L'intervista
Accolto al sinodo come un figlio
Incontro con Luca Casarini
Una bella giornata di sole qui a Palermo, una giornata luminosa, come luminoso è stato l’incontro con un amico. Un amico che tutte le volte che lo incontriamo ci emoziona, ci fa pensare, mette a nudo le nostre certezze e ci riempie di una gioia vera. Le sue parole non ci lasciano indifferenti, ci spronano ad andare avanti a guardare il domani che uno sguardo nuovo, colmo di speranza. Leader dei “no global” che ha sfilato a Genova al G8, ex capo dei disobbedienti e oggi a capo dell’ong Mediterranea e invitato da papa Francesco all’ultimo Sinodo dei Vescovi. Grazie Luca per averci dedicato un po’ del tuo tempo.
Chi è Luca Casarini?
Bella domanda. Potrei dirti che oggi sono uno che a bordo di una nave del soccorso civile in mare, va incontro a fratelli e sorelle che chiedono aiuto. Ma ometterei quanto Luca sia anche contradditorio, a volte sbagliato, a volte ingiusto, come lo è stato per tutta la vita. Insomma Luca è certamente inquieto, e ora ha capito che è per questo: mi sento sempre inadeguato e fuori luogo, non
all’altezza di quello che dovrei essere capace di restituire per tutti i doni che ho ricevuto e ricevo ad
ogni respiro che passa. Luca è uno in cammino, e la strada è in salita. Mi fermo ogni tanto, stanco morto, ma poi guardo indietro e scopro la bellezza di essere arrivato dove sono, e di aver incontrato
sulla strada tante persone bellissime, di aver imparato da tutte loro. Mi siedo sul sentiero, mi arrotolo una sigaretta e guardando il paesaggio penso a quanto sono fortunato.
Hai partecipato a Marsiglia all’incontro interreligioso sul tema dell’accoglienza, dell’immigrazione alla presenza di papa Francesco che ha usato parole forti contro l’indifferenza, i respingimenti e a chi ostacola i soccorritori di esseri umani che cercano una vita migliore. Che impressione hai ricevuto di quei giorni?
È stata un’esperienza straordinaria, ricca, caotica e gioiosa. Di quella “follia” che serve, e che rivela se una cosa come quella di aspirare a essere “fratelli tutti”, una follia di Dio direbbe Padre Turoldo, è vera oppure no. Se sia, essere fratelli tutti, un desiderio incarnato o solo uno slogan, un’aspirazione e un’ideale che diventano concreti minuto dopo minuto, o solo teoria. Marsiglia per
me è stata finalmente un “incontro mediterraneo” nel senso vero della parola. È il terzo, in ordine di tempo, dopo Bari e Firenze. Ma per me è il primo vero, come lo immaginavo. Una settimana organizzata dalla Diocesi di Aveline, l’Arcivescovo, tutta all’insegna dell’incontro tra tanti e diversi, provenienti dai tre continenti e dalle cinque sponde che creano quello che chiamiamo “crocevia” mediterraneo, che in comune ha innanzitutto il nostro mare. Vescovi e giovani, ragazze e
ragazzi mescolati insieme, teologi e artisti, attivisti sociali e docenti, laici e cattolici, cristiani e musulmani…in questo caleidoscopio culturale e spirituale ho visto finalmente la potenza che potrebbe assumere una Nuova Alleanza, all’insegna dell’Amore e della fraternità umana. E poi c’è stato Francesco, il nostro grande Papa, che come sempre ci insegna cosa vuol dire avere coraggio. Non è stato, il suo, un Viaggio Apostolico in Francia, ma bensì a Marsiglia. In quella “periferia” che normalmente viene considerata il sobborgo politico ed economico della capitale, che spesso con
la sua “grandeur” toglie luce a tutto il resto. Macron, con un poco dissimulato fastidio, è dovuto giungere lui fino a lì, per incontrare Papa Francesco. E da quella periferia, da quella città che rappresenta davvero, anche nella sua composizione sociale, il Mediterraneo del meticciato, del mare
e della terra, delle migrazioni e delle speranze, quel Mediterraneo pieno di contraddizioni e di sfide difficili, perché vivo, odorante di pesce appena pescato, piuttosto che di profumi degli Champs Elysee, Papa Francesco ha pronunciato parole chiare e coraggiose. L’aveva detto in aereo, ai giornalisti, nel volo che lo portava da Roma a Marsiglia: “Spero che il Signore mi dia il coraggio di dire tutto quello che vorrei dire”. Gliel’ha dato.
