Le ossa di Antonia

Per una Letteratura minima

Quando riesumarono il suo corpo, misero le ossa in una cassetta di alluminio e le infilarono nel muro del vecchio cimitero. Impressionava vedere come una donna robusta e grande fosse tutta dentro quel piccolo rettangolo di latta. L’importanza delle persone sembrava spesso misurata dalla grandezza e dalla solennità delle loro tombe. Ma in fondo non era così. Chi era Antonia? Non un personaggio importante. O meglio, una persona importantissima per chi l’aveva amata e conosciuta. Farebbe parte di quelle “vite di uomini non illustri” di cui parla Pontiggia. Nei suoi diciotto racconti, l’Autore lombardo declina queste biografie secondo la scansione dei classici, da Plutarco, con le sue Vite parallele a Tacito con Agricola, fino a Svetonio con Vite dei Dodici Cesari. La sequenza biografica degli uomini illustri a ben vedere non si distanziava poi molto dalle biografie delle persone comuni: si nasce, si lotta, si ama, si soffre, si sogna, si muore. Qualche volta si rinasce. Antonia Cherubin era nata nella contrada “Zebbo” sull’Altopiano di Asiago in un pomeriggio d’agosto del 1889. Si racconta che sua madre Caterina, di 23 anni, morì mettendola al mondo. Così fin dall’inizio Antonia custodiva il fragile confine tra la vita e la morte. Fin dal principio le avevano detto che avrebbe dovuto vivere anche per sua madre che era morta per metterla al mondo. Così la bambina era cresciuta priva di infanzia, destinata solo a salvare la vita degli altri. Data sposa a un alpino, l’aveva atteso per due anni dopo la fine della Grande Guerra, perché per “insubordinazione ai superiori” Silvio era rimasto per due anni in prigione, a sbollire il fuoco della sua fede socialista. Anche lui convinto di un’uguaglianza possibile, oltre le aristocratiche e borghesi divisioni. L’aveva ricordato al suo generale, che si vantava di aver impresso a caratteri d’oro sulla sua tomba di famiglia il suo grado di generale tra il nome e il cognome. “Pensa che sarà generale anche in paradiso?”, gli aveva detto. Certo lui pensava al paradiso del socialismo. Ma quella “verità” gli era costata cara. Eppure si parlava alla fine della guerra del “buco del generale”. Si diceva infatti che, tornato dalla guerra, l’alto ufficiale avesse fatto togliere tra il suo nome e il suo cognome il titolo militare. Lasciando così un buco. Chi diceva fosse stato per espiare il suo peccato di superbia, chi diceva invece che si fosse convertito alla causa del socialismo. Silvio, l’alpino intemperante, morì trentenne di polmonite nel 1924, dopo aver visto nascere il fascismo e capitolare il sogno socialista. Lasciò alla bella Antonia un figlio, Nello, che da partigiano avrebbe dato del filo da torcere al regime di Mussolini, e una figlia, Lina, che sapeva raccontare le storie come pochi.

