La ferita e il canto
Pane e poesia
Per non fermare il cuore del mondo
Il suo nome è Muhammad Al-Zaqzoq. È un poeta. Vive a Gaza.
Questa è la storia che mi è venuta incontro[1].
PANE E POESIA A GAZA
Tra la guerra di missili e delle bombe Muhammad parla della guerra della fame. Parla di fame, parla di pane. Non parla di poesia. O meglio sì, ne parla come fame, come pane.
Dopo un assalto al forno del pane dice: «io ho comprato un sacco di farina saccheggiata per più del quadruplo del suo prezzo abituale, e sono tornato a casa come se stessi reggendo un tesoro inestimabile». Parla di fame, pane e felicità. Dei suoi bambini. «Dio solo sa quanto eravamo felici». I suoi bambini «esultavano, preda di quella oscura gioia nel deserto del terrore e del dolore». Si poteva finalmente fare il pane. Per fare il pane però, una volta che i bambini l’hanno impastato con lui, con la loro madre, ci vuole un forno. Ci sono dei forni di fango delle famiglie rurali lì a Gaza. «Le donne del forno sono generose. Ti lasciano cuocere il pane. Basta portare carta, cartone per accendere il fuoco». Beh, niente di più semplice, vero?
Ma non c’è carta in casa, non c’è nemmeno un pezzo di cartone.
«C’erano soltanto il miei libri», dice il poeta. Il suo tesoro più prezioso. La fonte delle sue ricerche, i libri segnati, autografati da altri poeti, altre poete. Libri come paesaggi, “minimi e immensi”. Si può rimandare la gioia dei bambini che aspettano? In tempo di guerra e di bombe che piovono sulle case, ci sarà forse un’altra attesa? Un’altra gioia possibile? «Ula, rivolgendomi un timido sguardo e usando tutta la delicatezza possibile, mi ha detto usiamone uno o due, quando la guerra finisce puoi sostituirli. I bambini hanno bisogno di cibo più che di letture».
Qui c’è il punto di contatto tra pane e poesia. Misterioso, inatteso, drammatico. Il nostro poeta dice: «la brutalità di quelle parole mi ha devastato (…), non mi era mai venuto in mente che mi sarei trovato a scegliere tra un libro e un pezzo di pane per i miei figli».
200 libri, una modesta biblioteca, ma preziosa, messa insieme con fatica, passione, determinazione: «la mia biblioteca era un ammasso pulsante di carne e sangue, di ricordi e di vite, di faccende sbrigate nelle strade e nei vicoli di Gaza».
Togliere un libro ad un poeta è come levargli la pelle.
«Non ho intenzione», dice il nostro poeta di Gaza, «di bruciare una singola pagina di nessun libro. Ci deve essere un’altra soluzione».
Ora siamo noi dentro questo racconto. E non possiamo più uscirne. E cerchiamo con lui la soluzione. Cosa fare? Scende in strada e si accorge che ragazzi e vecchi cercano carta come lui, ma non la trovano.
«Per un attimo mi sono domandato», dice, «se ad Hamad [la sua città] di carta ne fosse rimasta ancora, sopraffatto da un opprimente stato di disperazione mentre guardavo a destra e a sinistra e seguivo il miraggio di trovare carta. Mi ero arreso all’idea di tornare a casa, prendere due libri dagli scaffali e sacrificarli per preparare il pane per i miei bambini affamati».
Ed ecco quello che avremmo voluto fare noi a questo punto del racconto.
«Stai cercando scatole di cartone, non è vero? Ne hai? Ecco qui tre grandi pezzi di cartone. Niente è troppo prezioso per te». Un uomo era apparso ad una porta e aveva detto quella parola che avremmo voluto dire noi. Un poeta con la sua poesia si fa pane per la città affamata. Si fa pane, con il suo corpo, con la sua parola.
Restiamo dentro questo racconto scomodo, non un romanzo ma un fatto della vita, che accade oggi mentre noi siamo qui. Che rapporto c’è tra pane e poesia? Che relazione esiste tra pane e poesia in tempo di guerra? Questa storia non ci dà una risposta. Ci fa arrivare fino al punto di giuntura delle ossa della vita e della poesia. Non ci dà soluzioni definitive, ma forse una domanda aperta, provvisoria, fragile.
