Tutta l’Africa nel piatto

il viaggio (con ostacoli) della prima chef nera d’Italia alla scoperta di colori e sapori della cucina afrocaraibica

Conversazione con Victoire Gouloubi

Victoire Gouloubi (Brazzaville, 1981) è una executive chef di fama internazionale. Da ventitré anni vive e lavora in Italia, dove è giunta nel 2001 per fuggire dalla guerra civile che insanguinava il Congo. Da quando ha intrapreso la carriera di chef, fa della promozione della cultura gastronomica afrocaraibica il suo principale obiettivo professionale.

Victoire Gouloubi, al secolo chef Victoire, è la prima executive chef donna nera in Italia. Tre qualità che, unite insieme, la rendono una persona eccezionale, nel senso etimologico del termine.

Victoire, che cosa significa mangiare per lei?

Occuparmi di cibo è la mia professione, ma per me mangiare vuol dire innanzitutto vivere. E non solo per la naturale funzione di sostentamento fisiologico del nutrirsi, ma anche perché consumare e preparare cibo è un atto di comunicazione, di interazione fra esseri umani. Nel mio Paese, ma direi in buona parte del continente africano, condividere un pasto è quasi un atto sacro, una forma di spiritualità attraverso la quale le persone, rinnovando la vita, esprimono il loro ringraziamento alla Madre Terra, che offre loro di che sfamarsi.

Nel 2001 lei se ne andò dal Congo, lasciandosi alle spalle una guerra civile violentissima. Qual era il suo sogno, il suo più grande desiderio, quando è partita?

All’epoca avevo appena ventuno anni. Subito dopo aver ottenuto il visto sul passaporto, mi imbarcai a bordo dell’aereo che mi avrebbe portato in Europa, e con me c’era il mio fratello più giovane, che aveva fatto la mia stessa scelta. Ero un concentrato di adrenalina, mi sentivo in balìa di sentimenti contrastanti. Ma prima di tutto, mi addolorava allontanarmi dalla mia famiglia. I miei genitori, che sostenevano la mia scelta, mi salutavano con le lacrime agli occhi, consapevoli che quella non era una fuga o il ripudio della terra natale, ma il tentativo di una giovane ragazza di costruirsi una vita normale, lontana dalle atrocità della guerra. In Italia, a Vicenza, ci attendeva uno zio prete, ma le incognite erano tante: come mi sarei guadagnata da vivere? Come mi sarei trovata in un Paese che non conoscevo per niente? Come avrei potuto comunicare, se non conoscevo una parola di italiano? Mio padre voleva che studiassi giurisprudenza per intraprendere la carriera forense, e quelli inizialmente erano i piani. Nemmeno io mi sarei mai sognata di diventare una chef.

Come furono i primi tempi a Vicenza?

Per qualche mese feci molta fatica ad adattarmi alla lingua, al clima, al modo di pensare degli italiani. Ero frastornata, vedevo il percorso universitario molto lontano negli esiti e nelle possibilità. Fu mio zio a suggerirmi di provare a indirizzarmi a una professione. E così, dopo qualche mese, cominciai a frequentare una scuola alberghiera, con l’idea di potermi giocare una possibilità importante. In Congo la gente, anche le donne e i bambini, moriva ogni giorno. Ogni volta che si usciva da casa si poteva finire ammazzati, uccisi senza un perché. Si sentivano di continuo rumori di spari e di esplosioni. In Italia potevo essere libera di progettare il mio futuro, qui non c’era la guerra, anche se ben presto avrei scoperto che bisognava combattere ogni giorno una battaglia contro il razzismo e la discriminazione.

Cosa ricorda in particolare di quel periodo?

Io e mio fratello eravamo davvero traumatizzati da quello che avevamo visto e vissuto in patria. Pochi giorni dopo il nostro arrivo, a Vicenza una sera si tenne uno spettacolo pirotecnico. Ricordo ancora come fosse adesso che, allo scoppio del primo fuoco d’artificio, mio fratello impallidì di colpo, si rannicchiò a terra e cominciò a tremare, terrorizzato. Voleva scappare, rifugiarsi da qualche parte. Chi era con noi faticò molto a convincerlo che si trattava di una festa e non di uno scontro a fuoco.

