Tra mistica e impegno

Adriana Zarri è nota al grande pubblico soprattutto per gli interventi duri con i quali ha preso, fino all’ultimo, posizione nei confronti tanto della società civile che della chiesa. Nel primo caso reagendo contro le ingiustizie sociali in difesa dei poveri e denunciando con rigore i tradimenti della laicità di cui era fiera paladina. Nel secondo, non risparmiando critiche severe ad alcune derive postconciliari del magistero e della teologia, segno di un processo involutivo rispetto alle prese di posizione del Concilio, di cui aveva respirato l’aria a pieni polmoni, e rifiutando soprattutto il potere mondano che si manifestava (e si manifesta) con la rivendicazione di privilegi o l’indebita ingerenza sul terreno politico e legislativo.

Questa immagine pubblica di polemista, Adriana se la attribuiva con compiacenza e con orgoglio, non esitando a denunciare il suo “temperamento da battaglia” e definendosi come “una scrittrice spesso polemica”, con “uno stile… feroce, crudo e selvatico, che ama la lotta con la penna, con le parole, con le opere”: una polemista alla quale “piacciono le sedute tempestose, le imprese rischiose”. Del resto, ricordava spesso che vi è una nobiltà della polemica, la quale, quando è del tutto disinteressata, fornisce un apporto fondamentale allo sviluppo positivo della vita della società e della chiesa.    

Questo tratto essenziale della sua personalità ha finito, tuttavia, per occultarne un altro, solo apparentemente in contrasto con il primo, e che maggiormente le si addiceva e giustamente rivendicava: la vocazione eremitica. che ha perseguito con ostinazione divenendo una “mistica” del nostro tempo, che non ha nulla da invidiare ai grandi classici della mistica spagnola, italiana, e nordeuropea. La conferma sorprendente di quanto questa vocazione costituisse il fattore più importante della sua esistenza viene dalla recente pubblicazione dei suoi Diari (La mia voce sa ancora di stelle. Diari 1936-1948, Einaudi editrice, Torino 2023) curata con competenza e passione da Francesco Ochetto, che, oltre a introdurre le diverse parti di cui il libro si compone, ci propone uno splendido saggio finale dal titolo suggestivo, L’insonne fioritura dell’anima, nel quale egli sintetizza l’esperienza originale di Adriana mettendola a confronto con esperienze analoghe di mistiche medioevali e moderne.

L’itinerario successivo da lei compiuto si è manifestato poi, nel pieno della maturità, con la pubblicazione di una serie di opere di alta spiritualità cristiana – da Un eremo non è una lumaca (Einaudi) a Quasi una preghiera (Einaudi), da È più facile che un cammello… (Gribaudi), a Erba della mia erba (Cittadella) – nelle quali vengono dispiegandosi con chiarezza i tratti qualificanti di una vita eremitica dalla forte tensione mistica; una vita immersa nel silenzio, nella solitudine e nella contemplazione.        

Un lampo, una folgorazione

Il percorso per giungere a tale traguardo è stato per Adriana lungo e faticoso. L’infanzia e l’adolescenza sono state per lei un periodo tormentato, soggetta come è stata ad un complesso travaglio esistenziale, nel quale affioravano gli aspetti peggiori del suo carattere con l’emergere di uno stato di impotenza, che si traduceva con frequenza in sentimenti di “collera”, “impazienza” e “ira”. A determinare questa situazione era soprattutto la percezione di una vita senza scopo, un senso di vuoto e di abisso originati dalla ricerca di luce e di verità e dall’impossibilità di attingerla anche in conseguenza – come ella stessa in seguito confesserà – del difficile, burrascoso – rapporto con Dio verso il quale prevalevano atteggiamenti di ribellione e di rivolta, fino ad auspicarne il deicidio.  

Poi, dopo l’attraversamento della “notte oscura”, l’improvvisa, inaspettata irruzione di uno squarcio di luce e di vita. “Fu un lampo! Un lampo improvviso – osserva con stupore Adriana – che squarciò le tenebre della mia mente nella quale si versarono torrenti di luce. In un istante io vidi Colui che avevo sempre cercato: lo conobbi, lo amai, fui sua” (p. 43). Si tratta di una vera e propria folgorazione in cui Dio si manifesta nella sua natura più profonda come Amore infinito che chiede di essere ricambiato, ma che, conoscendo il limite umano, non cessa di esercitare, anche nei momenti più bui, quando l’uomo lo rifiuta e lo bestemmia, la sua misericordia e di accordare, senza alcuna limitazione, il suo perdono. Commentando questa svolta radicale nella vita di Adriana, Francesco Ochetto osserva: “I cancelli del suo ‘io’ difeso come una proprietà privata, dapprima protetti verso qualsiasi agguato, si spalancano ora all’assalto di una Presenza inattesa, ‘più reale che qualsiasi altra realtà’, che schiude l’anima a spazi sconfinati, dilatandone oltre misura i sensi e la coscienza, divenuti oceanici” (pp. 256-257).

