Accompagnare la sofferenza coltivare la speranza

conversazione con Guidalberto Bormolini

È stato giovane operaio di una falegnameria artigiana e in seguito liutaio, attualmente è consacrato e sacerdote in una comunità di meditazione cristiana: i Ricostruttori nella preghiera. Laureato alla Pontificia Università Gregoriana, ha conseguito la Licenza in Antropologia Teologica. Cura specialmente il dialogo con le persone che sono in ricerca anche al di fuori della Chiesa. Si occupa di accompagnamento spirituale dei morenti, è docente al Master «Death Studies & the End of Life» dell’Università di Padova e al Master «La Gentilezza nella relazione di cura» dell’Azienda ospedaliero-universitaria Meyer di Firenze. Si dedica al dialogo interreligioso, allo studio delle discipline ascetiche nel monachesimo cristiano ed ai rapporti tra il corpo e la vita spirituale. Particolarmente attento alla spiritualità cristiana in relazione all’amore per la Creazione.

È una gioia immensa incontrare padre Guidalberto Bormolini, in un piccolo paese alle pendici dell’appennino tosco-emiliano, a Mezzana, una piccola località nel comune di Cantagallo. Qui ha deciso di ricostruire un borgo disabitato, una comunità, un luogo d’accoglienza. In questo antico borgo abbandonato, immerso in boschi di castagni secolari, si sta creando un’oasi di spiritualità e cura della persona, costruendo un hospice in cui accompagnatori e accompagnati pratichino meditazione, per un «passaggio della vita». Ma è bene che di tutto questo ci parli padre Guidalberto…

Guidalberto Bormolini

Chi è padre Guidalberto Bormolini?

Sono una persona semplice, ho fatto l’artigiano per la prima parte della mia vita: falegname, carpentiere, liutaio… ma ho avuto anche una vita eccezionale, non per meriti miei, ma per gli incontri provvidenziali. Ho avuto tanti «maestri» e credo che sia ciò che manca a molti giovani oggi. I maestri sono sia sapienti di qualcosa di cui hanno esperienza, sia testimoni di una o più virtù. Mio padre che mi ha insegnato a conoscere ed amare la natura, l’avventura e il mistero; mia madre che mi ha insegnato a non tacere mai di fronte all’ingiustizia; il mio maestro di chitarra che è stato soprattutto maestro di vita, ed altrettanto il mio maestro di falegnameria e ambedue mi hanno insegnato ad usare le mani per fare cose belle; i grandi padri della nonviolenza italiana tra cui Pietro Pinna che mi trattò come un figlio nell’educarmi ad una non violenza non banalmente pacifista, ma coraggiosa e combattente fino al mettere in gioco la propria vita; ma più di tutti padre John (Gianvittorio Cappelletto s.j.) che mi introdusse alla meditazione, alla vita consacrata, al sacerdozio… con lui ha trovato compimento tutto quello che avevo fatto prima e durante l’incontro con la strada dello Spirito. Quindi la mia vita è diventata eccezionale, nonostante me, per tutti gli incontri che ho fatto sin dalla gioventù: grandi spirituali, bravi artigiani, persone impegnate nelle istituzioni e nella società anche a livello internazionale, grandi idealisti, meravigliosi artisti, persone apparentemente semplici ma con un cuore dalle dimensioni smisurate, tante persone sofferenti che mi hanno insegnato quanto è preziosa la vita… e le amiche ed amici con cui ho condiviso la vita spirituale. Da ognuno ho appreso qualcosa, ognuno mi ha sostenuto nel fare cose belle. E dietro tutto questo, nascosto ma presente, il Maestro, quel Dio fatto uomo che ha dato un senso infinto alla mia vita.

Lei fa parte della Comunità dei «Ricostruttori nella preghiera». Ci può raccontare che cos’è questa Comunità?