Dopo il diploma e un periodo di gavetta negli hotel di Cortina, lei ha iniziato a frequentare l’haute cuisine lavorando a fianco di chef stellati come Claudio Sadler e Fabrizio Ferrari. Affinata la tecnica, ha infine trovato la sua strada, individuando la sua personale forma di espressione culinaria. Quale risultato le interessa di più, oggi che è conosciuta e apprezzata, nel proporre la sua cucina?

Vorrei trasmettere meraviglia, la gioia della scoperta di un sapore, di un aroma mai provati prima. Ai commensali cerco sempre di offrire un’esperienza gastronomica sorprendente per gusto, vista e olfatto. E poi mi interessa promuovere il cibo e i prodotti afrocaraibici, per dire a tutti: noi africani ci siamo, considerate la ricchezza della nostra cultura e della nostra terra, guardateci non solo quando avete bisogno di materie prime per costruire i vostri telefonini o riempire i serbatoi delle vostre auto.

Al centro dei suoi obiettivi professionali c’è la promozione della cucina afro-caraibica. C’è spazio per chi propone contaminazioni culinarie e incroci di cultura enogastronomica?

Dobbiamo innanzitutto considerare che non esiste una cucina afrocaraibica, ma tante cucine afrocaraibiche. Altrimenti, sarebbe come pretendere che esista un’unica cucina europea, e lei capisce bene quanto quest’idea sarebbe assurda. Ma in sintesi le direi: io, come tutti gli chef, esprimo e interpreto quello che trovo nel luogo in cui vivo, nel mio caso in Italia. Il 90% dei prodotti e delle materie prime della zona tropicale africana qui non si possono trovare, perciò cerco di ricreare con prodotti simili il ricordo, le sensazioni di certi piatti. La mia è un’interpretazione, che non restituisce il sapore originale di un piatto, ma una sua possibile variante “tematica”. Ad esempio, qui non troverò le stesse melanzane nane che trovo in Africa, ma potrò utilizzare quelle tonde, che appartengono alla stessa famiglia. Il sapore sarà diverso, ma potrò giocare sulla memoria, sulla reinterpretazione del piatto originale.

Il 3 e 4 maggio a Milano si tiene “Uma Ulafi”, iniziativa che celebra l’alta cucina afro-caraibica. Ci può spiegare il contenuti di questo progetto, di cui lei è artefice?

Uma Ulafi, che in swahili significa “forchetta golosa”, è una sorta di viaggio culinario alla scoperta della cucina Afro Gourmet, nutrimento per l’anima e per il corpo. Il tema è la celebrazione della Terra: quel che ci interessa è la promozione dell’agricoltura sostenibile e delle eccellenze culinarie africane, delle quali sono artefici e depositarie perlopiù le donne, impegnate non solo in cucina ma anche nella coltivazione. L’agricoltura in Africa è quasi completamente artigianale, direi quasi arcaica, e certo le nuove tecnologie – altro argomento di cui si occupa Uma Ulafi – possono venire in aiuto quando si tratta di ottimizzare le risorse o di proteggere in modo sostenibile le colture attraverso la lotta integrata, che prevede una drastica riduzione dell’uso di fitofarmaci.

Parliamo di integrazione. Quali sono state le difficoltà che ha dovuto o deve tuttora affrontare vivendo qui in Italia? Quanto ha inciso il pregiudizio razziale e sessista nel suo percorso professionale?

La mia passione è cucinare, scegliere e promuovere materie prime, proporre nuove ricette o provare accostamenti originali fra gli ingredienti. Non è solo la mia professione, ma anche la mia vocazione. Ho avuto e ho molte soddisfazioni nel mio campo. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Molti fra i miei colleghi bianchi e maschi, anche chi ha iniziato dopo di me, hanno raggiunto più o meno velocemente stabilità professionale e grandi riconoscimenti. A un certo momento, hanno ottenuto un ruolo stabile e riconosciuto e non hanno più dovuto dimostrare nulla. Per me invece il percorso è sempre complicato, innanzitutto in quanto donna, e poi anche perché nera. Non c’è nulla di acquisito, ogni volta si ripropone lo stesso copione: pur essendo già nota per quello che faccio, devo sempre spiegare chi sono, da dove vengo, come si è svolta la mia carriera professionale. Io mi sento italiana e africana allo stesso livello: le mie radici sono in Congo, ma in Italia ho studiato, ho intrapreso la mia carriera professionale, ho sposato un italiano e ho avuto due figli. Eppure, mi sembra ancora oggi di rivivere di continuo lo stesso disagio di vent’anni fa, dovendo quasi giustificare il fatto di essere in cucina, artefice di piatti e di sapori. C’è ancora chi quando mi vede pensa io sia una cameriera e non la chef, l’autrice dei piatti che ha gustato. In Francia, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Spagna è normale vedere un nero condurre il telegiornale della sera, fare il sindaco o magari essere il giudice in un programma dedicato alla cucina. In Italia ciò non avviene, ci sono ancora troppi pregiudizi contro cui combattere, e in tutti questi anni nulla sembra essere cambiato realmente. Si continua a parlare di “invasione” di clandestini dall’Africa, si continua a negare il diritto di cittadinanza a persone che sono nate qui ma hanno un colore della pelle diverso… A proposito, per favore non usate più il termine “di colore” per definirci: anche il bianco è un colore, indicateci con il nostro, che è nero. Insomma, l’Italia è ancora un Paese chiuso e diffidente, ma per fortuna io sono battagliera e non mi lascio scoraggiare facilmente. E poi ripongo molta fiducia nelle nuove generazioni, che hanno idee e coraggio per cambiare le cose.