Dall’ascesi alla mistica

Volgendo lo sguardo da quella nuova situazione al passato Adriana riconosce la gravità del proprio peccato consistente nel mancato riconoscimento di Dio, nutrendo un forte senso di colpevolezza – “ho molto da espiare, molto da riparare” (p. 62) – e invoca il perdono di Dio, in un atto di totale affidamento a Lui. Questo senso del peccato e questo bisogno di espiazione la spingono a fare propria un’ascesi dura con l’offerta piena di sé, fino alla rinuncia alla propria realizzazione, con il sacrificio di tutto in una forma di autonegazione, con accenti che rasentano il masochismo.      

È espressione di questa ricerca la scelta a lungo meditata e poi messa in atto di entrare nella Compagnia di San Paolo, nata sotto l’egida del card. Ferrari, arcivescovo di Milano, per poter meglio dare risposta alla propria vocazione. La vita di comunità non è facile: è scandita da ritmi precisi che vanno seguiti e da regole che vanno rispettate, nonché da momenti di incontro fissati ai quali occorre partecipare: si pensi soltanto a quelli di preghiera nei quali, al di là dei tempi, sono spesso anche le modalità non confacenti alla sensibilità della persona. Essa richiede pertanto un senso di adattamento con la rinuncia all’autonomia e il forte ridimensionamento della libertà.  A rendere la vita ancora più dura è poi l’obbedienza al superiore che decide su ciò che occorre fare anche in circostanze nelle quali si vorrebbe fare altro, ed esprime giudizi, qualche volta severi e pungenti, circa il livello di partecipazione di ciascuno alla vita comune e l’osservanza di ciò che va fatto per esserne realmente partecipi.

Adriana, che pure – come si è già rilevato – ha un carattere ribelle, e dunque fatica particolarmente ad accettare ciò che le viene imposto dall’esterno – si adatta, con convinzione, a quanto le è domandato riconoscendo come volontà di Dio anche le limitazioni e considerando il superiore come rappresentante di Dio, perciò sforzandosi di aderire incondizionatamente alle sue richieste, anche quando le impongono l’abbandono di quello cui si sente chiamata, come il bisogno di scrivere. “Troppo spesso – ella osserva – ci si crea la santità secondo il proprio gusto mentre la santità sta nel rinnegare i propri gusti” (p. 111).

Questo stato di dipendenza assunta come adesione alla volontà di Dio – viene ben presto da lei abbandonato. Ella sperimenta un senso di soffocamento che si oppone al desiderio di fare spazio alla creazione “di arte e di lotta”: creazione che ha bisogno per potersi esercitare di uno stato di autonomia e di libertà, che soltanto nella scelta della vita monastica è possibile attingere e che è condizione imprescindibile per risalire alle radici della mistica cui ella si sente particolarmente votata. Emerge dunque qui, con un impulso intenso e irresistibile, “la nostalgia della cella, della grotta del deserto, delle ore senza fine in cui ci si può congiungere a Dio, tuffate nell’eternità” (155-156).

Adriana è consapevole dei rischi in cui si incorre nello scegliere l’esperienza mistica: dagli eccessi cui essa può condurre alle delusioni che essa può provocare. Per questo non esita a farne propria una concezione rigorosa alla cui base vi è una teologia apofatica, che supera la semplice ricerca razionale per immergersi in una dimensione contemplativa, nella quale si fa strada l’accesso a prestigiose verità grazie alla conoscenza sperimentale del divino che si propone con accenti inesprimibili.

Si tratta di un’esperienza spirituale fondata sul rapporto immediato tra la creatura e Dio, sull’unione integrale della persona con il suo Signore; esperienza che implica l’abbandono della logica del fare e del possedere per aderire alla logica del “ricevere”, del “lasciarsi fare” ed “amare”. Questo comporta la coltivazione di una “attitudine alla passività” da non confondere con una forma di quietismo, bensì caratterizzata da una profonda attività interiore, favorita dal silenzio, dall’ascolto e dall’accoglienza di un Dio cui non dobbiamo andare forzatamente incontro ma che ci viene costantemente incontro e che dobbiamo con vigilanza attendere.

Due sono le condizioni, che è necessario vengano rispettate, perché questo si verifichi. La prima è rappresentata dalla scelta di uno stato di povertà, di umiltà e di semplicità da parte di chi, avvertendo la propria condizione di indigenza, percepisce di avere assolutamente bisogno del soccorso del Signore, invocandolo e aderendo totalmente alla sua volontà. La seconda è il superamento della semplice ricerca razionale per immergersi in uno status di esperienza contemplativa, che dà accesso a prestigiose verità proposte con accenti inesprimibili. Mentre, infatti, la conoscenza filosofica ci porta a “una lucida verità di raziocinio”, “la conoscenza sperimentale – osserva Adriana – sta prima e coinvolge la persona nella totalità del suo essere”, e aggiunge: “Quella è una conoscenza, questa è un’esperienza: la differenza tra vedere dal di fuori ed essere dal di dentro” (p. 193). È l’esperienza del rapimento divino, che trova la sua più alta espressione nella “mistica delle sacre nozze” cui vengono dedicate da Adriana pagine roventi che fanno eco al Cantico dei Cantici. Inscritto nel vivo di questa esperienza l’amore umano non può più avere i connotati di un “amare per amore di Dio, ma di amare dell’amorediDio(p. 206).

