L'editoriale
Va’ e ripara la mia casa
Stavolta due papi dominano le pagine di Rocca. È un fatto inusuale per una rivista che rivendica fino in fondo il suo carattere laico sia pure nella chiara ispirazione cristiana. Tranquilli i nostri lettori: non siamo diventati, nemmeno sotto il pontificato di Francesco, un giornale neoguelfo. Ma come non riconoscere che Giovanni XXIII con il Concilio e Francesco con la Chiesa in uscita abbiano rappresentato altrettanti momenti di svolta per i cristiani e per tutti gli uomini di buona volontà? E come non vedere in questi due uomini, cristiani sulla cattedra di Pietro, punti di riferimento obbligati per le speranze di giustizia e di pace che, spesso, anche oggi, restano mute e nascoste sotto la pelle della storia e che sentono il bisogno di chi sappia dire una parola coraggiosa e profetica. In mezzo non tanto ai profeti di sventura quanto ai costruttori di sventure, assidui oggi quanto mai, nel preparare, sul filo dei propri interessi, la lama pronta a far sanguinare il mondo. I segni dei tempi che Roncalli aveva individuato per un pacifico e giusto progresso dell’umanità: l’emancipazione dei lavoratori, delle donne e dei Paesi del terzo e quarto mondo restano obiettivi da perseguire e i processi di globalizzazione non sempre hanno globalizzato diritti sociali e civili ma spesso inconfessati interessi di gruppi ristretti che concentrano su di sé ricchezze e poteri inauditi e allargano la forbice delle disuguaglianze.
Perfino l’Europa, rinata dopo i due grandi e spaventosi conflitti bellici del ’900, su istanze cristiane e socialiste, ha via via perso la bussola dei suoi ideali solidaristi, ugualitari, autenticamente democratici. E se ci vuole un papa per parlare di diritto al lavoro e alla sua dignità, di protezione sociale universalistica, di accoglienza e di mutuo soccorso, di cura dell’ambiente e di centralità delle periferie sociali ed esistenziali, vuol dire che in tanti hanno abbandonato il campo di costruzione di società giuste e libere, anzitutto dal bisogno e dalla servitù.
«Francesco non vedi che la mia casa sta crollando? Va dunque e restauramela». Così parlò il Crocifisso di San Damiano al santo di Assisi (F.F. 1411) secondo La leggenda dei tre compagni. Ma non si trattava di riparare la chiesetta prossima alla rovina ma di portare al mondo un nuovo sole, una nuova primavera evangelica, secondo il paradosso cristiano per cui la novità va cercata sempre tornando alle origini.
La scelta del nome da parte di Jorge Mario Bergoglio, così sorprendente, era già un programma.
E la casa da riparare non era soltanto la Chiesa ma la casa comune. E mettiamoci dentro la gioia del Vangelo (Evangelii Gaudium), la lode al Signore cum tucte le sue creature (Laudato si’), la fratenità, sorella apparentemente minore senza la quale non stanno insieme libertà e uguaglianza (Fratelli tutti). Tutto questo dentro una chiesa povera e per i poveri, senza di che non si è credenti credibili.
C’è tanto Francesco in Francesco! Anche l’isolamento. Anche il cammino difficile e contrastato di riforma della Chiesa, della necessaria e urgente declericalizzazione e depatriarcalizzazione che apra creativamente la strada di una comunità delle battezzate e dei battezzati, fedeli alla terra e annunciatori della buona notizia per tutti, ma soprattutto per le vittime, i sofferenti, gli assetati ed affamati di giustizia. È necessario tornare a riconoscere nella vita comune quella grazia che essa realmente è: le «rose» e i «gigli» della vita cristiana (Lutero).
D’altra parte l’abbandono della pratica religiosa, soprattutto in Europa, impone di ripartire da questa cristiania, per usare il suggestivo termine che Panikkar adoperava per definire l’orizzonte di una sequela evangelica essenziale nel tempo della secolarizzazione, dentro cui ripensare lo stesso carisma dell’universalità. C’è chi ha parlato di un deficit di innovazione teologica in questo pontificato. Io sposo invece la tesi di un nostro amico che scrive così: «È avvenuto che se Martini era rimasto il papa che non ci eravamo meritati, poi Francesco è stato il papa che lo Spirito Santo ci ha suscitato comunque, forse stufo di aspettare che ce ne meritassimo uno così: così per determinazione, per visione, per una teologia che, come accade per i papi inattesi, sembra solo una grande pastorale ed è in verità una grande novità nella Tradizione» (R. Salvi). È un nuovo discorso su Dio quello che con parole e gesti ci è venuto presentando Bergoglio che semmai dovrebbe indurre i teologi all’audacia della ricerca, la quale è anche sempre messa in discussione di antiche immagini di Dio e ricerca coraggiosa di parole efficaci per dire oggi la fede dei cristiani. Naturalmente non è richiesto a nessuno di condividere ogni scelta e ogni parola del papa. Per esempio qualche dubbio si può avere sull’idea, più volte ripetuta da Francesco, circa l’esigenza anzitutto di aprire processi. Su alcuni di questi forse sarebbe necessario mettendo dei punti fermi. Forse un nuovo Concilio, di cui parla il vescovo Carlassare nell’intervista che trovate in queste pagine, sarebbe utile. Ma il nostro apprezzamento va alla direzione di fondo di questo pontificato, al modo come Francesco appare prima come cristiano e poi come papa, alla riduzione al minimo di ogni pompa, alla scelta di vivere a Santa Marta, alla centralità del periferico e alla perifericità del sacrale, alla immagine da lui usata di un Cristo che bussa non per entrare nel tempio ma per uscirne e incontrare l’umano ferito. E un apprezzamento va anche all’umorismo a cui Francesco ci ha abituati e che anche noi abbiamo usato nel ricordo di questo decennio, con titoli e vignette. Un umorismo che rivela l’illusoria pretesa di eternità dei poteri di questo mondo (sacri e profani), che aiuta a vivere fuori della presunzione di possedere la verità intera, di aver catturato Dio, di averlo a nostra disposizione. No, avere la consapevolezza di essere cercatori cercati, porta anche il papa a dire con Pietro: «alzati, sono anch’io un uomo» At 10,26.