don Lorenzo e don Guglielmo

Si è concluso da pochi giorni alla Pro Civitate Christiana di Assisi un corso bello e intenso su don Lorenzo Milani. Ne è emersa la straordinaria attualità dell’esperienza di Barbiana e delle intuizioni vissute e messe davvero a terra dal Priore. La forza di un messaggio che, anche nel radicale cambiamento di contesto sociale, culturale, religioso e politico, resta pressoché intatto nelle sue ragioni di fondo. Un messaggio vissuto nel frammento, senza residui e senza pretese e che, forse per questo, è sentito come universale. Una sorta di opera d’arte che, nata in un tempo e in luogo particolari, continua a parlare, a vivere, a interrogare cuori e intelligenze di donne e uomini di altri tempi ed altri luoghi. Un insospettabile classico che, proprio nella fine subitanea di quell’esperienza, ha trovato la radice di una fioritura in tanti modi diversi ma dentro uno stesso spirito e con analoghe speranze: fare degli svantaggiati, dei marginali, degli scartati, degli sfortunati i soggetti fondamentali di ogni processo educativo e di ogni percorso civile democratico e ugualitario. L’educazione come sforzo permanente di riduzione delle distanze, di liberazione dalla subalternità, di dotazione degli strumenti critici di comprensione, di lettura e di trasformazione della realtà. Non solo conoscere più parole dentro il linguaggio cristallizzato dei “Pierini” ma costruire via via un linguaggio adeguato ad esprimere le istanze e le speranze di giustizia ed emancipazione dei “Gianni”.

Essere padroni della parola per diventare cittadini sovrani e solo così, se lo si vorrà, cristiani consapevoli. Il crocefisso messo nel cassetto a Calenzano per dire a tutti venite a scuola per essere in primo luogo cittadini maturi, non scompare mai dal cuore di don Milani che anzi nulla si capirebbe di lui senza la sua passione evangelica.

Don Lorenzo ha avuto una radicalità profetica intransigente nella denuncia di ogni ingiustizia e sopruso e ha richiesto una dedizione senza sconti a quanti intendevano combatterla. Certo il consiglio del celibato ai maestri o lo sposarsi solo se si è disposti a lasciare la casa aperta 24 ore su 24 non è un percorso praticabile, né lo è far scuola 12 ore al giorno, 365 giorni all’anno. È un orizzonte, come tale irraggiungibile, una provocazione, nel senso alto del termine, vissuta in prima persona e perciò credibile e inquietante. Ma don Milani ci ha lasciato una quantità di piste che possono ancora oggi essere battute proficuamente. Anche di intuizioni pedagogiche più che mai feconde: dalla scrittura collettiva all’interdisciplinarietà alla cura maniacale della parola più chiara, adeguata e comprensibile (la complessità del semplice) dall’importanza della conoscenza delle lingue al modo di apprenderle davvero, dalla lettura meticolosa del giornale (con tutti gli aggiornamenti che rendono ancora più urgente l’esame critico dei potenti e capillari strumenti dell’informazione contemporanea) agli esperimenti pratici con cui dar corpo alle competenze (pensiamo alla costruzione della piscina di Barbiana). E soprattutto all’abito critico e irriverente attraverso cui l’educazione crea le premesse di un’autentica democrazia. Ciò che portò a quei gioielli di esercizio logico, di dimostrazione stringente, di nitidezza espressiva, di coraggio e di libertà che sono la Lettera ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e la Lettera a una professoressa.

La radice dell’esperienza di Lorenzo Milani è senza dubbio la passione per l’Evangelo. Questa passione l’ha buttato sulla strada senza residui, con la tonaca da prete e quel “ho amato più voi che Dio” della fine che dice tutto sull’autenticità della sua fede. Si è detto a proposito del Priore: Vangelo e Costituzione. Si, sono stati su piani diversi ma in qualche modo intrecciati, i cardini del suo percorso di un uomo cristiano. Nella fulminante Lettera a Pipetta, leggetela per favore, c’è in una felicissima sintesi l’essenziale: scegliere una parte e starci dentro, perfino negli errori, battendo tutte le strade che portano alla giustizia, pronto a tradirla quando la sua vittoria tenderà a riprodurre meccanismi di potere ingiusti o a limitare la libertà della propria coscienza.

