Tutta colpa di un po’ di cerone bianco e un ventaglio
A volte è così che nasce un artista. Incontro con il regista Daniele Aureli
Da un po’ di tempo bazzico lo Spazio MAI – Movement Art Is (https://www.spaziomai.it/) e la compagnia teatrale che lo ha creato – Occhisulmondo (https://www.occhisulmondo.org/) – seguendo con interesse i loro lavori e progetti.
Tra i loro ultimi spettacoli ve n’è uno che, se dapprima mi ha incuriosito per il titolo, dopo averlo visto non mi ha lasciata indifferente: La Sindrome delle Formiche. Prodotto da Caracò, dopo l’anteprima nazionale a Castrovillari a Primavera dei teatri, ha debuttato al Festival di Spoleto di quest’anno nella sezione LA MAMA SPOLETO OPEN, dove mi sono recata.
Tutto si svolge in un piccolo appartamento al terzo piano di un palazzo, dove E ed F vivono una vita sospesa tra momenti di comicità e profonda solitudine. La loro tv è rotta, e mentre l’inverno si avvicina, un sentimento di freddo emotivo si diffonde nella loro relazione. Un compleanno sta per arrivare, ma oltre a festeggiare, una decisione importante li attende.
Il mondo esterno sembra un’eccezione, mentre loro due rimangono intrappolati in un tempo senza fine, come se ogni giorno fosse un’intera esistenza vissuta tra le quattro mura di quella casa. Le giornate scorrono tra rughe che si fanno spazio sul viso, momenti di noia al ristorante, rapporti con i vicini, la polvere che si accumula, e oggetti dimenticati nel ripostiglio. Inseguono forse da sempre il momento perfetto per uscire e vivere, senza mai trovare il coraggio di farlo.
Tra le persone che attraversano la loro vita, un signore con un cane, simbolo di fedeltà e compagnia, li fa riflettere sulla loro solitudine. L’insonnia li tormenta, amplificando le loro preoccupazioni. Si trovano di fronte alla scelta di restare insieme o disperdersi, cercando di proteggersi dal freddo invernale che sembra avvolgerli inesorabilmente.
Una storia delicata e amara sull’amore e sulla ricerca della felicità in un mondo interiore dove il tempo sembra essersi fermato. Le emozioni si alternano tra momenti di risate e istanti di malinconia, come una parabola delle relazioni umane e delle speranze spezzate.
La narrazione affronta temi universali come la paura del cambiamento, l’importanza di prendere decisioni coraggiose e l’anelito alla connessione umana. La storia di E ed F ci invita a riflettere sulla nostra vita e sulle scelte che facciamo per cercare il nostro posto nel mondo e sfidare la solitudine invernale delle nostre esistenze.
Dopo lo spettacolo ho incontrato il drammaturgo e regista Daniele Aureli, che – come mi ha poi spiegato – lavorò alla prima stesura del testo nel 2015 (fu finalista premio Hystrio Scritture di Scena 2016) per poi rimaneggiarlo negli anni fino alla stesura definitiva arrivata sulla scena. Ho voluto scoprire qualcosa di più su di lui e lo ringrazio per la pazienza che ha mostrato nel rispondere alle mie infinite domande.
Diplomato alla Scuola di Recitazione Mumos diretta da Emanuela Moschin, Gastone Moschin, e Marzia Ubaldi, Daniele Aureli è membro del direttivo della Compagnia di teatro Occhisulmondo con la quale studia e lavora dal 2006 in qualità di performer e drammaturgo; lavora da anni come autore e attore con l’associazione Caracò. Tra i ruoli interpretati in teatro: Romeo, Amleto, Iago, Puck.
Tra le sue drammaturgie Quando c’era Pippo (finalista premio Scenario 2012, edita da MTTM edizioni); La Sindrome delle Formiche (finalista premio Hystrio Scritture di Scena 2016) e La Teoria del Cracker (Premio Dante Cappelletti 2017 della Giuria Popolare). Autore del libro Troppo tardi per gli onesti (Gruppo Editoriale Alter Ego), ha collaborato con varie riviste e magazine (Piacere Magazine; Saguru; Era Superba).
Quando hai iniziato a lavorare al testo “La Sindrome delle formiche”? Da dove è nata l’idea? Sei soddisfatto del risultato finale? Cosa ti aspetti dal pubblico che andrà a vederlo?
L’inizio è stato nel 2014. Tutto nasce da un bisogno… comunicare. Guardare il mondo e riportare un piccolo spaccato di vita. Osservare il quotidiano. Accorgersi come delle volte evolvono o involvono i rapporti tra le persone. Uno stallo, un’attesa, una gabbia. La fantasia che delle volte viene sotterrata dalla polvere.