La colonna vertebrale della storia

Queste vite non illustri costituirono di fatto la colonna vertebrale della storia. Un conte gerarca fascista, amico di d’Annunzio e di Casa Savoia, si era fatto costruire una villa sopra la collina dove la luce della foresta era più chiara. Voleva il posto più bello, e allorché l’architetto gli fece notare che proprio lì ci fosse il cimitero, allargando le braccia ed emettendo un “eh eh”, ricevette a sua volta un simile “eh eh” dal conte. Ma i due sospiri avevano significati differenti. Il primo voleva dire “non possiamo spostare i morti!”, il secondo invece era da intendere: “sono morti del tutto insignificanti, li possiamo spostare”. Per il conte, così come per il fascismo, ci sono ossa che contano e ossa che non contano. Così furono diseppelliti tutti i morti e messi più in basso, quasi in fondo ad un dirupo.
Si dà il caso che fossero quasi tutti uomini e donne non illustri, ma per gli abitanti del piccolo paese erano persone uniche, di incalcolabile valore. 
Di morti che dormono sulla collina ne conosciamo. E nessuno come Edgar Lee Masters nella sua Antologia di Spoon River lo raccontò meglio. Non solo uomini e donne non illustri, ma per certi versi impresentabili.
«Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’abulico, l’atletico, il buffone, il rissoso? Uno trapassò in una febbre, uno fu arso in miniera, uno fu ucciso in una rissa, uno morì in prigione, uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari – tutti, tutti, dormano, dormono, sulla collina». Così l’Antologia di Spoon River racconta storie minime e per certi versi eretiche… Da quei versi fu attratta una adolescente Fernanda Pivano che li tradusse in italiano. La Pivano era stata attratta come da una calamita da questi versi che sembravano capovolgere la borghese visione del mondo. «Infastidita dalla rovina dell’epicità a tutti i costi (…) la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani privi di eroismi, impastati soprattutto di tragedia».
Era una scrittura alternativa, antiretorica, narrazione di un mondo in cui si manifestava «la rivolta al conformismo, la brutale franchezza, la disperazione, la denuncia della falsa morale, l’ironia antimilitarista, anticapitalista, antibigottista…».
Molti la pensano però come il conte fascista, che vi siano ossa che valgono meno di altre, ma in realtà sulle piccole ossa anonime si regge l’architettura del tempo e la stessa storia del mondo. Lo pensava Saverio Tutino, quando inventò il piccolo museo del Diario a Pieve di Santo Stefano raccogliendo pagine e pagine di vite non illustri. Lì è possibile vedere il lenzuolo funebre sul quale Clelia De Marchi di Poggio Rusco, nel mantovano, scrisse il suo canto d’amore per suo marito, «il bello e onesto Anteo». Ma anche leggere i fogli scritti da Vincenzo Rabito, un semianalfabeta siciliano che ostinandosi a schiacciare i tasti di una vecchia Olivetti, senza lasciare né spazi né margini, scrisse la sua «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» vita. Che poi diventerà un originalissimo libro: Terramatta. In una cassettiera è possibile ascoltare laggiù le voci narranti dei cosiddetti personaggi minori della storia. Si tratta invece di una “Letteratura minima” su cui si regge, a ben pensare, la genesi del mondo. Sono di fatto “controstorie” che restituiscono la sostanza umana alla nostra parabola. Lo storia a senso unico, condita di retorica con cui ogni tempo e ogni luogo tendono a nascondere le storie è esattamente come l’arroganza del conte fascista, che per godersi il panorama buttò le ossa dei morti giù dal dirupo.

Il ragazzo che bussava tre volte

Il ragazzo che andava al cimitero dalla bisnonna bussava tre volte sulla tomba di Antonia, come si bussa alla porta di casa, per “svegliare le ossa”. Era un rito che si era inventato il ragazzo, ma che c’è in tutte le fiabe. Tre volte come gli aveva insegnato la montanara dell’Altopiano: una per sentirti, una per vederti, una per abbracciarti.
Così il ragazzo aveva imparato a immaginare le vite degli uomini e delle donne non illustri. Glielo avrebbe confermato più tardi il maestro del teatro viaggiante: “devi imparare a immaginare”. “E come si fa?”. Ci si ferma da una parte e si guarda la gente passare. E quando qualcuno ci incuriosisce per la forma del volto, il modo di camminare, quegli strani baffi o gli occhiali che penzolano all’ingiù, iniziare a seguirlo. Così inseguendo il personaggio si inizia a costruire la storia. E il ragazzo prese alla lettera le parole del maestro e inseguiva nelle vie i personaggi che via via diventavano storie. Finché un giorno un uomo grande e grosso, dal naso incurvato, lo prese alle spalle: “ma cos’hai da fissarmi in quel modo? Cosa vuoi da me? Vuoi rubarmi l’anima?”. “Devi essere più discreto” disse il maestro, “guardare così, con la coda dell’occhio senza farti vedere…”.
Da allora compose un vero e proprio “campionario” di personaggi che diventavano alla fine storie. Spesso era l’idraulico a diventare re, il direttore di banca invece portava grossi sacchi di immondizia al posto delle impeccabili valigie di pelle, e la maestra di cui il ragazzo era segretamente innamorato, in tutte le storie, appariva alla fine come una volpe rossa, o se era notte come la luna. E spesso, a dire il vero, il mondo così rovesciato sembrava funzionare meglio. 
Non si trattava di associare queste piccole vite agli “illustri”, ai grandi. Esse lo erano semplicemente, grandi!
«Ogni vita merita un romanzo», ha scritto Erving Polster. Si nasce, si lotta, si ama, si soffre, si sogna, si muore. Qualche volta si rinasce. 
E questo è il segreto.
“La storia siamo noi” canta De Gregori. La storia di uomini e donne non illustri. Il teologo Metz ha parlato della «mistica dagli occhi aperti». È quella che serve per vedere la storia non come un’unica storia, ma come l’insieme di storie. Di donne e uomini non illustri: necessari, unici, resistenti, commoventi. 

Questo forse bisogna cominciare a capire: la necessità etica di una Letteratura minima, per vivere. Capirlo con pazienza e tenacia: poiché la storia non si regge sulle piramidi dei faraoni né sulle tombe dei generali, ma sulle ossa di Antonia…