La vita monastica: un dono e una sfida

Conversazione con Sabino Chialà

Bose è una comunità di monaci e di monache appartenenti a chiese cristiane diverse che cercano Dio nell’obbedienza al Vangelo, nella comunione fraterna e nel celibato. Presente nella compagnia degli uomini si pone al loro servizio. Ecco cos’è Bose, comunità monastica fondata dal nulla l’8 dicembre 1965 da Enzo Bianchi il giorno stesso che si concludeva il Concilio Vaticano II. Oggi è un punto di riferimento per quanti ricercano pace, fraternità, accoglienza, silenzio, meditazione, ospitalità, preghiera. Arrivare in questa piccola frazione nel comune di Magnano, in provincia di Biella e trovare ad accoglierci il priore della Comunità, Fratel Sabino Chialà ti riempie di serenità e di gioia.

Buon giorno Fratel Sabino, come sta?

Bene, grazie!

Lei è priore da due anni della Comunità monastica di Bose. Cosa vuol dire oggi, nel XXI secolo essere monaci? Com’è nata la sua vocazione al monachesimo?

La vita monastica, oggi come sempre, è un dono e una sfida. Un dono che si riceve e si riconosce. Una sfida, perché ci vuole poi una vita intera per comprenderne fino in fondo il significato e per cercare di abitarlo con tutte le proprie fibre. Così è stato anche per me: all’inizio vi è stata la scoperta di portare dentro un desiderio che in questa forma di vita trovava contorni familiari; quindi è iniziato un cammino che è di continua scoperta. Credo che sia ancora oggi una via non solo percorribile, ma anche corrispondente al desiderio profondo di molti giovani del nostro tempo, che non sono affatto distratti, né superficiali, come a volte si afferma! Sono invece alla ricerca di dimensioni che la vita monastica da secoli mette al centro: vita interiore, capacità di relazioni profonde, rispetto per la creazione. Ma spesso noi monaci siamo incapaci di far cogliere la bellezza di questa via, custodi come siamo più delle forme che della sostanza.

Come si svolge la giornata a Bose?

Secondo il ritmo che da sempre caratterizza la vita monastica, che è possibile indicare con due binomi: vita solitaria e vita comune; preghiera e lavoro. La vita monastica è tutta qui, in una sana alternanza, variamente dosata, di questi quattro elementi. Vi è la dimensione della solitudine, di cui è espressione anche il celibato, e poi la sfida di vivere insieme tra persone diverse e che non si sono scelte. Articolando poi il tempo tra momenti di preghiera, in cui lo studio e la lettura hanno uno spazio irrinunciabile, e momenti di lavoro, nella fedeltà alla propria vocazione di terrestri, cioè di uomini e donne fedeli a questa terra di cui sono ospiti responsabili.

Bose, luogo dell’ascolto, della preghiera, dell’impegno per l’ecumenismo. Bose è un osservatorio privilegiato per quanto riguarda l’ecumenismo. Cosa vuol dire oggi essere ecumenici? Qual è lo stato oggi dell’ecumenismo? I rapporti con le Chiese ortodosse in questo periodo di guerra in Ucraina?

Credo che l’ecumenismo, oggi più che mai, sia una dimensione irrinunciabile della fede cristiana, più che un’opzione. Per noi di Bose è così, dal momento che siamo una comunità in cui ortodossi, riformati e cattolici condividono tutto, senza alcuna differenza, pur nel rispetto delle rispettive appartenenze ecclesiali. Non ci chiediamo neppure se questo sia possibile: è il nostro quotidiano. Ma credo che questo debba appartenere all’orizzonte di ogni cristiano, come il frutto più significativo dei recenti decenni di cammino ecumenico: l’ecumenismo come situazione ordinaria, non come opzione. Certo, la situazione attuale ci impone di vedere i limiti di un certo tipo di dialogo, quello teologico in particolare. Per qualcuno ciò che sta accadendo mostrerebbe il fallimento del dialogo ecumenico tout court. La guerra in Ucraina – e non solo! – sarebbe la dimostrazione dell’inutilità di questi cammini. Personalmente, credo invece, che oggi più che mai è il tempo in cui non dobbiamo disertare questi incontri, proprio per non lasciare che le parole insensate e antievangeliche che purtroppo sentiamo pronunciare anche da capi di Chiese, siano le uniche parole. Le tensioni interne all’Ortodossia – ma anche interne alla Chiesa cattolica! – richiedono ancora maggiore responsabilità da parte di chi crede nell’incontro come via sempre possibile. Interrompere il dialogo è sempre una sconfitta.

“I have a dream” pronunciava Martin L. King. “Io sogno una Chiesa…” diceva il cardinale Martini. Qual è il sogno del priore di Bose?

