secolo alla Chiesa di Efeso (Apocalisse 2,4), a riportarla cioè a quella Parola evangelica dalla quale è nata e grazie alla quale essa vive e sempre di nuovo rivive. Tota vita et substantia ecclesiae est in verbo Dei (Lutero): «Tutta la vita e la sostanza della Chiesa è nella parola di Dio». In questo senso la teologia che vive nella Parola e al suo servizio, non può non essere anche una «gaia scienza», nella scia di questa bella affermazione di Karl Barth (1934): «Tra tutte le scienze la teologia è la più bella, quella che mette in movimento la mente e il cuore nel maggior numero di direzioni; quella che si avvicina di più alla realtà umana e fornisce lo sguardo più chiaro sulla verità che ogni scienza ricerca; quella che si avvicina di più a ciò che il nobile e profondo nome di «Facoltà» vuole dire: un paesaggio con le prospettive più lontane eppure ancora sempre limpide come quelle dell’Umbria o della Toscana, e un’opera d’arte così tanto superiore e così bizzarra come il duomo di Colonia o di Milano. Poveri teologi o poveri tempi in teologia quelli che dovessero non aver notato nulla di tutto questo!». Dio è una parola che gli uomini hanno caricato di molti significati, su cui hanno proiettato tanti desideri, che hanno cercato di catturare rendendola un idolo. E d’altra parte dentro la stessa Scrittura ci sono diverse immagini di Dio. Come regolarsi da cristiani? E come leggere in modo maturo e intelligente la Bibbia? È vero che nella Bibbia ci sono diverse immagini di Dio, ma alla fine ce n’è una sola: Gesù. È lui «l’immagine dell’invisibile Iddio» (Colossesi 1,15; II Corinzi 4,4). «Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Figlio […] è quel che l’ha fatto conoscere» (Giovanni 1,18). Gesù, la sua storia, la sua vita e il suo insegnamento, sono lo specchio nel quale vediamo riflessa la realtà profonda di Dio. Non è un caso che il secondo dei Dieci Comandamenti sia il divieto di farsi un’immagine di Dio (qualunque essa sia), proprio perché il Dio che immaginiamo è sempre un Dio immaginario, una costruzione dei nostri desideri o delle nostre frustrazioni o paure. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato un Dio umano, lo avremmo voluto il più divino possibile; non avremmo immaginato un Dio che non è mai tanto divino come quando diventa uomo, mai avremmo potuto pensare che Dio potesse e volesse essere uomo mortale, che il Creatore volesse diventare creatura. Ma è ciò che è accaduto e ci induce a dire che l’unica immagine di Dio è Gesù. Nella fase che qualcuno ha definito agnosma diffuso, indifferenza, messa in stand by di Dio, dove non c’è più contrapposizione militante nei confronti della religione (in questo senso penso si possa dire che è in crisi anche l’ateismo, per dirla con una battuta: non esistono più gli atei di una volta) da dove ricominciare ad annunciare il Vangelo? Qual è lo specifico cristiano che lo sottrae alla sola dimensione etica, rispetto alla quale il cristianesimo può anche essere utile ma non certo necessario? L’ho sentita parlare a proposito della crisi della fede di un abbandono da parte di molti di ciò che non conoscono. Mi è parsa un’espressione molto interessante. Ci può spiegare cosa intende dire? È vero che molti pensano che Dio sia talmente insignificante che non valga neppure la pena affaticarsi a negarne l’esistenza: che esista o non esista non cambierebbe nulla. Invece cambia tutto. D’altra parte nel primo decennio del XXI secolo abbiamo assistito a un revival di ateismo militante, al quale da tempo non eravamo più abituati. Richard Dawkins, illustre uomo di scienza, ha scritto nel 2006 un grosso volume di 400 pagine intitolato The God Delusion (traduzione italiana L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori 2007), e lo ha pubblicato con una speranza che l’Autore stesso formula in questi termini: «Se questo libro avrà l’effetto da me auspicato, i lettori religiosi che lo apriranno, saranno atei quando lo chiuderanno» (p. 18). Chi conosce la lingua inglese sa che delusion è, sì, parente di illusion, ma significa anche, oltre che «illusione», anche «mania», «fissazione». L’Autore precisa ulteriormente la sua idea dicendo che, secondo il dizionario Microsoft Word, delusion indica una falsa credenza persistente nonostante forti prove a sfavore, in particolare come sintomo di disturbo psichiatrico, e si dice d’accordo con uno scrittore americano che dice: «L’illusione di cui è vittima una persona è chiamata malattia mentale; l’illusione di cui sono vittime molte persone è chiamata Religione» (p. 18) Leggendo questi discorsi di neppure vent’anni fa, non sembra che l’ateismo sia in crisi o abbia smesso di cercare proseliti. Ma quale Dio (dio) combattono questi «ateologi»? Proprio questo libro, come del resto molti altri dello stesso tenore pubblicati dopo il 2000 (1) dunque nel nostro secolo, dimostrano che questi autori combattono un Dio che poco o nulla ha a che fare con il Dio che abbiamo imparato a conoscere almeno «in parte» (I Corinzi 13,9), attraverso la sua storia narrata nella Bibbia e, più che mai, attraverso Gesù di Nazareth. Richard Dawkins dichiara espressamente di combattere il Dio dell’Antico Testamento, definito «un bullo misogino, omofobo, razzista, infanticida, genocida, figlicida, pestilenziale, megalomane, sadomasochista e maligno secondo il suo capriccio» (p. 38). Inutile dire che un Dio di questo genere non ha nulla a che fare con