La comunità dei Ricostruttori nasce in modo discreto qualche decennio fa, in un periodo di profonda crisi religiosa. P. Gianvittorio Cappelletto, il gesuita che ci fondò, intuì che si poteva proporre un percorso spirituale a coloro che, per sfiducia, disillusione o distrazione, avevano abbandonato qualsiasi pratica religiosa. La scintilla fu l’incontro provvidenziale con alcuni monaci indiani che praticavano la meditazione. Questo incontro lo spinse a cercare, nell’ambito della tradizione cristiana, qualcosa che potesse saziare la sete di Assoluto che spingeva molti giovani verso l’Estremo Oriente. La riscoperta dell’esicasmo, più noto come preghiera del cuore, sembrava potesse saziare questa sete, tanto che numerosi studiosi, tra cui il celebre card. T. Špidlík hanno osato definirlo una sorta di «yoga cristiano». La proposta di un «metodo» di preghiera profonda, associata ad uno stile di vita che la facilitasse, soddisfaceva le aspettative di molti: i primi corsi di meditazione ebbero un notevole riscontro. Ben presto i partecipanti manifestarono l’esigenza di poter dare continuità a questa esperienza, per cui si proposero tutti i ritmi ecclesiali classici per mantenere vivo e rilanciare l’entusiasmo iniziale: un incontro settimanale, un ritiro mensile, una settimana annuale di esercizi spirituali. Tutto ciò, naturalmente, richiedeva anche uno spazio fisico in cui ritrovarsi a praticare la meditazione profonda ed approfondire i temi ad essa collegati. Da qui la scelta del nome: «Ricostruttori» non solo della propria vita interiore assopita, ma anche di luoghi abbandonati per trasformarli in spazi di preghiera. Il movimento e la Comunità dei Ricostruttori nella preghiera sono infine stati eretti canonicamente e io faccio parte della comunità dei consacrati.

Fra i suoi molteplici impegni di servizio agli altri, uno in particolare lo dedica ad accompagnare, nella malattia grave, i malati terminali attraverso la meditazione. Ci può spiegare di cosa si tratta? Lei usa spesso il termine tanatologia…

La tanatologia studia, con risvolti pratici, tutto ciò che riguarda il mondo della morte e del morire. Nella nostra civiltà superficiale e schiava della «religione» del consumismo, la morte, la vecchiaia e la malattia sono i grandi esclusi. Mi ha sempre colpito che il percorso verso la realizzazione spirituale del Buddha, parta proprio dall’incontro con malattia, vecchiaia e morte. Il principe che divenne il Buddha venne rinchiuso in una gabbia d’oro dal padre, perché non si dedicasse alla vita spirituale ma si occupasse del proprio regno. Fu durante alcune fughe dal palazzo in cui era rinchiuso che incontrò l’umanità sofferente si interrogò sul senso della vita, ne ebbe compassione e divenne quel mistico che tutti sappiamo. Cerchiamo di indicare a chi soffre una malattia grave la stessa strada del Buddha che è poi quella di tanti mistici, cioè scoprire ciò che realmente conta nella vita. «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Per noi cristiani, inoltre, è essenziale prendersi cura di chi soffre, in quanto, come dice il Vangelo, significa incontrare Cristo.

Ci può parlare della Casa del Grano?

La casa del grano è un percorso che stiamo conducendo da anni con chi soffre una malattia grave. Passare dei giorni di ritiro per rafforzarsi interiormente e spiritualmente. Sono rivolti soprattutto a persone in ricerca (ma non solo) quindi non praticanti una religione. Attraverso la meditazione vogliamo che scoprano la bellezza dell’Invisibile. Una partecipante, malata oncologica, a fine del soggiorno ha esclamato «ma sapete che mi sta iniziando a piacere il vostro Dio! Si, perché io sono sempre stata un po’ lontana dalla chiesa, però è la prima volta che qualcuno ha trovato il modo giusto di farmi avvicinare. Quello che dite, i vostri volti, i vostri sguardi, vedervi tutti insieme cantare alla Messa, era tantissimo che non andavo alla Messa, mi fa pensare che allora mi può piacere il vostro Dio, è come lo sento io. Voi fate una cosa importantissima, portate un messaggio bellissimo a tutti». Credo che le parole di questa donna servano meglio di qualsiasi altre a spiegare cosa avviene in quei giorni. Stiamo costruendo un Borgo intero sulle colline di Prato (www.borgotuttovita.it), per vivere in comunione con chi ha perso il senso della vita, quindi anche chi, come dice Platone, è affetto dalla «malattia originaria», l’allontanarsi dal rapporto col Creatore e con la Creazione.