Lorenzo Milani, lungo vari snodi della mia vita, l’ho sentito come una presenza necessaria e scomoda. In vita e in morte lo è stato per tanti. Come ha scritto, sia pure non riferendolo a se stesso, “i profeti stanno sui coglioni”. Eppure io che sono nato in una Barbiana che aveva appena il nome diverso ma dove le anime si contavano solo a decine, mezzadri e piccolissimi coltivatori diretti si contendevano il primato della povertà, mancavano acqua e luce nelle case e una pluriclasse era baraccata in una stanza piccola e buia, ho invidiato i ragazzi di Barbiana pensando alla rivoluzione che nei loro cuori e nella loro mente avrà provocato quell’assalto al cielo impensabile a partire da quel frammento di terra dimenticato e marginale, per divenire da poveri cittadini sovrani in grado di prendere la parola.

Io però avevo come parroco don Guglielmo, brava persona timorata di Dio. Di lui ognuno e ognuna dei battezzati hanno impresso il secondo nome nel registro parrocchiale. Ma per il resto non si andava oltre il campetto del Poggio con i sassi a delimitare le porte, la dottrina impolverata di domande e risposte da mandare a memoria (mica quel Catechismo cristocentrico pensato dal cappellano della Parrocchia di San Donato a Calenzano), gli uomini che entravano a mezza messa, le belle processioni per le stradine polverose, le mediazioni per le liti familiari, qualche raccomandazione per il parastato. E poi don Guglielmo non si vide, almeno che io ricordi, quando il villaggio si sollevò, falci e doppiette, per impedire la chiusura della scuola. Forse quel popolo semplice aveva capito che quel brandello di pluriclasse era meglio che niente per sperare almeno che i propri figli sapessero leggere, scrivere e far di conto. Lo so che non bastava ma non avevamo don Lorenzo a dirci il resto. A dirci che la Costituzione sostituiva il «me ne frego» fascista con l’I care.

Dovremmo ricordarcelo ora, ripartendo da lì, in questa stagione in cui la destra cerca di completare lo smantellamento del programma costituzionale iniziato, ahimè, prima che arrivasse, non vista, la mucca in corridoio.

Oggi ciò che davvero sorprende è che nel radicale cambiamento sociale avvenuto in cinquant’anni, che vedo bene quando ritorno al mio villaggio e lo trovo fortunatamente ben ristrutturato da una popolazione nuova venuta dall’est (nella mia vecchia casa rimessa a nuova vita dove cent’anni fa viveva mio nonno Mariano abita Marian con la sua famiglia romena), permangono, in forme nuove, le grandi questioni di giustizia e di uguaglianza sollevate ed energicamente vissute dal Priore di Barbiana. Da quelle dell’obbedienza alla coscienza e alla ragione che ci imporrebbe di disobbedire (pensiamo solo ai salvataggi in mare); alla corsa al riarmo che uccide in guerra e in pace e indossa la maschera della difesa dei valori occidentali; dall’enorme questione delle migrazioni che viene giocata sul mercato del consenso (e su quello delle armi) e che rimuove le ragioni di fondo di questo fenomeno, il quale, forse, potrebbe essere governato con l’accoglienza intelligente, con il sostegno ai movimenti che si battono per una vera indipendenza e una riappropriazione delle risorse da parte dei Paesi impoveriti, con un cambiamento di modelli economico-sociali che consumano il mondo; dalla nuova povertà non solo degli esclusi ma anche di ceti medi proletarizzati e di chi lavora ed è a corto di risorse e di diritti, via via riconsegnati ai padroni come uno scalpo talvolta perfino non richiesto (quanti nuovi Baffi, “piccoli, stupidi privati che possono beffare la Costituzione che un popolo si è dato”, di cui faceva un vivido ritratto don Lorenzo in Esperienze pastorali); ad una rigerarchizzazione sociale che attraverso processi di dispersione, di selezione dolce e progressiva e di ultra specializzazione blocca ogni autentica mobilità in nome della neoideologia del merito che finisce per proiettare nel futuro la fotografia del passato e del presente.

Solo che ora tocca a noi, in particolare alle ragazze e ai giovani, trovare la strada per alleggerire il mondo dall’ingiustizia e anche da rischi più radicali. Diventare sovrani in un mondo molto complesso. Ripensare i soggetti del cambiamento. Creare nuove forme di lotta nel segno di una nonviolenza attiva. Attingere con intelligenza e creatività a quel patrimonio grande e carsico che lungo la storia ha depositato le parole antiche e nuove attraverso cui è camminato quel principio-speranza che ci impone ancora di scommettere sul futuro e su un futuro di libertà e uguaglianza. Se gli ostacoli e i rischi sono giganteschi bisogna osare essere più forti di loro.