il Dio dell’Antico Testamento, che è stato anche quello di Gesù. Il Dio come lo vede e descrive Dawkins è talmente lontano dalla realtà di Dio che non riesce neppure a essere una sua grottesca caricatura. Ma i cristiani, anch’essi conoscono bene, per quel che si può, quello che chiamano Dio? Purtroppo anche in casa cristiana c’è una grande ignoranza su Dio, anche perché la Chiesa stessa ne parla poco. Lo presuppone conosciuto e quindi non lo insegna. La stessa istruzione catechistica, in generale, è insufficiente. Ci si accontenta di un’infarinatura superficiale. Si predica di più l’amore del prossimo che l’amore per Dio, col risultato che non si ottiene né l’uno né l’altro, secondo Gesù, è l’amore per Dio il fondamento e la ragione dell’amore del prossimo. Oggi nella Chiesa regna la Diaconia. Si dà tanta importanza all’Ottopermille. La diaconia è necessaria e indispensabile, ma non è il tema della predicazione cristiana. Gesù ha fatto diaconia dalla mattina alla sera, tutti i giorni, sabato compreso (trasgredendo la Legge!). Ma non ne parla mai. Parla del Regno di Dio vicino, racconta le parabole del Regno. Di questo deve parlare la Chiesa: fare tanta diaconia, ma parlare del regno di Dio vicino. È questo, e solo questo, il tema della predicazione cristiana. Qualcuno ha parlato anni fa di una amnesia escatologica del cristianesimo. Di uno spostamento della bilancia tutto sul già che via via ha tolto di mezzo il non ancora, la dimensione dell’oltre metastorico ed anche metafisico. Che ne pensa? E non è possibile che la progressiva rimozione dell’oltre metastorico abbia indebolito l’impegno per realizzare degli oltre storici nella direzione della giustizia? Non è in fondo la fede nella risurrezione una sorta di continuazione della lotta per la giustizia con altri mezzi? Il problema sollevato da questa domanda si è acuito nella Modernità, ma è cominciato assai presto. Già nel grande Credo Niceno-costantinopolitano (325 e 381), detto ecumenico (e in un certo senso lo è), si parla di un «Regno che verrà» (chissà quando, in un futuro imprecisato), ma Gesù parlava di un Regno «che viene», al presente. La sua apparizione, secondo Gesù, non era lontana, ma imminente. È però pur sempre un Aldilà che incombe, ma deve ancora venire e per questo, nel Padre Nostro (l’unica preghiera insegnata da Gesù) viene invocato. Nella coscienza del cristiano europeo medio di oggi l’Aldilà non esiste: si affaccia nella sua coscienza solo in occasione di funerali. È vero, e anche significativo, che la Bibbia è molto sobria nel discorso sull’Aldilà, e anche Gesù ha molto insistito, in particolare nell’evangelo di Giovanni, sul qui ed ora del giudizio finale individuale nella scelta tra fede e incredulità (3,18-19.36); la vita eterna comincia qui, con le tre «cose che durano»: fede, speranza amore (I Corinzi 13,13). E Bonhoeffer ha parlato autorevolmente di «trascendenza nell’Al di qua». Ma è un fatto – per riprendere il pensiero formulato nella domanda – che oggi la bilancia cristiana è tutta «sbilanciata» sull’Al di qua e la dimensione del non ancora è largamente ignorata e forse segretamente considerata alienante. Il silenzio sull’Aldilà è un aspetto del più ampio silenzio su Dio, che caratterizza paradossalmente la cristianità odierna che di tutto parla tranne che di Dio. Il silenzio sull’Aldilà è un grande impoverimento dell’annuncio cristiano, un’atrofia della speranza che animava i primi cristiani e in particolare i martiri della fede, una soffocante contrazione dell’orizzonte che Gesù e Paolo hanno dischiuso appunto con il messaggio della risurrezione. L’Aldilà è effettivamente il mondo della risurrezione Non saprei dire se la fede nella risurrezione possa essere vista anche «come una sorta di continuazione della lotta per la giustizia con altri mezzi», perché la risurrezione è l’opera suprema di Dio che supera ogni nostra immaginazione e capacità, è «l’impossibile possibilità» esclusiva di Dio. Quello di cui sono certo è che la risurrezione è la conclusione vincente della lotta di Dio contro la morte e le mille ombre che getta sul nostro mondo e sulla nostra vita, e quindi è la vittoria della giustizia di Dio, che non condanna l’empio, ma lo riscatta, non lo abbandona nella morte, ma gli dischiude le porte della vita eterna. Caro Pastore, al termine di questa intervista, in cui molto si è detto del silenzio su Dio, vorrei chiederle come sia possibile allenare orecchi, occhi e cuore all’ascolto di Dio, posto che, come lei scrive, non è tanto che Dio esista il punto ma quello che Dio parla, cerca, fa storia con noi, è forza vitale. A questa domanda rispondo con Dietrich Bonhoeffer che in una delle sue ultime lettere dal carcere – quella del 21 agosto 1944 – nella quale, commentando il versetto biblico di II Corinzi 1,20, scrive: «Effettivamente, tutto dipende dall’«in lui» [cioè in Gesù Cristo]. Tutto ciò che ci è lecito attendere e implorare da Dio, si trova in Gesù Cristo. Il Dio di Gesù Cristo non ha niente a che fare con tutto quello che dovrebbe o potrebbe fare un Dio come noi ce lo immaginiamo. Dobbiamo riimmergerci sempre di nuovo, molto a lungo e con molta serenità nella vita, nella parola, nell’azione». La risposta alla domanda dunque è: si allenano orecchie, occhi e cuore all’ascolto di Dio immergendosi nella storia di Gesù, che è «la via» (Giovanni 14,6): sia quella di Dio per raggiungere noi, sia quella nostra per raggiungere Dio.