Per quanto riguarda il risultato finale, non so ancora se sarò soddisfatto… perché la fine (forse) sarà l’ultima replica che questo spettacolo farà. Mi auguro tra molti molti anni, perché i nostri spettacoli vengono replicati per lungo tempo solitamente. Per ora sono soddisfatto del lavoro svolto insieme a tutto il gruppo artistico, fondamentale… come in ogni lavoro della Compagnia Occhisulmondo, con la quale lavoro ormai da circa diciotto anni. Festeggiamo la maggiore età, come gruppo. Una realtà rara in Italia. Abbiamo scelto una poetica condivisa e la portiamo avanti con cura, libertà e ostinata volontà.
Aspettativa invece è una parola che può ingannare secondo me. Può essere controproducente e deludente. Perché l’altro potrebbe reagire in modo differente da quello che uno vorrebbe. Una volta mi dispiaceva; oggi invece ho capito che è sorprendente e utile, perché è proprio dalla reazione inaspettata che nasce qualcosa. Qualsiasi sia la reazione. Cerco così di non aspettarmi niente dal pubblico… ma di aspettare il pubblico. Attendere le loro reazioni, tendere alle loro emozioni.
Qual è il tuo approccio personale alla regia teatrale? Hai uno stile distintivo o una filosofia artistica che segui?
Non ho un approccio definito. C’è una ricerca costante della scena. Ogni lavoro nasce insieme agli artisti che ne prendono parte. Come Compagnia abbiamo la necessità di metterci sempre in gioco, di metterci in difficoltà e sperimentare nuove forme. Ci ispiriamo a vicenda, tra scelte e contrasti… tra spinte costruttive e strette di mano rinforzanti.
Quanti sono gli spettacoli che hai firmato come regista? Come scegli i progetti teatrali su cui lavorare? Quali sono i criteri che consideri nella selezione di un testo o nella sua scrittura?
Il primo è stato Quando c’era pippo, poi Teoria del Cracker ed ora La Sindrome delle Formiche. In tutte queste ho firmato anche la drammaturgia. Ho avuto varie proposte esterne negli anni e in questo periodo, ma non ho accettato. Per ora ho avuto necessità di lavorare come regista su scritture personali e in Compagnia. Anche come attore, difficilmente accetto un progetto se non credo nel percorso. Agli esordi di questo lavoro accettavo tutto, c’era la paura del vuoto… paura dei tempi morti, comune a molti attori. Oggi invece c’è il desiderio di avere delle pause e di attimi di silenzio. Perché non è una rincorsa, ma una lunga camminata.
Quali sono le tue principali fonti di ispirazione quando prepari una messa in scena? C’è qualche regista teatrale che ammiri particolarmente?
Libri, film, musica, vita personale… tutto. Da cose inaspettate. Racconto una piccola curiosità… per costruire la struttura ritmica dello spettacolo Teoria del Cracker ho preso ispirazione in parte dalla scaletta del concerto di Live at Wembley ’86 dei Queen. Mi ha aiutato molto. Me lo aveva fatto vedere molti anni fa mio fratello… mi aveva colpito molto. Ma non avrei mai pensato di farlo diventare punto di riferimento per la narrazione di uno spettacolo.
Ci sono poi vari registi chi ammiro… in particolare ammiro l’onestà scenica. È quella che mi affascina. Il non cercare di piacere a tutti i costi. L’essere e il farsi guardare.
Come gestisci la collaborazione con gli attori e gli altri membri del team artistico durante il processo creativo?
Con semplicità… e visione comune. Delle volte sono sul palco, altre volte a dare indicazioni. Personalmente sono un perfezionista nel campo lavorativo… e cerco un rigore durante il tempo di creazione. A volte anche troppo, e ricevo qualche insulto… è una dinamica ormai consolidata nel tempo. Con il team artistico cerco sempre di costruire un ambiente molto creativo, dando fiducia ad ogni persona che collabora per lo spettacolo. Ognuno è parte di un tutto. Nel direttivo della compagnia siamo quattro… Massimiliano Burini, Amedeo Carlo Capitanelli e Matteo Svolacchia. Abbiamo poi un team artistico ormai consolidato; oltre agli attori e alle attrici, lavorano con noi scrittor*, drammaturgh*, dramaturg, marionettist*, musicisti e musiciste. Tutt* sono parte di un gruppo, si lavora insieme per un obiettivo comune. In ogni progetto possono cambiare gli attori, le attrici, può cambiare la regia, qualcuno può restare fuori… ma l’assenza scenica diviene presenza emotiva. Difficile da spiegare… ma alcuni dicono che quando la compagnia arriva… si sente una grande energia. Ecco… quell’invisibile è il frutto di anni di lavoro insieme.
Quali sono le sfide principali che hai affrontato come regista teatrale e come le hai superate?