Sogno una Chiesa che torni all’essenziale, alla fede in Gesù Cristo, e che non abbia paura del momento presente, della diminuzione in atto. Sogno una Chiesa che ritrovi la gioia di ricominciare da quello che le è stato lasciato in dono: la fede nel Signore risorto. Sogno una Chiesa che di questo sia sempre più capace di parlare a ogni donna e a ogni uomo del nostro tempo. Sogno una Chiesa in cui nessuno si senta estraneo, ma ciascuno figlio amato e atteso, per quello che è e per quello che è chiamato ad essere.

Danilo Dolci, Martin L. King, Gandhi, Nelson Mandela, Dorothy Day, Thomas Merton…profeti della non violenza. In un mondo in cui tutti parlano di armi, guerra, violenza, credo sia necessario cercare il modo di difendere la pace senza aumentare la violenza già in atto. Alcuni anni fa per la giornata mondiale della pace papa Francesco parlava di «nonviolenza: stile di una politica per la pace». Intanto le spese militari aumentano ogni giorno di più. In questo contesto qual è la risposta dei cristiani? La non violenza attiva può essere una realtà o rimane un’utopia?

Utopico è l’ideale, nel senso che non avrà piena cittadinanza su questa terra ciò che resta solo idea. Eppure sono le idee che muovono i nostri passi. Nell’esperienza cristiana osserviamo un’interessante particolarità: al suo cuore c’è una persona, che tuttavia ha incarnato un’ideale di essere umano. Lo ha però incarnato in un cammino, difficile e a caro prezzo, che lo ha portato alla pienezza dell’ideale. Credo che cristiano sia chi si chiede, in ogni situazione, cosa Gesù in quel preciso contesto avrebbe fatto, cercando poi di seguirlo e scoprendo passo dopo passo quale strada sia possibile percorrere. Gesù è stato un uomo di pace, e la pace per noi cristiani è un bene assoluto, mentre la violenza è sempre da rinnegare. Tuttavia una pace attiva, rigorosa, che sappia farsi carico degli oppressi, con responsabilità.

Viviamo in un mondo lacerato da conflitti, i cristiani non hanno più una voce di speranza. “Venite a me che siete affaticati e oppressi…” il messaggio di Gesù sembra non interessare, non stupire più. I Vescovi i nostri pastori sono afoni, si sente soltanto la voce profetica di papa Francesco. Come possiamo uscire da questo assordante silenzio? Come possiamo essere “segno di contraddizione”?

Qualche voce ogni tanto si leva… ad esempio sul tema dell’immigrazione, a seguito delle tragedie cui ancora assistiamo. Ma è vero… Troppo poco e sempre in reazione ai drammi e alle urgenze. Raramente come proposta di pensieri e percorsi. C’è afasia, che è forse espressione di disillusione e di un certo sfilacciamento. Più che di proclami – pure necessari e, in alcuni frangenti, doverosi – abbiamo bisogno di riflessione. Credo che un momento importante potrebbe essere la prossima Settimana sociale a Trieste, dove si affronterà un tema determinante come la democrazia, che non riguarda solo la gestione del potere. Abbiamo bisogno di tornare a riflettere, per poi agire, su tante questioni impellenti. Tornare a riflettere su quale modello di umanità portiamo nel cuore e desideriamo realizzare. E farlo da cristiani, che cioè imparano dall’umanità di Gesù e dalle Scritture, ma in dialogo con ogni uomo e donna del nostro tempo.

Il Vangelo, la Buona Notizia non riusciamo a trasmetterla, soprattutto alle nuove generazioni, usiamo un linguaggio vecchio, le nostre celebrazioni sono diventati riti incomprensibili, in cui il clericalismo prende il posto alla partecipazione. Nonostante papa Francesco la Chiesa è ferma, stenta ad andare avanti…

Le nostre parole sono efficaci quando non sono solo parole. Le nuove generazioni sono attente a ciò che trasmette vita, perché viene dalla vita. Si lasciano interpellare dai testimoni, mentre sono poco interessati ai venditori di parole. Sono una generazione social, ma avveduti. Loro sanno soppesare la credibilità delle fonti, molto meglio di noi adulti. C’è poi la questione del linguaggio, che è molto seria e delicata. Abbiamo bisogno di ripensare il linguaggio che impieghiamo, nell’annuncio come nella celebrazione, per renderlo più comprensibile. Facendo però attenzione a non confondere la semplicità con la banalità. Non abbiamo bisogno di liturgie banalizzate, improvvisate o spettacolarizzate, ma di liturgie in cui si possa entrare, in cui l’uomo e la donna di oggi si possano sentire prima accolti e poi introdotti nel mistero. È la sfida di sempre. La liturgia è un luogo liminare tra terra e cielo, luogo d’incontro tra la nostra umanità e il Dio che lì si comunica.

Grazie Fratel Sabino, grazie delle sue parole, ma per concludere…chi è per lei Gesù di Nazareth?

Una presenza… In poche parole direi: è colui che, con il suo modo di stare al mondo, mi ha dischiuso il senso della vita. Un senso che mi fa gioire di essere su questa terra e che mi fa desiderare l’incontro con lui faccia a faccia.