Salute pubblica, da diritto universale a business

Conversazione con Ivan Cavicchi

Ivan Cavicchi da sempre si occupa di politiche sanitarie e di problemi filosofici della medicina. È docente presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Tor Vergata di Roma, dove insegna Sociologia delle organizzazioni sanitarie e Filosofia della Scienza Medica. È consulente delle principali società scientifiche italiane e membro del “Forum Permanente” per il dopo Covid. È stato membro del Comitato Etico dell’ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina di Roma. I suoi ultimi libri, pubblicati entrambi con Castelvecchi, sono Sanità pubblica addio. Il cinismo delle incapacità (2023) e La scienza impareggiabile. Medicina, medici, malati (2022).

Ogni giorno ciascuno di noi, quando deve prenotare un esame clinico o ricorrere alle cure del pronto soccorso, o anche semplicemente ottenere una prescrizione dal medico di famiglia, può constatare quanto la sanità pubblica sia alle corde. Inadempienze, caos organizzativo, spersonalizzazione del rapporto medico-paziente e inammissibili ritardi sono pane quotidiano, per chi abbia un problema di salute. Chi se lo può permettere, preferisce allora rivolgersi agli specialisti privati, e sempre più il diritto alla salute è subordinato al censo. O magari, per scongiurare ritardi, saltare code, ottenere udienza, si può sempre provare a ricorrere alle conoscenze, alle “entrature” che i fortunati hanno all’interno del grande carrozzone della salute. Insomma, ognun per sé, meglio se con carta di credito a disposizione.

Ivan Cavicchi è uno dei massimi esperti di politiche sanitarie e di diritto alla salute. Proviamo ad analizzare con lui la situazione della sanità italiana, a partire dallo scenario post-Covid. Ricordiamo tutti quando più di qualcuno disse e scrisse, non più di due anni fa, che grazie alla pandemia si sarebbero gettate le basi per una società migliore, con un’attenzione rinnovata per la salute pubblica. Una società retta dai principi di uguaglianza, universalità e solidarietà.

Professor Cavicchi, cosa ci ha insegnato la pandemia e cosa invece non abbiamo imparato?

Il Covid avrebbe dovuto insegnarci un mucchio di cose, perché in fondo poteva rappresentare una grande lezione riformatrice, in materia di efficienza del sistema sanitario. Ma a conti fatti sembra che questo prezioso insegnamento non sia servito. Basta considerare un dato impressionante: superato il momento più critico della crisi pandemica, e nonostante tutto quello che ci è accaduto, abbiamo perso altri ventimila posti letto. Passata la bufera, tutto è tornato come prima, anzi peggio. Un’occasione sprecata per modificare una drammatica tendenza in atto.

Ma come è potuto accadere che i posti letto, anziché aumentare, siano diminuiti?

Il motivo è che il sistema ospedaliero è ancora regolato da sistemi molto rigidi. E le Regioni, che sono cronicamente a corto di soldi, non hanno altra via che tagliare i costi. L’emergenza è finita, per ora, ma come sempre non c’è alcun criterio di programmazione.

Nel suo ultimo libro, Sanità pubblica addio, lei si sofferma molto sul diritto fondamentale alla salute, sollevando un problema di costituzionalità: l’art. 32 della Carta dice che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Tutto questo sta venendo meno?

Nel mio libro presento una vera e propria denuncia: nonostante il dettato costituzionale sia molto chiaro in merito, nei fatti e nelle pratiche il diritto alla salute da tempo non è più un diritto fondamentale. È diventato un diritto relativo e subordinato, o per meglio dire un diritto potestativo, perché dipende dalla volontà di qualcuno. È un fatto gravissimo, probabilmente il vero nucleo della crisi della nostra sanità. Nel 1992, in una sorta di controriforma rispetto alla legge 833 del 1978, che aveva istituito il servizio sanitario nazionale, abbiamo trasformato gli ospedali in aziende sanitarie, che non sono altro che meccanismi gestionali pensati per subordinare il diritto alla salute a esigenze di bilancio.

