Un altro conflitto, un’altra vita: quando l’arte prende posizione

Se è vero che ‘la bellezza salverà il mondo’ comunque si voglia declinare, il giro d’orizzonte delle mostre di questo periodo denuncia che l’attenzione dell’arte verso le guerre, che sono parte del mondo che deve essere ‘salvato’, è scarsa, quasi nulla. Nonostante l’incalzare delle notizie attraverso ogni genere di mezzo di comunicazione, gli artisti, in massima parte, sembrano non aver ancora ‘imbracciato le armi’ per prendere decisa posizione rispetto agli scontri, alle stragi, alle sofferenze, trascurando il tema. Non necessariamente schierandosi per l’una o per l’altra parte belligerante, ma come dichiarazione di rifiuto, di condanna per il fatto in sé, come ci si aspetterebbe. Senza voler allargare lo sguardo al numero enorme di guerre combattute sul pianeta (si parla di più di cinquanta paesi coinvolti) le due più brucianti sono per certo quella tra Israele e Palestina e quella tra Russia e Ucraina.
C’è un’etica, una deontologia che si impone agli intellettuali e agli artisti in particolare, in cui spesso riposa la dote della profezia. Che li costringerebbe ad essere espliciti verso l’immoralità degli eccidi ed esprimersi con annunci tramite i segni che il linguaggio artistico sa mettere in campo sul fatto che per affermare le proprie ragioni si è ricorsi alla guerra, superando eventuali, opportune soluzioni basate sul dialogo e la mediazione. A dirla tutta, occorre riconoscere l’impegno dei video-artisti, anche grazie al fatto che il medium ha la risorsa di non dover ricorrere a complicate mediazioni linguistiche, ma può, anche se rischiosamente, mostrare ‘la verità’ in maniera diretta, come fa Louis Theroux con il documentario The Settlers, che svela accadimenti che a noi occidentali non vengono resi palesi. Vi emerge questo assunto: dal fiume al mare “la ‘palestina’ non esiste e non deve esistere.”
Giusto perciò dare risalto alle iniziative che si sbilanciano sull’argomento. Con quali risultati è tutto da decidere, comunque meglio del silenzio o del disinteresse.
Tra gli artisti della figurazione una lodevole eccezione è Barbara Kruger (Newark, 1945), eclettica e titolata nella sua ormai lunga carriera, che ha presentato il suo nuovo lavoro, Untitled (Another Again), a cura di Maria Isserlis, dal 1° maggio e visibile fino al 14 luglio in uno dei luoghi più incandescenti dello scacchiere geopolitico internazionale. Su commissione dell’Organizzazione non governativa Ribbon International e grazie alla collaborazione con Ukrzaliznytsia, le Ferrovie Ucraine, Kruger ha realizzato un’imponente installazione tipografica sulle carrozze di un treno Intercity, che sovrasta la visione del mezzo di trasporto, catturando l’attenzione. Le parole si fanno immagini dirette suscitando pensieri. Parole semplici che non hanno cittadinanza tra le bombe e i lutti, parole inclini alla poesia, che quando è vera diverge dal senso comune. E questa lo è, anche perché redatta a caratteri di scatola in bianco, nero e rosso in cirillico, su un treno (lo spazio aereo sui cieli ucraini resta chiuso, i treni sono l’unico modo per raggiungere il confine, meta di tanti disperati):
Un altro giorno, un’altra notte, un’altra oscurità, un’altra luce, un altro bacio, un’altra lotta, un’altra perdita, un’altra vittoria, un altro desiderio, un altro peccato, un altro sorriso, un’altra lacrima, un’altra speranza, un’altra paura, un altro amore, un altro anno, un altro conflitto, un’altra vita.
Con l’intento, immaginiamo, di rendere fuggevole il testo, sì che, come nella vita, in particolare in una vita martoriata dalla guerra, si possa percepire, soltanto qualcosa, non tutto. Ma quel poco, quella frase, quella parola, pregnante, resta e si dichiara delicatamente consolatoria e alternativa allo stato tragico delle cose.
Sull’altro fronte, gli artisti palestinesi, sia quelli sotto le bombe, privi anche dei mezzi per il loro mestiere, sia quelli che operano al di fuori della striscia: Muhammad al-Hajj, Malaka Mahmoud Abu Awda, Tasneem Shatat, Yara Zuhud, Rufaida Sehwail, Mustafa Mohanna… per affermare che c’è “vita in mezzo alla morte” elaborano la ‘Biennale di Gaza’ con grande senso di fiducia. Quelli rimasti tenteranno di inviare le opere d’arte fuori da Gaza con gli operatori umanitari autorizzati di tanto in tanto ad attraversare le linee; gli altri, ricorrendo all’elettronica con foto e video o a distanza, collaboreranno con artisti in Cisgiordania per riorganizzare la loro produzione.
“Attraverso l’arte, mandiamo un messaggio al mondo: siamo ancora vivi e, finché respiriamo, possiamo far luce su tutto ciò che sta accadendo qui”, ha detto Hajj. Il senso che si coglie è la volontà di esprimere un’arte responsabile in condizioni di assoluta emergenza, in cui si allestisce un evento concettuale dove il processo si sostituisce al prodotto che rimane sullo sfondo rispetto all’idea e alla sua incidenza, affidandogli una doppia promessa: contribuire alla diffusione di una modesta serenità e dichiarare vitalità e resistenza. Senza con ciò svalutare le opere, le quali, con la loro estetica non guariscono le ferite, né tantomeno resuscitano i morti, ma contribuiscono, per chi è ancora in condizione di beneficiarne, per quanto possibile, ad un alleggerimento della tragedia, essendo “L’arte la più alta forma di speranza” secondo Gerard Richter.