Oltre la facciata

Non sono ancora chiari i contorni della vicenda di Chiara Petrolini e del movente del doppio occultamento delle sue gravidanze. Tuttavia il caso apre domande che, come società, occorrerebbe farsi, benché possa sembrare prematuro. Ad oggi la ragazza afferma di aver fatto tutto da sola e di aver nascosto le gravidanze a tutti. Se sia così o no, le questioni che la vicenda pone riguardano vari “rapporti”.

Chiara e la famiglia: una famiglia “normale”. Nel caso in cui si ipotizzasse un tacito assenso del contesto familiare a questa vicenda la domanda è: siamo sicuri che ciò che ci appare oramai “normale” sia anche sano? Nel caso in cui la famiglia non sia complice, siamo sicuri che sia normale che una famiglia non si accorga del disagio di un membro? A volte infatti parte del problema di un disagio è proprio il fatto che il contesto non lo accetti di vedere e di riconoscere. Si fa finta che vada tutto bene, magari inconsapevolmente, per non affrontare problemi che sembrerebbero essere ancora maggiori. La famiglia è il primo luogo della causa di certi malesseri e forse per questo diventa anche il luogo in cui certi malesseri non vengono visti o non si possono nominare, perché rischiano di far saltare in aria un intero sistema di relazioni. Così si preferisce continuare a fare finta di non vedere o capire che cosa stia accadendo.

Chiara e la Chiesa: è chiaro che la morale sessuale che la Chiesa cattolica continua a professare non solo non aiuta i giovani a crescere e a maturare una relazione con il proprio corpo e con la gestione delle relazioni sessuali, ma occorre ammettere che questa istituzione non appare più nemmeno il luogo delle relazioni di appartenenza, del riferimento magari ultimo alle questioni di coscienza, quello dove le pene profonde dell’anima potevano un tempo almeno essere ascoltate senza giudizio. Anche nel caso in cui il problema sia una eventuale “malattia” della ragazza: possibile che questa istituzione con il lungo bagaglio di sapienza di interiorità di cui dovrebbe essere maestra, non abbia più gli strumenti per riconoscerla?

Chiara e la società: siamo sicuri che questo mondo che crea sempre più ricchezza e al quale non riusciamo a trovare modelli alternativi sia il migliore dei mondi possibili? È sotto gli occhi di tutti che stiamo in una società di indifferenti, dove ciò che chiamiamo normalità si palesa sempre più come una situazione aberrante, nella quale è normale che ciascuno si faccia i fatti suoi, dove è normale che non si comunichi il proprio mondo interiore, dove è normale che ciascuno vada per la propria strada organizzata e pianificata, di corsa e freneticamente lanciato solo a produrre cose, performance e azioni, e nessuno si accorge che una ragazza nasconde per due volte i suoi neonati sotto il giardino di casa. Perché poi c’è la domanda: fino a che punto se e quando io stessa vedessi una persona che mi sembra stia facendo scelte sbagliate, è giusto ce io intervenga con il mio concetto di bene, imponendole una mia soluzione? Fino a che punto posso farmi prossima senza risultare invadente, ma rispettando la libertà dell’altra e la sua coscienza? Come gli altri decidono di viversi la vita, non è in fondo una scelta loro, sempre e comunque?

Chiara e il fidanzato: che rapporti di coppia stiamo alimentando? E soprattutto: stiamo fornendo modelli maschili per partner che sappiano porsi accanto al corpo di una donna? Che sappiano partecipare attivamente e con rispetto alla complessa vita sessuale delle loro compagne? Che sappiano farsi prossimi alle nuove modalità di stare al mondo di queste donne e alle loro esigenze? Come possiamo offrire modelli di una paternità meno assente, meno anaffettiva e meno analfabeta dei linguaggi dei corpi e delle emozioni?

Chiara e sé stessa: la ragazza che si crea una immagine di sé perfetta, non scalfita e non scalfibile, quella di colei che non deve chiedere niente, che sussiste da sola tanto da poter fare a meno anche dalla dipendenza dal cibo, è una donna che non si dà possibilità di avere relazioni, perché le relazioni si at-taccano lì proprio dove hai una “tacca”, una ferita, una incisione, una debolezza, un bisogno, una feritoia dove può passare la luce. È lì che si fa entrare l’altro. Chiara è stata prigioniera di una immagine individualista e narcisistica di sé ma quanto questa società contribuisce a creare?

Chiara e i social: il nostro telefonino, i motori di ricerca, la vita della rete, che alimenta il delirio di onnipotenza, una bolla nella quale ci si può illudere di poter fare a meno di tutti gli altri perché ciò di cui si ha bisogno lo può trovare da soli, tutto e subito all’istante. Una bolla in cui si crede di essere a contatto immediato con tutto il mondo, mentre in realtà tale strumento getta nel gorgo di una solitudine all’ennesima potenza, creando un muro invisibile attorno che fa sprofondare nei gorghi difficili della solitudine interiore. Sembra davvero vicino il mondo distopico di Her, il film nel quale il protagonista si innamora del suo telefonino.

Donne e istinto materno: per quanto se ne dica, riusciamo ad accettare che il desiderio di maternità non sia un istinto naturale?