Disobbedienti, Centri Sociali… G8 di Genova. Tu che sei stato uno dei protagonisti, ci puoi raccontare…
Sarebbe il racconto di una vita intera, e siccome ormai comincio ad essere vecchio, sarebbe molto lungo… Fino a pochi anni fa, fino a che non mi sono messo in mare con una nave, e ho cominciato ad andare incontro a fratelli e sorelle che gridano aiuto, non riuscivo a capire bene il senso di tutte le
mie scelte nel tempo. O meglio, riuscivo a capirle prendendole singolarmente, ma dovevo sempre fare un’operazione difficile di “razionalizzazione” per trovare davvero un filo comune che le legasse una all’altra. Non ci riuscivo in realtà. Tutto mi sembrava sempre opinabile: ho agito per senso di giustizia? E chi me lo ha dato? Il marxismo, l’ideologia, il narcisismo da maschio bianco occidentale e privilegiato? Un sottile retropensiero coloniale, in base al quale vi sono popoli che da
soli non ce la possono fare e quindi dobbiamo fare noi? Di tutta la mia vita da militante, da attivista,
alla fine riuscivo a dire una cosa sola: ho cercato sempre di stare dalla parte dei poveri, degli oppressi. Poi sul come, sul fatto che di cose giuste e cose sbagliate è fatta anche la mia storia, trovavo un qualche sollievo sul fatto che in fondo, è umano sbagliare, ma il vero sbaglio sarebbe stato quello di aver compiuto scelte fatte non per gli altri, ma per affermare me stesso, usando gli altri. Insomma, un tormento, un groviglio di domande, che risuonano da sempre dentro di me, ma che non hanno mai trovato una risposta adeguata. L’ho sempre chiamata “inquietudine”, ma oggi mi
rendo conto che anche questa continuava ad essere una risposta facile, perché di questa “inquietudine” comunque, non riuscivo, o non volevo dare alcuna spiegazione più profonda. Inquieto, ma per che cosa? In realtà, cinque anni fa quando fondai Mediterranea con pochi altri pazzi come me, è successo qualcosa di non previsto. Ora capisco che a quella domanda, sul senso delle mie scelte di vita, non potrei rispondere confidando solo nella forza della natura umana, della “ragione”. Capisco che quello che ho sempre chiamato “ideale”, non poggiava per me su basi scientifiche, economiche, storiche. Perché oggi vedo di quelle basi, della loro natura umana, tutta la limitatezza, la delimitazione in poche decadi di una storia che è invece enormemente più grande e complessa. Dopo pochi mesi che ero in mare, durante una sosta tecnica al porto di Marsala, ho ricevuto una telefonata dall’Arcivescovo di Palermo, Don Corrado Lorefice, che non conoscevo. “Luca, vieni a trovarmi?”. Fu lui mentre gli raccontavo di Mediterranea, a chiedermi: “Ma a te, che cosa ti muove?”. Quella era la domanda vera. “Cosa stai cercando?” chiede Gesù, molte volte nel Vangelo. Mai “Chi sei? Come ti chiami”. Ma invece “cosa cerchi, cosa cercate”. Ecco, io lì ho capito il perché della mia inquietudine, il perché di tante scelte lungo tutta la mia vita. Cercavo Lui.
Ti chiedo due ricordi. Al Social Forum di Firenze nel 2002, grande manifestazione, grande partecipazione, l’unico Vescovo presente, un nostro amico, Luigi Bettazzi. Che ricordo hai di quei giorni e del Vescovo Luigi?
Di quelle giornate straordinarie ma anche difficili, perché sempre nel punto più alto si può vedere anche la fine di un ciclo, come in natura così anche nei grandi movimenti popolari animati della speranza collettiva, ricordo il mio voler essere e il mio voler non essere. Da un lato la gioia, l’orgoglio, la forza nel sentire di essere parte di una grande moltitudine. Ma dall’altro la diffidenza per il processo di istituzionalizzazione, con l’allora segretario generale della CGIL Sergio Cofferati come leader che naturalmente si faceva strada. Come capitalizzare il grande portato di quel movimento senza farlo diventare l’ennesimo partito? Dall’altra parte, come muoversi da movimento popolare, capace di raccogliere così tanto consenso, senza ricadere nell’errore di pensare che tutti devono diventare come sei tu? Di questi miei dubbi, ne parlavo anche con Don Luigi, io lo chiamavo così sin da quando lo ascoltai la prima volta. Don Luigi era uno dei miei “preti guida”, una persona con un vissuto straordinario, e che mai mi ha chiesto da dove venivo. Mi chiedeva “dove vuoi andare” piuttosto. I miei preti e suore “guida”, i miei amici della “Chiesa dei poveri”, erano quelli che, come lui, incontravo nelle strade e nel cammino, nelle battaglie per la pace come quelle a fianco degli esclusi. Adesso, dopo tanti anni, mi è chiaro perché li cercassi così tanto, anche tra lo stupore e l’imbarazzo a volte dei miei compagni atei e anticlericali, e in qualche modo, li ascoltassi. Ma Don Luigi ad esempio, oltre ad accogliermi sempre con grande affetto quando ci capitava di incontrarci, mi diceva “attento alle trappole, ma vai avanti”. Lui aveva ben chiaro quale fosse la posta in gioco dentro quei movimenti, e non solo fuori, che stavano “attraversando il deserto”, pieni di dubbi su come fare, ma con tanta voglia di cambiare il mondo.
Chi è stato per te don Andrea Gallo?