È venuto, si può dire, alla ribalta, alla conoscenza del grande pubblico come guida spirituale di Franco Battiato. Che rapporto ha avuto con lui? Ci può parlare di questa attrazione che il maestro aveva per le religioni orientali?

Franco mi cercò proprio per le mie competenze da studioso sulla morte e per la mia missione di accompagnatore alla morte. Ho partecipato ad un suo docufilm su questo tema, e da lì siamo rimasti amicissimi, fino agli ultimi respiri. Ci manca e mi manca. Si era instaurata una profonda comunione spirituale. Franco è sempre stato uno spirito libero ed è difficile rinchiuderlo in definizioni religiose. Le sue radici si immergevano nella tradizione cristiana, ma ha attraversato molte scuole per apprendere l’arte della contemplazione: l’Estremo Oriente, il sufismo, la via di Gurdjieff, la tradizione tibetana restando sempre fedele al suo desiderio di trascendenza e di cercare ciò che lo poteva aiutare a vivere una vita immerso nel Mistero. Franco provava soprattutto un grande fascino per la mistica cristiana, come lo provava per la mistica di ogni popolo. Il mondo della mistica è il mondo dell’abbraccio, e nella storia delle religioni sono numerosi e antichi gli incontri e gli scambi tra monaci e contemplativi di tradizioni molto diverse.

Nel libro-intervista che ha scritto pochi mesi fa con Mario Lancisi «Questo tempo ci parla», ad un certo punto lei scrive: «La nostra è ormai una società senza sogni. Il mondo che ci sta alle spalle non era la migliore delle società possibili. Oggi l’umanità è a un bivio». Che cosa intende con queste parole? Dove stiamo andando?

Dove stiamo andando lo può dire solo l’umanità stessa. È un momento di verità e libertà. Ma è anche un momento in cui non ci sono scappatoie. Una terza via non è data, o sceglieremo di essere veramente umani o precipiteremo nella disumanità perché, come dice papa Francesco, «quando non serviamo il Signore Dio, serviamo il Signore Denaro». Non andrà né in un modo né in un altro, siamo semplicemente ad un bivio e saremo noi, liberi umani, a scegliere che direzione prendere: più umani o disumani. Stiamo vivendo un forte impoverimento umano e spirituale. Abbiamo rovinato tante bellezze del pianeta con comportamenti consumistici, predatòri ed individualisti. Si cerca la felicità là dove non c’è, e inevitabilmente i nostri sogni divengono incubi, perché cerchiamo con tutte le forze qualcosa che non sazierà mai la nostra fame più profonda, e questo ha gettato l’umanità in una condizione di profonda insoddisfazione ed infelicità. Ma per uscire da questo che sembra rischiare di essere un pantano, occorre mirare in alto. Il cosiddetto «realismo» ci ha condotto nel baratro. E mi fa tristezza che utopista è diventato quasi un insulto. Io credo invece che Solo chi sogna in grande vedrà qualcosa di bello realizzato, gli altri perderanno la parte più bella della vita. Come insegna l’autore del «Piccolo Principe», è meglio che «fai della tua vita un sogno, e di un sogno, una realtà».

In questa società frenetica, che guarda più a se stessa che agli altri, dove l’io prevale sul noi, prevale l’indifferenza, non facciamo più silenzio dentro di noi, non meditiamo più, anche se non credo che in passato… Lei fa diversi incontri su questo tema. Cos’è oggi meditazione?

