Fotografie interiori

Tante storie

Kinsky

Esther Kinsky
Di luce e polvere
Iperborea, 2025, pp. 224
€ 18

Di luce e polvere (Iperborea, 2025) è un romanzo che conferma Esther Kinsky come una delle voci più originali e poetiche della letteratura tedesca contemporanea. Con una prosa raffinata e carica di suggestioni, l’autrice costruisce una riflessione sul cinema come luogo fisico e simbolico, un tempio della memoria collettiva che rischia di scomparire nell’era della privatizzazione dell’esperienza visiva.

La storia ruota attorno alla narratrice che, durante un viaggio nell’Alföld, la vasta piana ungherese al confine con la Romania, si imbatte in un cinema abbandonato, il Mozi. Affascinata dall’insegna sbiadita e dalla storia romantica del luogo, decide di acquistarlo e di riportarlo in vita con l’aiuto di personaggi eccentrici e nostalgici: Józsi, l’ex proiezionista diventato meccanico di biciclette; Ljuba, sua moglie, che si innamorò di lui durante un’interruzione di corrente durante la proiezione di un film; e altri abitanti del villaggio che vedono nel cinema un simbolo di un passato glorioso.

Attraverso questa impresa quasi donchisciottesca, Kinsky esplora il cinema non solo come spazio di intrattenimento, ma come finestra magica capace di ampliare lo sguardo e creare comunità. Il Mozi diventa una metafora della resistenza alla scomparsa di un’epoca in cui il cinema era un rito collettivo, un luogo dove umorismo, terrore e sollievo trovavano un’espressione condivisa.

Kinsky scrive con una precisione poetica che trasforma ogni dettaglio in un’immagine vivida. Le descrizioni della piana ungherese, con i suoi orizzonti infiniti e la polvere che tutto avvolge, creano un’atmosfera sospesa tra realtà e fiaba. La sua prosa è ricca di metafore cinematografiche: la luce che filtra attraverso le fessure del cinema abbandonato, le ombre dei proiettori paragonati ad «animali tristi», lo schermo consunto dal tempo ma ancora carico di storie.

L’autrice gioca con i piani temporali, intrecciando ricordi personali della narratrice (come le visite al cinema con il padre nella Germania degli anni ’70) con storie di personaggi minori, come Laci, l’ex proiezionista del cinema itinerante, la cui vita è un tributo all’era del muto. Questo intreccio rende omaggio alla potenza evocativa del cinema, ma anche alla sua fragilità: «Questo spazio, che non ha avuto significato e validità per nemmeno un secolo, si sta chiudendo sempre di più».

Di luce e polvere è, in fondo, un libro sulla perdita. Kinsky non idealizza il passato, ma ne cattura la magia per contrastare la desolazione del presente, dove lo sguardo è sempre più relegato agli schermi domestici. La riapertura del Mozi è un gesto di speranza, ma anche di malinconica consapevolezza: nonostante gli sforzi, il pubblico è scarso, e il cinema rimane un’utopia.

Eppure, nella scrittura di Kinsky, anche il fallimento ha una sua bellezza. Il libro crea uno spazio per queste fantasie, permettendo al lettore di rivivere, almeno per un attimo, l’incanto di una sala buia illuminata solo dal fascio di luce di un proiettore. Di luce e polvere è un’opera che parla a chi ha amato il cinema come esperienza condivisa, ma anche a chi cerca nella letteratura una profondità di sguardo. Paesaggi marginali e storie dimenticate diventano universali meditazioni sul tempo, la memoria e la bellezza effimera. «Ogni villaggio un film diverso, mi sembrava. Ogni finestra un cinema.»