Di fatto, è l’applicazione di logiche di tipo privatistico e capitalistico alla sanità pubblica…

Assolutamente sì, ma direi che in fondo si tratta dell’applicazione indiscriminata, anche alla sanità pubblica, di un’ideologia che si chiama neoliberismo. È la subordinazione di tutto ai parametri del reddito: un sistema sanitario privatistico sta sostituendo quello pubblico.

A proposito di privatizzazione della sanità: quali dovrebbero esserne i (presunti) vantaggi?

I sostenitori della privatizzazione partono da un presupposto: l’idea che la sanità pubblica, da sola, non possa farcela a reggere e perciò abbia bisogno di essere supportata dal sistema privato. Si tratta, lo dico con molta chiarezza, di una fesseria assoluta. La sanità pubblica è e sarà sempre in grado di funzionare bene, se potrà disporre dei fondi necessari. Ma se non la si finanzia, se vengono bloccati gli organici, se si mette un tetto alle assunzioni, allora è chiaro che diventa insufficiente. Sa qual è la grossa differenza tra sanità pubblica e sanità privata, e non solo in Italia ma in tutto il mondo? È il fatto che nella sanità privata si muore di più che in quella pubblica. Il punto è che chi cura con l’obiettivo del profitto non agisce come chi cura con l’obiettivo del diritto. Ma in Italia c’è anche un’altra anomalia: la nostra sanità privata in realtà è una sanità para-pubblica, perché viene fortemente sostenuta dallo Stato, che si accolla il costo degli incentivi, delle agevolazioni e degli sgravi fiscali di cui gode. Da cui il paradosso: che senso ha impoverire il pubblico per agevolare il privato, se poi quest’ultimo viene foraggiato da soldi pubblici? Dietro questo sistema, una partita di giro illogica che costa un sacco di soldi, ci sono degli interessi da foraggiare.

Ma allora, parliamo dei limiti della politica, comuni ai governi degli ultimi decenni, indipendentemente dal loro colore: una gestione così maldestra e capziosa della sanità pubblica è causata da un problema di scarsa competenza, di assenza di lungimiranza, o piuttosto è in atto una sorta di controriforma messa in atto per favorire il guadagno di pochi a scapito della salute di molti?

Pensiamo a quanto è accaduto. Nel 1992, abbandonando l’ispirazione riformatrice del 1978, abbiamo trasformato gli ospedali in aziende sanitarie, i cui atti costitutivi non a caso sono di diritto privato. Non era un passo necessario. Le posso garantire che avremmo potuto gestire la sanità al meglio anche con delle forme gestionali non di tipo aziendalistico. E invece si è andati in altra direzione, la stessa che oggi ha portato ad anteporre la cura alla prevenzione. Sono stati traditi gli ideali e i valori che erano all’origine della riforma.

Quindi lei mi sta dicendo che la questione non verte tanto sulla scarsa competenza o sull’impreparazione della classe politica, quanto piuttosto su una larvata, ma in realtà conclamata presenza di interessi di tipo lobbistico nelle politiche sanitarie dei governi…

Io sono arrivato a una semplice conclusione: le più grandi criticità del sistema sanitario pubblico sono tutte riconducibili a scelte politiche deleterie, a prescindere dal fatto che siano state assunte in malafede. Gli interessi in campo comunque coinvolgono tutte le forze politiche, chi più chi meno. Giova ricordare che l’idea della sanità integrativa è nata quando governava l’Ulivo. Dopo un processo di marginalizzazione durato decenni, oggi il risultato è che la sanità pubblica, su cui ormai imperano i principi del profitto e della speculazione, è ormai su un binario morto, che porta solo verso un suo progressivo e ineluttabile abbandono.

