Riflessioni
Zaini e coltelli
La violenza tra giovanissimi non è più una tragedia rara. Mentre parte della politica se ne serve per alimentare l’allarme sociale e per questa via il consenso a risposte di tipo securitario, nell’opinione pubblica più riflessiva crescono sentimenti sospesi tra incredulità e impotenza. Cosa spinge tanti ragazzi, sempre di più anche ragazze, a rendersi protagonisti a danno di coetanei di aggressioni fisiche e psicologiche, estorsioni, molestie e violenze sessuali, bullismo e cyberbullismo? Come si spiega che negli zaini dei quindicenni ci siano spesso dei coltelli, e nelle loro teste la tentazione, la voglia, la sfida di usarli? È inoltre un tormento da sbrogliare con buon senso ed equilibrio la consapevolezza che a quell’età i carnefici sono di sicuro anche vittime, che quindi non basta punire e occorre anche prevenire. Ma vittime di che cosa, quali sono i fattori che oggi pesano di più nella delinquenza giovanile? Per capire bisogna conoscere, ascoltare, discutere. Andando oltre e superando stereotipi, pregiudizi, generalizzazioni. Non è facile.
NUMERO REATI STABILE, MA CRESCE LA VIOLENZA E CALA L’ETÀ DEI PRIMI REATI
Risponde a verità, intanto, quello che si tende oggi a dare per scontato, cioè che il numero dei reati compiuti da giovani e giovanissimi sarebbe in continua ed impetuosa crescita? Sono tante le ricerche che assomigliano troppo ad approssimativi sondaggi di opinione per essere attendibili, ma ci sono anche studi più seri. Il quadro che emerge dal recente Rapporto “Le traiettorie della devianza giovanile” elaborato dal centro di ricerca dell’Università Cattolica di Milano in collaborazione con il Dipartimento per la Giustizia minorile è uno di questi, e ciò che molti danno per scontato ne esce smentito. L’analisi dei dati dell’Ufficio di Servizio sociale per i minori del Comune fatta dai ricercatori, arricchita dal confronto tra la situazione dei “presi in carico” dal servizio nel 2015-2016 e quella del 2022-2023, evidenzia infatti che il numero dei reati non è in aumento. Ma la percezione di un aggravarsi della situazione, e l’allarme che ne deriva, resta ampiamente giustificata da due nuovi fenomeni. Il primo è che, se non ci sono peggioramenti di tipo quantitativo, è però il profilo qualitativo dei reati che sta cambiando: mentre ad essere in calo sono scippi e spaccio di droghe, crescono invece le rapine e le lesioni personali, quindi il tasso di violenza. Il secondo fenomeno, che inquieta ancora più del primo e interroga gli adulti genitori e insegnanti con diretta responsabilità educativa, è che l’età media di chi commette il primo reato è in netta diminuzione. Nel campione di casi studiati riferito agli anni 2022-23, più di metà dei “primi reati” è stata commessa prima dei 15 anni (52%), mentre nel 2015-2016 era solo il 32%, con un’età media che è passata dai 16,1 anni ai 15,6. Non si possono chiudere gli occhi di fronte a questi dati, non si possono liquidare come si trattasse di bravate adolescenziali.
STARE LONTANI DALL’OVVIO
Siamo di solito portati a credere che a giocare un ruolo decisivo siano le condizioni economico-sociali dei nuclei familiari di appartenenza. Ma bisogna tenersi lontani dall’ovvio. Nella grande maggioranza dei casi esaminati (72%), i minori presi in carico dal servizio sociale milanese non provengono da contesti particolarmente disagiati dal punto di vista economico e neppure connotati da indicatori di marginalità sociale. La “povertà” associata a un forte rischio di comportamenti “antisociali”, di mancanza di autocontrollo delle emozioni, di assenza di empatia, di indifferenza o di inconsapevolezza degli effetti delle azioni è di altro tipo. Si tratta, secondo il Rapporto, di un’ “immaturità relazionale ed emotiva tipica delle nuove generazioni” con frequenti manifestazioni di “disturbi della condotta”, cioè di comportamenti aggressivi verso se stessi (autolesionismo) o verso gli altri. Un fattore di rischio è connesso con problemi legati alla dipendenza o all’uso ricorrente di sostanze alteranti (stupefacenti ma sempre di più anche alcool), che aumentano dal 42% nel 2015-16 al 62% dei casi del 2022-23. Le caratteristiche del nucleo familiare hanno comunque importanza, il 71% dei minori autori di reati, al momento della presa in carico da parte dei servizi, vive con un solo genitore, un indicatore se non di sicura disfunzionalità familiare, di più difficile possibilità di attenzione e cura educativa. A completare il quadro, ci sono elementi che sono invece in continuità con il passato, come la correlazione assolutamente lineare (100%) con seri insuccessi scolastici, e la tendenza nei due terzi dei casi a commettere reati “con altri coetanei”, bande o gruppi che fanno comunità di pari di tipo identitario.