Sono state spesso sfide con me stesso. Il nostro mestiere è un continuo mettersi in mostra… bisogna essere pronti ad essere giudicati, criticati. Ad alcuni piace, ad altri dispiace. Ad alcuni emoziona ad altri potrà sembrare inutile. Diderot scriveva che non si può piacere a tutti altrimenti sarebbe disgustoso. È questa la sfida più difficile… essere pronti ad ascoltare le parole non richieste. C’è sempre poi la tendenza, nel nostro campo, a dover dire ognuno la propria opinione sul lavoro. Soprattutto subito dopo uno spettacolo. Che in tutta onestà, io dopo uno spettacolo vorrei solo parlare di cose futili e andare a mangiare una pizza… invece la maggior parte delle volte si avvicinano altri attori o registi e ti dicono… “io avrei fatto diversamente”, oppure “questo non funziona”, e io sorridendo annuisco ma penso “ma chi te lo ha chiesto? Mi fai andare a mangiare la pizza?”.
Questa è la sfida maggiore. Essere leggeri e farsi scivolare tante cose. Anzi, farsi attraversare. Perché le parole dette non vanno buttate, ma vanno metabolizzate ed elaborate… e poi sì… alcune buttate. Però prima andiamo a cena almeno.
Quali sono i tuoi obiettivi futuri come regista teatrale? Ci sono progetti o temi che ti piacerebbe esplorare nel prossimo futuro?
In verità sto già lavorando al prossimo spettacolo. Mi prenderò il tempo necessario per scriverlo senza fretta… tra altri lavori e la vita con la mia compagna e mio figlio. Il tema principale che ritorna nei testi che scrivo sono i rapporti umani (appunto). Ci sono mondi infiniti dentro ogni relazione… dentro ogni reazione.
Come scegli la scenografia, l’illuminazione e gli altri elementi visivi nella tua produzione teatrale? Qual è il loro ruolo nell’esperienza complessiva dello spettacolo?
La messa in scena, quasi sempre minimale, nasce spesso insieme allo spettacolo stesso. Cerco, insieme alla Compagnia, comunque una scena senza orpelli. Il necessario. L’essenziale. Questo è proprio dovuto al percorso fatto negli anni. In 18 anni è cambiato il modo di vedere le cose, è cambiato il mondo per vedere le cose.
È cambiato molto da quella chiamata al telefono di 18 anni fa, di Massimiliano Burini… ero in Umbria, stavo entrando in un negozio, ed erano le 18 circa… mi chiama al telefono e appena rispondo mi dice subito: “Voglio mettere in scena uno spettacolo… vorrei farlo insieme a te”. Io ho detto: “sì va bene!”
E sono entrato nel negozio a comprare le scarpe. Bella metafora a pensarci ora… visto tutta la strada che abbiamo fatto. Quel primo spettacolo Ultimo Round è stato qualcosa di folle e irripetibile. Attori, danzatori, performer. La bellezza di un gruppo che stava iniziando qualcosa di nuovo.
Qual è stata la tua produzione teatrale preferita su cui hai lavorato finora e perché?
Con la mia compagnia credo di aver preso parte, in vari ruoli, a più di quindici spettacoli. Ognuna ha una grande importanza… ogni lavoro ha segnato parte fondamentale del mio percorso. Teoria del Cracker è stato il lavoro più coraggioso forse. Mi sono messo in gioco totalmente… ed è stato un nuovo inizio.
Facendo un passo indietro, come hai scoperto la tua passione per il teatro e cosa ti ha spinto a diventare un regista teatrale?
Avevo 9 anni circa, quando mi hanno fatto fare il Mimo a scuola. Trucco bianco e un ventaglio. C’era come musica La Carmen di Bizet… e io mi muovevo, danzavo agitando il ventaglio (a pensarci bene, poteva essere un primo spettacolo manifesto LGBT). La gente applaudiva e rideva… con me. Il palco mi faceva stare bene. Quello forse è stato il momento in cui ho desiderato fare teatro. La spinta per diventare un professionista invece mi è stata data. Una spinta di fiducia. Se qualcuno crede in te, è tutto possibile! Soprattutto quando c’è anche qualcuno che invece di aiutarti a crescere, ti dice soltanto di smettere. In quei momenti tutto può cambiare e crollare. E invece… Ci sono state persone che hanno segnato il mio percorso e aiutato le mie scelte. E loro lo sanno di essere stati fondamentali per me; non l’ho mai nascosto. E ho sempre dato un grande valore alla parola Grazie. E qui posso scriverlo di nuovo. Grazie!
E grazie anche a te per le domande e per la possibilità di condividere queste parole.
Grazie a te per il tempo dedicatomi e la passione che hai saputo trasmettere. E grazie a Oreste Testa per la compagnia e le foto