Mi è impossibile dire cosa sia meditazione, posso solo dire che a me ha cambiato la vita. Se chiedete a qualcuno innamorato di spiegarvi cosa gli è successo, credo che non saprà mai descrivervelo, ma vi dirà che è felice. La meditazione, da sempre, è esperienza. Ma credo che sia esperienza spirituale solo a due condizioni: che ti metta in relazione con l’Assoluto e che ti spinga a prenderti cura degli altri e di te stesso. La meditazione solo mentale non è meditazione. La profondità è un «altrove», un Regno celeste, e la meditazione ti mette su quella strada. Ma quell’altrove non è un luogo in cui fuggire dalla quotidianità, è piuttosto l’andare ad una sorgente, quella di cui parla il Maestro con la Samaritana: «chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,13). Quindi non solo ci disseta, ma ci fa diventare sorgente per altri assetati…

Papa Francesco ha scritto un’importante Enciclica sul rispetto della casa comune, sull’inquinamento, acqua, biodiversità, cultura dello scarto… «Laudato si’». Lei parla spesso di ecologia spirituale, ne possiamo parlare?

Innanzitutto sia chiaro che non si può separare la questione ecologica da quella sociale. L’amore per la creazione, la terra, la natura o è per tutti gli esseri o non è amore. L’ecologia spirituale richiede l’integrazione di tutti i viventi, compresa l’umanità sofferente, nell’attenzione ecologica, ma anche la messa in guardia nei confronti di un’ecologia egoista e individualista. Si potrebbe parafrasare la celebre frase di Simone Weil riguardo alla differenza tra un nonviolento e un pacifista per cui il primo ha ripugnanza ad uccidere, il secondo paura di morire. Nell’ecologia integrale si ha ripugnanza a ferire la creazione (esseri umani compresi), in quella superficiale invece paura egoistica per la propria salute o per le conseguenze dell’inquinamento sulla propria vita. Nella visione dell’ecologia spirituale si ha la convinzione che siamo tutti collegati. I Padri della chiesa sostengono che l’umanità è profondamente solidale con tutta la creazione, tanto che Clemente Alessandrino vede perfino «gli esseri inanimati simpatizzare con i viventi nell’unità cosmica». Per sant’Ambrogio il cosmo è un organismo unico e armonico, così da «formare una salda unità e una stretta compagine, tanto che cose di natura completamente diversa sono annodate da un vincolo di concordia e di pace come se fossero inseparabili tra di loro». Ma questa famiglia cosmica comprende soprattutto tutti gli uomini sofferenti, esclusi, poveri. Per questa ragione nessuna gioia può essere piena finché perdurano povertà e ingiustizia, perché se anche un solo membro è colpito tutto il corpo mistico ne soffre.

Abbiamo una guerra dentro l’Europa, una guerra che si somma a tanti altri conflitti sparsi per il mondo, e tutto questo ci lascia indifferenti. Sono passati 60 anni dall’Enciclica di Giovanni XXIII «Pacem in terris», nella quale diceva che il ricorso alle armi per risolvere i conflitti è una totale follia «alienum est a ratione». Cosa ne pensa di questa inarrestabile corsa agli armamenti?

Che è una totale follia. Matura nella mia gioventù nelle convinzioni nonviolente, e queste sono solo rafforzate da quanto sto vedendo. Carlo Rovelli ed altri 50 premi Nobel hanno chiesto a tutto il mondo di prendere atto di una cosa: con solo il 2% delle spese militari potremmo risolvere gran parte dei problemi mondiali. Noi invece queste spese le aumentiamo e mandiamo le nostre armi in teatri di guerra. I fatti parlano. Ma a monte manca la conversione personale, dapprima la mia… Diceva Nisargadatta, un sapiente orientale, «Tu vuoi che nel mondo ci siano pace e armonia, ma rifiuti di averle dentro di te». Sono troppo pochi, anche tra pacifisti, coloro che si dedicano alla vita interiore prima dell’impegno sociale.

Padre Guidalberto, cento anni fa nasceva a Firenze don Lorenzo Milani, un prete che ha dedicato tutta la sua vita per il riscatto degli ultimi. Sulla parte della stanza dove faceva scuola ai figli dei contadini, a Barbiana, aveva scritto «I Care», mi sta a cuore, m’interessa. Oggi sembra che non ci stia a cuore niente, che non c’interessi niente… Il messaggio di don Lorenzo ha ancora un senso? Come possiamo oggi attualizzare il suo messaggio? Dove sono oggi le Barbiane?