Un Padre. E anche un fratello, un compagno di lotta, un amico vero. Ma prima di tutto un Padre. Quando nacque il mio primo figlio, siamo corsi a Genova io e la sua mamma, a portare il piccolo a Don Gallo. “Il Gallo”, come veniva chiamato da noi dei centri sociali. Quasi che quel suffisso “Don” ci desse fastidio perché creava qualche distanza di troppo tra noi e lui, segnalasse un’altra appartenenza di quell’uomo buono, forte, ironico e straordinario, che invece volevamo rivendicare come “nostro”. Anche da questa gelosia innocente, quella che hanno i bambini, nasceva il luogo comune che voleva Don Gallo come un “compagno che ha sbagliato Chiesa”. Da destra e da sinistra, questa era la pretesa: separare la vita che conduceva Don Gallo dal suo essere prete. E invece, e io l’ho sempre saputo, Don Gallo viveva il Vangelo. Ed era convintamente un prete, voleva essere un prete. Per lui non vi era altro modo di esserlo, se non stare ai margini, camminare di notte per i carruggi della sua Genova, stare al fianco degli ultimi degli ultimi. Una notte, nella sua sacrestia, mentre ci facevamo una delle nostre chiacchierate, gliel’ho proprio chiesto: ma tu perché fai il prete in questo modo? Lui mi ha risposto: “Solo così incontro Gesù. E io voglio incontrarlo tutti i giorni”.
Quest’anno è il centenario della nascita di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana. Il suo messaggio ha cambiato la società e la Chiesa. Che influenza ha avuto nella tua vita?
È stato fondamentale. All’inizio, quando ho cominciato a leggere di lui, mi ha fornito una ispirazione potente sul concetto di disobbedienza. Poi, con il tempo, ho lasciato che queste letture, la sua voce scritta, potesse “risuonare” dentro di me, Don Milani è un profeta potente del nostro tempo. E ho cominciato così a capire anche la sua “obbedienza”. L’umiltà, il mettere al centro sempre il noi quando l’io rischiava di prendersi la scena. Non si può capire davvero quel “l’obbedienza non è più una virtù” senza considerare bene il suo modo di vivere, di stare sempre e comunque, con umiltà, dentro una Chiesa che lo osteggiava. Non si può capire la sua determinazione a stare con i poveri, senza capire cosa ci trovava, Don Milani, nei poveri. E nemmeno il suo antimilitarismo si può comprendere a fondo, senza considerare lo spirito teologico di voler raggiungere la Parola di Dio, “ama il tuo nemico”. Vita e opere di un Profeta, non semplicemente di un attivista sociale. Ancora oggi, io credo, abbiamo tanto ancora da scoprire dalla vita di Don Lorenzo. Tanto da imparare. Un profeta non si smette mai di scoprirlo, e lui non smette mai di parlarti.
Che impressione ti ha fatto l’invito di papa Francesco a partecipare al Sinodo del Vescovi?
Papa Francesco mi ha fatto un dono. Sono stato accolto al Sinodo come un figlio, da tutte e da tutti, seppure la mia presenza di “invitato speciale” era stata annunciata da certi media ed ambienti, come una specie di “eresia”. È stata per me una esperienza incredibile, straordinaria. Ho conosciuto e discusso con persone che provenivano dai quattro angoli del pianeta, e ascoltarli mi ha arricchito moltissimo. Provo a cercare nel bagaglio delle mie esperienze passate, e non trovo niente di simile. Ma un’immagine, che deriva da parole pronunciate dal subcomandante Marcos che ho conosciuto tanti anni fa in Chiapas, è quella che ci va più vicino: un mondo capace di contenere molti mondi. La “conversazione nello spirito” è una cosa proprio vera: avere sempre presente che non sei tu il protagonista assoluto, ma qualcosa di più grande di te a cui devi fare spazio, perché la tua “missione” non si perda in una esibizione individualistica, ma rimanga a servizio del bene comune. Il Sinodo è la “Chiesa in cammino”, un camminare insieme tra tanti e diversi. Penso che al centro debba esserci il concetto dell’essere maestro servendo. Come fa Gesù, quando lava i piedi. Prima sono questo, servo, e poi maestro, risponde Gesù a chi si rivolge a lui come “Rabbi”. Io, che sicuramente non sono maestro, ho portato la mia esperienza del mare, del “soccorrere per essere
salvato”.
Chi è per te Gesù di Nazareth?
Il più rivoluzionario di tutti nella storia. Ma anche un amico, che ogni tanto cerco di far sorridere utilizzando l’ironia, perché gli voglio bene e credo sia subissato di richieste, imprecazioni, dilemmi, tragedie che gli provengono da noi poveri umani. Ho voglia di vederlo ridere, rilassato, contento. Ha a che fare con noi, che siamo capaci di compiere grandi cose e di essere miserabili allo stesso tempo. Che lo osanniamo e un minuto dopo lo inchiodiamo ad una croce. Davvero vorrei essere capace di non chiedergli sempre “puoi fare questo per me?” ma invece “guarda, adesso faccio io questo per te”. Gesù è uno che non mi ha mai abbandonato, anche quando io lo rifiutavo. Quelli come lui non mollano mai.
Grazie Luca per il tuo impegno e la tua testimonianza.