Un quadro davvero sconfortante. Ma proviamo a scendere nel concreto. La paralisi dei pronto soccorso, l’inadeguatezza numerica e operativa dei medici di base, le liste di attesa inaccettabili nella diagnostica… Non si può provare a sciogliere qualcuna di queste criticità?

Ogni aspetto si lega all’altro, è difficile trovare soluzioni operative puntuali. Sarebbe già importante comprendere la genesi di questa paralisi. Anche la riforma del 1978 contiene un grosso vizio, perché ha modificato la struttura del sistema sanitario nazionale attraverso un riordino istituzionale dei “contenitori”, ma non dei contenuti, lasciando invariate le prassi sanitarie e il modo di lavorare degli operatori e dei servizi. I medici di medicina generale, ma anche tutti gli operatori sanitari, oggi sostanzialmente lavorano sempre secondo la logica mutualistica. I nostri ospedali, anche quelli nuovi e tecnologicamente più avanzati, sono ancora governati da sistemi anacronistici, che risalgono a sessant’anni fa e non tengono conto della complessità delle patologie, della singolarità e dei bisogni reali del malato. Il posto-letto in rapporto alla popolazione resta ancora oggi il solo e unico parametro attraverso cui si organizzano gli ospedali. Anche il Pnrr per la sanità ripropone la solita dicotomia ospedale-territorio, quando invece la necessità sarebbe quella di rafforzare, diffondere e distribuire il più possibile la presenza dei presidi ospedalieri, fino al livello dei servizi domiciliari. Tutte le politiche sanitarie degli ultimi quarant’anni hanno sempre puntato a contenere le spese più che a valorizzare il capitale: perfino negli statuti dei sindacati, gli operatori sono sempre stati considerati come il principale costo della sanità, e mai come un autentico patrimonio da valorizzare. Le tecnologie sono importanti, naturalmente, ma se da un ospedale, da un ambulatorio, da un qualsiasi servizio territoriale togliamo o ridimensioniamo la qualità e il numero gli operatori, è come se togliessimo o limitassimo il servizio.

Ma il servizio sanitario, così com’è, è in grado di soddisfare il bisogno di salute dei cittadini?

La domanda di cura e di salute oggi è molto cambiata: l’aumento della vita media pone ora con forza i problemi delle patologie croniche e dell’autosufficienza. In Italia si continua a curare la malattia, ma non il malato. Curare una malattia è relativamente semplice, curare un malato è molto più complesso, perché implica trasparenza, comunicazione, coinvolgimento e partecipazione alle decisioni di un soggetto titolare di diritti e dei suoi familiari. Non c’è più il paziente di una volta, quello che accettava la sua sorte e le prassi di cura cui era sottoposto con rassegnazione e deferenza, e magari a Natale regalava un cappone al primario in segno di ringraziamento; il malato di oggi è una persona che giustamente vuole essere rispettata, informata, rassicurata, e vuole avere voce in capitolo circa il suo iter medico. Ecco, il sistema sanitario italiano si regge ancora su pratiche e percezioni vecchie, perciò è inadeguato rispetto al malato di oggi, che magari – lo abbiamo ben visto con i no vax – è anche un “esitante”, uno che ha dubbi sulla scienza e sull’efficacia delle cure mediche. Si continua a considerare il malato non come individuo con precise relazioni di vita, di lavoro, di affetti, con le quali spesso la sua patologia è in stretta correlazione e in quanto tale andrebbe affrontata, ma semplicemente come un insieme di organi da curare. È un problema di adeguatezza: si chiede all’operatore sanitario e al medico di essere appropriato, rispettando criteri soprattutto di carattere economico, ma non ci si preoccupa che l’operatore e il medico siano preparati, adeguati alle vere complessità del malato. È necessario un cambiamento non solo etico e deontologico, ma proprio di impostazione epistemologica della scienza medica. In assenza di ciò, l’“appropriatezza inadeguata” che affligge la nostra offerta sanitaria, la paghiamo tutti a caro prezzo: in termini di fiducia sociale, di insoddisfazione diffusa, di proliferazione dei contenziosi legali…

Perché negli ospedali e negli ambulatori mancano così tanti medici e operatori sanitari?