Chiara e il figlio: c’è un’ultima catena di rapporti che mi faceva notare un collega che avendo figli, al contrario di me, si poneva un altro quesito. Un conto infatti è l’istinto materno, che non è detto che debba esserci, altra cosa è un figlio che c’è e che non vuoi. Il baratro della coscienza sta in cosa sia accaduto che abbia reso plausibile il far nascere per far morire: cosa è un essere vivente, anche se non lo senti figlio, e cosa la società, la famiglia, le istituzioni, chiesa compresa, si aspettano da questo ultimo anello? I differenti livelli di giudizio che emergono dalle discussioni in atto paiono essere un riscontro delle differenti visioni del mondo che la condizione attuale porta con sé.

Una vita “nascosta” per paura del giudizio degli altri? Per paura di dare o di essere considerati uno scandalo? Sembrerebbe perfino un monito evangelico.

“GUAI AL MONDO PER GLI SCANDALI!” MT 18,6-7

A volte si ha l’impressione che questo testo evangelico sia la giustificazione del perbenismo. Non è raro che esso venga chiamato talvolta a giustificazione dell’omertà di certi abusi. 

Quante volte abbiamo sentito che non bisogna far sapere certe cose perché altrimenti la gente si scandalizza. Si pensi al caso dei preti abusanti. Migliaia di casi nascosti, insabbiati o di criminali “spostati” per anni, invece che processati, solo per non creare scandalo. Ancora nel caso Rupnik, il gesuita accusato di violenze su una ventina di donne – caso di cui sembra occuparsi solo ancora la giornalista Federica Tourn, autrice con altri della sorprendente inchiesta “La confessione” sul caso di don Rugolo – sembra che tutto si voglia mettere a tacere.

Non si capisce bene se il non creare scandalo sia causa o effetto del nascondimento. Per mantenere un’aura di perfezione e santità, meglio nascondere certe cose, perché non bisogna dare scandalo (lo dice il Vangelo!). Poi però per mantenere e ostentare una tale la facciata di perbenismo, si è disposti a fare e a nascondere nefandezze di ogni tipo. Il vangelo dice anche: guai ai sepolcri imbiancati: all’esterno belli, ma dentro pieni di ossa di morti e di ogni marciume; all’esterno giusti davanti alla gente, ma dentro pieni di ipocrisia e di iniquità (cfr. Mt 23,27-28).

Recentemente ho visto una intervista ad una donna che ha vissuto per molti anni in convento e che ha denunciato gli abusi psicologici che ha subito in quella situazione. Significativo per me è stato notare che molte persone, piuttosto che dare credito alla testimonianza di questa donna, l’hanno accusata di essere manipolabile, disagiata, di non avere vocazione. Invece, cioè che accettare il crollo delle proprie supposizioni o illusioni di come un certo mondo effettivamente vada (le brave monache in mondi di cristallo dove tutto è santo, perfetto e puro), si accusa la vittima di un sistema di non essere all’altezza di ciò che quel sistema le richiedeva. Non si mette cioè in discussione che una certa struttura, proprio con ciò che richiede, produca e causi l’abuso. La logica del potere, infatti, manipola proprio convincendo il singolo di non essere all’altezza del modello di vita proposto: nel caso della chiesa queste dinamiche manipolative diventano abusive quando si punta sul senso di colpa per le mancanze che una persona dovrebbe superare per raggiungere un modello di perfezione costruito su valori che in fondo evangelici non sono. Quando si chiama disobbedienza la non accettazione passiva della privazione di liberta di coscienza.

Ci sarebbe da aggiungere che uno dei motivi per cui nelle comunità religiose certe situazioni restano nascoste, permettendo così anche di essere perpetrate, come gli abusi psicologici, fisici, le violenze e la mancanza di diritti più elementari, dipende proprio dal fatto che certe cose non si possono denunciare, perché altrimenti la gente si scandalizzerebbe.

Il caso della ragazza presunta omicida dei suoi due neonati, benché mantenga contorni ancora piuttosto oscuri, sembra poter rientrare in questa categoria di casi. Che sia stata completamente sola, o che abbia agito anche sostenuta da altri, la paura del giudizio altrui, la sacra causa di dover mantenere l’immagine perfetta del sé, l’apparenza della “normalità” (una brava cattolica non fa sesso del prima del matrimonio; una brava ragazza non abortisce; la pillola contraccettiva fa ingrassare; una donna in quanto mamma vuole sempre un figlio) ha creato un distacco totale dalla propria coscienza: tener nascosta una gravidanza per mantenere la facciata imbiancata. Tramite queste scissioni, inizialmente solo piccoli gradi di piani inclinati, si arriva a commettere i crimini peggiori, perché il nascondimento non è solo il luogo dell’estrema solitudine, è anche il luogo dell’impunità che dà la convinzione di poter reiterare il misfatto anestetizzando la coscienza.

Finisco con una saggia riflessione che mi ha condiviso il prof. Gaetano Tortorella, un amico e stimato teologo moralista, che ringrazio: «L’aforisma 7 del Tractatus di Wittgenstein sembrerebbe suggerirci che “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ma il senso del tacere non riguarda le cose del mondo, ma la realtà indicibile. Per cui, si potrebbe azzardare un rovesciamento: “su ciò, di cui non si è mai parlato, è giunto il momento di non tacere”».