Una prospettiva incarnatoria

Il Dio in cui la Zarri crede non è un Dio astratto e lontano, senza un nome e senza un volto. È il Dio della rivelazione cristiana, il Dio di Gesù Cristo. È il Dio Amore, che vuole essere accolto come ospite dall’uomo e che fornisce un appagamento spirituale, ma anche corporeo ed emotivo. Un Dio che supera il razionalismo e il sentire maschile per aderire – osserva Ochetto – “alla realtà quotidiana e dunque al calore creaturale, al gioco, alla festa, al senso della gratuità” (p. 267).

Un Dio soprattutto sconcertante e imprevedibile che si è “fatto carne” nell’evento-persona di Gesù di Nazaret e che diviene oggetto, in forza della sua umanità, di una spiritualità incarnata, la quale – rileva Adriana – “rende sensibili alle nostre povere facoltà di uomini la sua inafferrabile spiritualità” (p. 157). Un Dio che coinvolge nel suo Amore tutto l’essere integrale dell’uomo: sensi, sentimenti, passioni e desideri e che non si limita, di conseguenza, a un coinvolgimento emotivo ma anche fisico. Un Dio che assume, infine, anche l’ordine creaturale dando vita a una “comunione cosmica”, che include animali – i gatti in particolare – giardino, orti e frutti della terra, e che si estende all’intero universo.

Determinante è, secondo la Zarri, la centralità che va assegnata al mistero dell’Incarnazione, il quale fonda una spiritualità feriale, che investe la vita umana in tutte le sue espressioni. Adriana lo mette bene in evidenza in questo suggestivo passo dei Diari sotto forma di preghiera: “Signore – scrive – io non posso dimenticare che Tu hai un corpo divino, con le mani per sorridere e baciare, che la tua anima è scolpita in un viso, che la tua perfezione si modella in una figura, e il tuo amore batte in un cuore di carne, sorride in una bocca umana, accarezza con delle mani simili alle nostre” (p.157).

È questa la ragione per cui non è possibile separare contemplazione e azione “modi diversi di unirsi a Dio, differenti mezzi della stessa perfezione” (p. 165), che divengono, quando si aderisce alla volontà di Dio, l’identico ricambio dell’amore ricevuto. Ed è in particolare questa la ragione per la quale la mistica di Adriana si trasforma in un canto in cui esistenza umana e natura si fondono in piena armonia: “Ti amo – ella scrive – nei giorni e nelle notti, nel sereno e nelle nebbie, nei fiori che sbocciano in primavera e nelle foglie che cadono in autunno. Ti amo nei campi pettinati e nelle foreste selvagge, negli sposi che si amano e nei vergini che si donano, nei fuochi dei camini e nei ceri degli altari” (pp. 238-239).

Per concludere

I Diari di Adriana Zarri, recentemente editi da Einaudi, che percorrono i primi trent’anni della sua vita, oltre a preludere agli importanti testi di spiritualità che in seguito ci ha lasciati in eredità, dove la dimensione mistica appare in tutta la sua ricchezza e profondità dovuta all’età matura, costituiscono una preziosa (e sorprendente) testimonianza di quanto, fin dall’adolescenza, fosse radicata in lei quella tensione spirituale, che si tradurrà in seguito in scelta di vita.

Si tratta di pagine dalla passione infuocata, che vanno ben al di là dei superficiali sentimentalismi e degli sterili estetismi, per scavare con rara finezza negli aspetti più nascosti della sua vita interiore e rendere ragione della sua piena adesione alla volontà di Dio. Sentimento e bellezza, da sempre componenti essenziali della sua esperienza – è sufficiente accostarsi a questi Diari per cogliere l’eleganza della scrittura e il forte accento poetico che le pervade – rappresentano l’orizzonte entro il quale viene dispiegandosi una visione del cristianesimo, nella sua versione più radicale – il vangelo sine glossa di Francesco d’Assisi – come sorgente di una spiritualità mai del tutto pacificata, nella quale si alternano luci e ombre, giornate luminose e notti di oscurità e di indifferenza. Si tratta, come bene ha rilevato Francesco Ochetto, di una vera “storia dell’anima” nella quale si fa strada il cammino verso Dio di ogni autentico credente; un cammino accidentato che esige per essere percorso – sempre parzialmente – un radicale abbandono nelle mani del Dio di cui si nutre fiducia. Una vera mistica, dunque, e una delle principali voci profetiche del cattolicesimo del Novecento. “Dal passato – conclude Ochetto nel suo esemplare saggio più volte citato – dopo una lunga e affannosa ricerca di senso (Adriana) giunge fino a noi portando in salvo queste schegge di cometa che sono le sue parole così vibranti e vive, testimonianza di un viaggio sconfinato nell’universo dell’anima” (p.270). Per questo – come recita il titolo del libro dei Diari – la sua voce “sa ancora di stelle”, capaci di illuminare, con la loro luce intensa e discreta il difficile cammino dell’esistenza di ogni persona umana.