Quanto aveva ragione don Milani! Ci giochiamo molto intorno a quell’«I Care»! Mi sta a cuore… è la radice di curare. Mi aveva molto commosso sapere che la prima chiesa che mi fu affidata era proprio sulle pendici dello stesso Monte Giovi di don Milani. Una delle persone che mi stanno più a cuore, che mi ha sostenuto in tante fatiche, è di una famiglia del Monte Giovi, proprio delle terre di Barbiana. Credo che don Milani sia molto presente nella mia vita. Oggi credo che le Barbiane vadano costruite dove meno ce lo si aspetta. Di fronte al Mugello di Barbiana stiamo costruendo un Borgo in un luogo in cui tutti dicevano che sarebbe stato impossibile realizzare qualcosa. lo abbiamo fatto. Ma all’inizio della strada abbiamo messo un cartello con una frase, attribuita ad Einstein «chi dice che una cosa è impossibile non dovrebbe disturbare chi la sta facendo».

È tornato in questi giorni da Gerusalemme. Che impressione ha avuto del clima politico-religioso che si respira?

C’è forte tensione, e lo vedete dalle notizie. Lì si vive il paradosso che Gerusalemme, la città della pace come significa quella parola, possa essere la città della guerra. Ogni dono divino affidato alla libertà umana può cambiare di direzione. Questo conferma quanto preziosa sia agli occhi di Dio la libertà umana. Dona e ci lascia liberi al punto di trasformare la pace in guerra. Una parte del mio cuore è rimasta là la prima volta che vi sono giunto. Ho passato un’intera notte a pregare e meditare sulla pietra del sepolcro. Sul luogo in cui la Vita ha sconfitto la morte. Sono ancora più convinto che la Vita sconfigge sempre la morte.

Per concludere una domanda, cos’è oggi che soffoca la speranza?

Il torpore e l’indifferenza. Non credo sia vero che peccare è umano e perseverare no. Io purtroppo ho perseverato tante volte nei miei errori. E da confessore «navigato» posso dire che me lo confermano innumerevoli penitenti. Credo piuttosto che il torpore e l’indifferenza siano i grandi mali di oggi, siano la vera disumanità. Non è disumano chi sbaglia ma chi gode del male e chi è indifferente al male e alla sofferenza. Pierre Teilhard de Chardin diceva: «Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, né la fame, né la peste, è invece quella malattia spirituale, la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli. Che è la perdita del gusto di vivere». Una vita è degna di essere vissuta non in base all’utile che hai accumulato, ma in base a quanto hai amato. Il mondo è pieno di bellezza, proprio perché è nascosta, e perché non cessi di meravigliarci. Abbiamo diritto all’Eden più che a qualsiasi aumento salariale! Sogniamo il più bello dei paradisi, ma sogniamolo assieme. Gli africani dicono che se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia. Io credo, con Pablo Neruda, «che qualsiasi momento è buono per cominciare. Apprendi dagli audaci, dai forti, da chi non accetta compromessi, da chi vivrà malgrado tutto. Alzati e guarda il sole nelle mattine e respira la luce dell’alba. Tu sei la parte della forza della tua vita. Adesso svegliati, combatti, cammina, deciditi e trionferai nella vita». Concluderei solo, a differenza del poeta, con altre parole «Tu sei parte di Dio. Adesso svegliati, combatti, cammina, deciditi e se Lui regnerà nel tuo cuore sarà già iniziata una rivoluzione spirituale». Un grazie dal profondo del cuore a padre Guidalberto, è stato un regalo bellissimo dialogare con lui, la sua vita è una testimonianza che non ci può lasciare indifferenti, occorre come lui dice «risvegliarci dal torpore per immaginare un progetto che contempli, finalmente, la capacità di accontentarsi e di condividere, il silenzio e la bellezza, l’amore per la vita e l’accettazione della finitudine, gli imprescindibili diritti materiali e quelli spirituali».