Ma quando è arrivata, che tipo di società si aspettava di trovare in Italia? Quale immagine hanno i suoi connazionali dell’Europa e del mondo occidentale in genere?

Noi bambini ci sentivamo raccontare che in Europa, nel mondo dei bianchi, le strade venivano non solo pulite, ma anche profumate. E che se ci si spalmava la neve addosso, si poteva schiarire il colore della pelle. Circolavano favole e credenze del genere, che contenevano in sé la potenza e l’ingenuità dell’utopia, della terra promessa. Io mi ero convinta, prima di arrivare in Italia, che tutti avrebbero trovato carini ed esotici i miei capelli neri e crespi. Purtroppo la realtà è ben altra, perché la diffidenza verso lo straniero e il “diverso” qui sono ancora molto presenti, pur non esprimendosi in una conformazione chiaramente razzista della società. Per quanto riguarda le mie aspettative reali, devo dire che sono comunque grata e soddisfatta di ciò che, nonostante le difficoltà, sono riuscita a realizzare. Tutto ciò non era dovuto e non mi aspettavo che lo fosse, ma si tratta di una conquista che qui ho potuto realizzare.

Come vede il futuro dell’Africa?

Mi auguro che questo continente riesca a emanciparsi dall’ingordigia dell’Occidente e della Cina e che possa trovare una sua strada per uno sviluppo ecosostenibile e una giustizia sociale. Forse le nuove fonti di energia, in particolare il sole e il vento, consentiranno a molti Paesi africani di costruirsi un’identità economica forte e indipendente.

Sui social e in innumerevoli trasmissioni televisive, parlare di cibo negli ultimi anni è diventato una delle occupazioni preferite per tutti, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Secondo lei cosa significa?

Indubbiamente, il Covid ha notevolmente accentuato questa tendenza. Con il lockdown, tutti dovevano attrezzarsi a cucinare in casa, mettendo alla prova la propria creatività e cercando argomenti di interazione a distanza. Ma indubbiamente in tutto questo proliferare di ricette e prove culinarie c’è anche una certa dose di esibizionismo, di apparenza. Parlare di cibo in fondo è una moda, ma anche un business da cui molte persone ricavano guadagno. A me dispiace solo che ci si concentri solo sul piatto, sul risultato finale di una ricetta, senza soffermarsi tanto sulla “filiera” che c’è dietro, sull’origine delle materie prime, sulla loro storia di produzione, sulla necessità di tutelare l’ambiente se vogliamo ottenere i prodotti che ci servono per cucinare.

Se la sente di suggerire ai nostri lettori una ricetta o un prodotto afrocaraibico che potrebbe incuriosirli?

In questo periodo, consiglierei di assaggiare la sapotille, un frutto tropicale simile al caco, dolce e asprigno ad un tempo, con un aroma molto speziato. È molto difficile da trovare fresco qui in Italia, ma è davvero sorprendente. Un altro prodotto che suggerirei e che utilizzo molto nella mia cucina è la moringa, una pianta simile al vostro rafano, apprezzata per le sue vastissime proprietà benefiche. Bisognerebbe creare canali di importazione di prodotti eccezionali come questi, che in Francia ad esempio si trovano molto più facilmente. Ma anche questo fa parte del cammino ancora da percorrere per creare una società più aperta e accogliente.