Cantare a Dio, Cantare di Dio
Che spettacolo!
Pianista, direttore del Gruppo Vocale “Viri Cantores de Finibus Terrae”, l’Autore esamina un caso storico e filologico fondamentale per definire il perimetro filosofico di quei secoli che per troppo tempo sono stati definiti “bui”; bui forse per coloro che hanno voluto vedere solo ciò che fu dettato dal furore di ignobili eletti per censo e di sedicenti storiografi, che individuavano tracce di un demoniaco mai esistito.
Il Canto Gregoriano è un caso molto interessante sia da un punto di vista musicale che letterario, un tesoro linguistico ed armonico che testimonia quella profonda religiosità cercata non solum sed etiam dalla necessità dei pauperes, negli anni tra Caduta dell’Impero Romano e Rinascimento, di un Altissimo sì consolatore ma anche punitore dei malvagi, concezione, a ben vedere, assolutamente attuale in molti ambiti della religiosità occidentale e medio orientale.
Giuseppe Lattante compie una ricognizione storica circa la Fonia del messaggio divino, l’oralità della voce di dio ove la parola prevale sulla musica (monodica), oralità che prevale sulla musica che caratterizza la musica stessa nel suo segno accentuativo: anche l’amanuense aveva compreso che nella scrittura occorre sempre distinguere la voce dell’autore, come giustamente sottolinea la Semiologia, il cui Oltre veniva affidato alla sonorità, e la voce di Dio è monodica, una sola, e il canto gregoriano e sì corale ma unisono, come appunto il verbo sacro.
E’ dunque una scrittura che conserva l’oralità, che si basa soprattutto sui Salmi (infatti è una Salmodia musicale), non potendo mai essere Polifonia in quanto si concepiva un Dio ascendente, verticale come la struttura del canto stesso; il Dio di cui si attendeva la risposta, come nella concezione di Dio dopo Auschwitz, onnipotente ma incomprensibile all’uomo: così Hans Jonas nel suo “mondo del male” ove solo l’incomprensibilità corrisponde alla bontà, ma nel campo di sterminio l’onnipotente restò muto( H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova, Il Melangolo, 1989, pp. 33-37) e che giunge innalzando la fede là dove non si sarà mai in grado di comprenderla, là dove sia lo Spirito ad ascoltare perché Dio ascolti e finalmente risponda.
L’uomo, specie nel medioevo, non chiedeva altro che essere udito e che fosse salvato dalla Storia; ma poi i Cistersensi si rivolsero al Dio del Vangelo e non della Bibbia, al Gesù dall’identità aperta alla risposta e così il Canto Gregoriano cambiò, non più Vecchio Testamento ma una nuova teologia, e alla monodia succede la polifonia in nome del Gesù che sa parlare, dare speranza, e la parola viene adattata alla musica nella filosofia delle “tante voci”. L’Autore non intende rivolgersi agli specialisti e delinea con chiarezza l’evoluzione della Forma e del Significato del Gregoriano, secondo molti Incipit della musica colta occidentale fin dal VII secolo su testo latino, ma non del tutto visto il permanere di formule ebraiche (Amen, Alleluja, Sabbaoth) o greche (Kyrie Eleison), che ne fecero per secoli Preghiera del Popolo e, non escluso l’Oggi, l’Essenza spirituale dei Cantores, religiosi o laici, poco cambia