Non apre un libro Muhammad, non legge una poesia davanti ai figli. Dov’è la poesia allora? Forse in quella disperazione tra dover scegliere tra poesia e pane? Mai prima di allora il nostro giovane poeta si era trovato davanti alla poesia come corpo vivente. La carne della poesia, la stessa carne dei suoi figli.
IL PANE DELLA POESIA PER CAMBIARE IL MONDO
Che rapporto c’è dunque tra poesia e pane? C’è un testo di Pablo Neruda che dice come il pane, il forno del pane, l’impasto del pane, siano metafora della poesia e del lavoro stesso del poeta. Nel ricevere il premio Nobel per la Letteratura, il poeta cileno torna proprio lì, a quella poesia originaria, a quella poesia-pane: «Ho spesso affermato che il miglior poeta è l’uomo che ci dà il pane quotidiano: il fornaio dietro casa, che non si crede dio. Egli svolge il suo maestoso e umile lavoro di impastare, infornare, dorare e consegnare il pane quotidiano come un dovere comunitario. E se il poeta riesce a raggiungere quella semplice consapevolezza, anche quella semplice consapevolezza potrà diventare parte di un monumentale artigianato, di una costruzione semplice e complessa, che è la costruzione della società, la trasformazione delle condizioni in cui vive l’uomo, la consegna della sua merce: pane, verità, vino, sogni».
Poesia è prima di tutto un modo di vivere.
C’è un altro poeta che ci parla di poesia e pane, dentro la furia della guerra: Izet Sarajlic. Il poeta di Sarajevo. Uno dei suoi versi dice: «Chi ha fatto il turno di notte, per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti».
Il poeta, mentre la guerra uccide bambini e donne, cuccioli di animali e alberi della foresta, fa resistenza. Fa scudo con il suo corpo perché non venga fermato il battito del cuore del mondo.
«Ecco, Izet durante l’assedio scrive poco, non fa più il poeta. Cosa fa? Sta lì, vive con la città scassata, condivide la fame, le code per l’acqua, per il pane. Non profitta di inviti a emigrare. Sta lì, quella è la sua poesia tra i suoi concittadini e scalda uguale. Un poeta è responsabile del dolore come della gioia». Lo scrive il suo amico Erri De Luca (De Luca-Sarajlic, Lettere fraterne).
Scrive il nostro scrittore napoletano: «Nell’assedio più lungo di Sarajevo degli anni Novanta, i cittadini andavano alle serate di poesia nel buio di una città senza corrente elettrica. Sperimentavano che in una guerra solo i versi sono capaci di correggere a forza di sillabe miracolose il tempo sincopato dei singhiozzi, il ragtime delle granate, l’occhio di un mirino addosso. I versi portano la responsabilità della parola ammutolita. I poeti leggevano o dicevano a memoria il loro canto da una città assediata».
CHI IMPEDIRÀ CHE SI FERMI IL CUORE DEL MONDO?
Mentre scrivo questo articolo nella mia città di Verona è in corso il festival dei “Poeti sociali”: centinaia di persone si spostano sotto un’acqua torrenziale per ascoltare poesia. Nelle stesse ore, la domenica mattina, nella mia città, un giovane immigrato, Moussa Diarra, viene ucciso da un poliziotto.
Non era un “terrorista”, non voleva farsi saltare in aria. Cercava di uscire da qualche anno dal tunnel della disperazione. La città che si stava “nutrendo” di poesia non è riuscita a salvarlo. Il sistema della sicurezza non ha capito che aveva di fronte un “disperato poeta” che gridava il suo male di vivere. Quello che una società borghese e indifferente gli ha scaricato addosso. Un ministro della Repubblica, come Salvini, che davanti al corpo di un ragazzo ucciso afferma «non ci mancherà», non solo dovrebbe dimettersi ma dice la bestemmia più grande… ché, se Dio non ci fosse, lo costringerebbe per reazione ad “esistere”.
Non siamo riusciti a fare “resistenza poetica”…
Anche Muossa faceva la fila per il pane, esattamente come il poeta di Sarajevo. Anche lui cercava carta per accendere il forno e fare il pane, come il poeta di Gaza.
La vera poesia è il pane che manca. Chi saprà «fare il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo»? I poeti?
Domenica mattina una pallottola nella mia città “ha fermato il cuore del mondo”. E noi dove eravamo?
[1] il testo di Muhammad Al Zaqzoq è stato pubblicato su “il manifesto” mercoledì 31 luglio 2024