La situazione del mercato del lavoro in sanità è scandalosa. Oggi ci mancano migliaia di medici e di operatori perché da 22 anni, fin dai tempi di Monti, esistono tetti e sbarramenti alle assunzioni e non c’è stata alcuna visione programmatica. Di conseguenza, i concorsi sfornano pochi medici, che affrontano le specializzazioni per poi essere condannati a un eterno precariato, al quale possono sottrarsi facendo i “gettonisti” (che guadagnano molto di più) o facendosi assumere dal privato.

Il ricorso a personale medico e paramedico straniero può essere una soluzione?

In emergenza vale tutto. Ma non le sembra paradossale che in Calabria, per assicurare un minimo di assistenza, si sia dovuti ricorrere a una convenzione con i medici cubani? Come siamo potuti arrivare a questo? In tema di diritto alla salute, i cittadini calabresi sono abbandonati a loro stessi e non hanno gli stessi diritti dei cittadini di altre regioni. Nulla contro i medici cubani, naturalmente, ma questa soluzione è conseguenza dell’incompetenza e della completa assenza di programmazione della classe politica. In certe regioni, hanno cominciato ad affidare i pronto soccorso alle cooperative. Un disastro assoluto, un fallimento senza attenuanti di cui fanno le spese, ancora una volta, i cittadini.

Come ne usciamo? Esiste qualche soluzione realistica?

Le aziende sanitarie, così come operano oggi, non funzionano, bisogna capirlo. Dopo certi errori madornali, tornare indietro, a questo punto, è difficilissimo. Bisogna cominciare a contenere lo strapotere della spesa privata, tornare alla sanità integrativa senza pretendere una sanità sostitutiva. È necessario rimuovere subito i tetti alle nuove assunzioni, tornare a investire nel personale della sanità. E cosa stiamo aspettando a considerare la salute come un aspetto strettamente connesso alla tutela ambientale e all’ecosostenibilità? È così difficile capire che produrre salute pubblica per un Paese equivale a produrre ricchezza? Da anni propugno, con scarso successo ahimè, la necessità di una quarta riforma della sanità, che ponga rimedio, con consapevolezza e umiltà, agli errori fatti dalle precedenti riforme (1978, 1992 e 1999). Sempre che si voglia continuare ad avere una sanità pubblica… Altrimenti, la realtà è che si cura solo chi ha soldi.

Lei sostiene che è il momento di fare uno sciopero generale sulla sanità.

Ci sono tutti gli elementi per promuoverlo e sostenerlo. Rinunciare all’art. 32 della Costituzione e all’assistenza sanitaria pubblica significa cambiare la forma stessa della nostra società, modificare il modo di essere cittadini. Stiamo sprofondando nelle disuguaglianze. L’Istat ci dice che le condizioni di salute degli italiani stanno pesantemente peggiorando. Solo l’anno scorso oltre quattro milioni di italiani, cioè il 7% della popolazione, hanno rinunciato a curarsi perché non avevano reddito sufficiente per pagarsi l’assistenza privata. A parte qualche briciola al fondo sanitario prevista dal Def, per il prossimo anno il governo Meloni conferma i tagli lineari alla sanità già programmati, i tetti alle assunzioni e gli sgravi fiscali alla sanità privata. E quindi, conferma l’idea di affidare al reddito la funzione di selezionare darwinianamente i bisogni di salute della nostra popolazione. Non è abbastanza per scendere in piazza tutti, non contro il governo Meloni in particolare, ma per il nostro futuro di cittadini e contro decenni di errori e incapacità che ci stanno facendo sprofondare nella barbarie?