LA PRECOCIZZAZIONE DEI COMPORTAMENTI ANTISOCIALI
L’allarme sociale, al di là di enfatizzazioni mediatiche sempre più prigioniere dell’abitudine a evidenziare “più l’albero che cade delle foreste che crescono”, è quindi giustificato. Ciò che viene avanti, in Italia come in altri paesi cosiddetti avanzati, è una sorta di mutazione esistenziale delle generazioni più giovani, in cui a colpire più di ogni altro fenomeno è la precocizzazione di comportamenti variamente asociali che ci sono, e sono diffusissimi, anche quando non si traducono in atti violenti. Cosa sta succedendo? L’adolescenza, si sa, è sempre un’età complicata, caratterizzata dal disagio di una ricerca di identità nutrita dal fisiologico bisogno di staccarsi dalle figure genitoriali per mettersi in relazione con altre, ed esserne accettati e riconosciuti. Di qui gli strappi, le trasgressioni, le bravate, la passione del rischio e delle sfide, le contrapposizioni intergenerazionali, l’importanza totalizzante dei contesti comunitari tra pari, i conflitti tra “bande”. Tutto molto noto, molto studiato, molto e spesso splendidamente raccontato dalla letteratura e dal cinema, anche se per i genitori quasi sempre immemori di com’erano loro all’età dei loro figli, è spesso una sofferenza con cui è difficile fare i conti (e facilissimo invece fare errori). Ma oggi, nelle nostre società affluenti, ciò avviene già verso la fine della scuola primaria, sempre più presto e conseguentemente a stili di vita, modelli di consumi, utilizzo del tempo in cui si anticipano libertà – di relazioni, amicizie, orari, uso del denaro, acquisti, spazi separati nell’ambiente domestico, feste, esperienze sessuali e sentimentali, modalità di informazione e comunicazione – un tempo impensabili prima di un’età ben più adulta, e di sicuro molto difficili da gestire sul piano emotivo in quella impetuosa piena di tensioni e di contraddizioni di un’adolescenza che comincia troppo presto. E che, complici la durata degli studi e i tempi dell’inserimento nel lavoro, dura troppo a lungo. Prima dei 17-18 anni non è affatto patologico non essere in grado di misurarsi razionalmente con litigi, conflitti, emozioni, amori, tradimenti, incomprensioni, successi e insuccessi. E di certo non aiutano la spasmodica ricerca di visibilità e la costruzione di profili e di vite virtuali attraverso l’uso, anch’esso troppo precoce e smodato, dei social.
DELEGHE EDUCATIVE, L’AFASIA DEL MONDO ADULTO
È sbagliato, osservano gli esperti, che in troppi casi gli adulti non sappiano fare altro che tentare di “medicalizzare” quel disagio fisiologico, delegando a psicologi e persino psichiatri il supporto emotivo, la capacità di riflettere sul significato e sugli effetti delle azioni, il senso del limite, la progettazione di un futuro. È sbagliato delegare alla scuola troppi compiti educativi. È sbagliato, in sintesi, rinunciare ad educare, a dare regole, a fornire modelli di comportamento fondati su valori. In assenza di confini, la fisiologica e sana trasgressione dell’adolescenza può produrre sconfinamenti rischiosi. Le pulsioni e le sfide, non trovando muri da scavalcare, possono tracimare in eccessi, rabbia, perniciose solitudini. Il problema, insomma, sembrerebbe essere degli adulti, ben più e prima che dei giovani. E in particolare della loro attuale afasia educativa che sterilizza il fisiologico conflitto intergenerazionale attraverso cui passano i processi di costruzione dell’identità e dell’autonomia dei più giovani. Secondo Paolo Crepet, psichiatra e opinionista di successo nonché autorevole studioso del pianeta giovani, i genitori di oggi vogliono essere più giovani dei loro figli, “amicalizzano” i rapporti, abdicano alla distanza, alla capacità di ascolto ma anche di indirizzo che sarebbe prerogativa del loro ruolo educativo. Non esiste più “il capitano”, il punto di riferimento con cui misurarsi, da smantellare e di cui liberarsi per diventare pienamente adulti. Una generazione cresciuta in una cultura prevalentemente antiautoritaria ma anche consumista e individualista sta rinunciando pavidamente alle responsabilità dell’educazione. In base ad una sorta di “armistizio non detto”, secondo cui i genitori preferiscono lasciar fare ai figli quello che vogliono pur di evitare conflitti e tensioni. Pur di non dover fare i conti, loro stessi per primi, sul senso di stare al mondo, sulla necessità e sulla qualità del vivere sociale, sui valori guida della cittadinanza attiva. In questo tipo di interpretazione, e nelle indicazioni educative che ne conseguono, ci sono forse riflessi di nostalgie conservatrici, di desiderio di ripristino di un tempo andato che non era poi così positivo e così desiderabile, anche in termini di risultati educativi, come oggi potrebbe sembrare. C’è comunque, in Crepet e altri, un eccesso di focalizzazione sull’educazione di tipo familiare che rischia di trascurare un’altra faccia del prisma. Il vuoto educativo che si sta determinando in società sempre più atomizzate in cui l’iperconnessione telematica copre a stento una folla di solitudini sociali e individuali. Ci sarebbe insomma da riflettere anche, e soprattutto, sul senso profondo dell’educare – che significa accompagnare i giovani ad un nuovo cammino, il loro e quello di tutti – in un mondo che parla più di economia e di profitti che di sviluppo, più di soldi e di potere che di qualità ambientale, più di guerre e di competizione che di convivenza, cooperazione, solidarietà. Il silenzio educativo è probabilmente fatto anche delle difficoltà, speriamo solo temporanee, a cercare e trovare insieme le parole nuove per un mondo nuovo.