La giustizia giusta

La virtù della giustizia, che il pensiero greco considerava la virtù-principe di regolazione della vita della polis e che la tradizione cristiana ha da sempre concepito come la prima delle virtù cardinali, è la “giusta misura” – così la considerava Aristotele – delle azioni umane. Questa definizione, che vale per ogni forma di giustizia, risulta particolarmente importante da applicare quando ci si riferisce alla giustizia legale, che è al centro della pubblica amministrazione. Lo mette bene in evidenza, anche se con accenti esasperati e da assumere con la necessaria criticità, un recente volume di Alessandro Barbano, giornalista e saggista, dal titolo eloquente L’inganno (Marsilio 2023). Egli affronta qui soprattutto (ma non esclusivamente) i provvedimenti assunti dalla magistratura nei confronti del fenomeno della mafia, dando di essi una valutazione assai severa.

I termini della questione

Molti sono gli aspetti negativi che Barbano mette in luce a tale proposito, giungendo a denunciare l’Antimafia “una macchina fuori controllo” che ha superato i confini della legalità, dando vita a processi aberranti i quali vanno: dalla cultura del sospetto alla compressione delle garanzie; dalla delazione alla ricerca di un consenso fondato sull’allarmismo; dal mancato rifiuto del sostegno ricevuto da un processo mediatico a una forma di “moralismo intransigente”. Un esempio particolarmente significativo addotto da Barbano è quello della confisca dei beni materiali (proprietà e aziende) che sono nella disponibilità di persone considerate pericolose, per lo più sospette di avere legami con la mafia, o che risultano essere in contatto con individui considerati mafiosi. Confisca – e questo è l’aspetto più scandaloso – la quale comporta anche nel caso in cui venga riconosciuta l’innocenza della persona accusata per assoluzione giudiziaria definitiva, la mancata restituzione dei beni che le erano stati sottratti. Ha luogo in questo modo una duplice lesione della giustizia, consistente, nel primo caso, nel sequestro preventivo dei beni al di fuori di seri accertamenti; nel secondo nell’assenza della dovuta restituzione dei beni al legittimo proprietario. Nella maggior parte dei casi tali beni vengono, infatti, immediatamente affidati ad associazioni di volontariato che ne dispongono l’uso creando strutture abitabili o dando vita allo sviluppo di prodotti agricoli, con l’intento, soprattutto al Sud, di fornire nuove opportunità di lavoro e di arricchire il mercato con l’inserimento di beni genuini.   

L’origine dei comportamenti devianti

Tra le cause all’origine di tali atteggiamenti e comportamenti un ruolo di primo piano va ascritto al giustizialismo fondamentalista e dogmatico di molti giudici e pubblici ministeri; giustizialismo espressione di tracotanza e di mancato senso del limite, che ha origine nella coltivazione di una hybris, frutto del ruolo che il magistrato ricopre fruendo di un potere assoluto e insindacabile. Spesso questo enorme potere spinge i magistrati ad assumere atteggiamenti di eccessivo accanimento (si vedano le prese di posizione nei confronti di Renzi e dello stesso Berlusconi), che vanno oltre i confini della “giustizia giusta”. “Se coltivo la hybris – ha scritto D. Livermore regista di teatro che ha portato sul palcoscenico le migliori tragedie greche – il mondo pretendo che sia a mia misura per allontanare la mia finitudine. E magari anche la presa sul corpo dell’altro può dare questa tremenda illusione” (Il Sole-24 ore, domenica 5 marzo 2023, p. 12).

La presa sul corpo e la possibilità di limitare la libertà dell’altro sono poteri di grande rilevanza, che nessun’altra autorità possiede, e che esigono per questo una estrema delicatezza e vigilanza onde evitare la prevaricazione, che mette seriamente a repentaglio la dignità e i diritti fondamentali (e inalienabili) della persona umana. Si tratta di non fare della giustizia un feticcio dimenticando – la storia purtroppo non è maestra di vita– che le maggiori tragedie del “secolo breve” – si pensi soltanto ai totalitarismi sanguinari che hanno causato la morte di milioni di persone – sono state perpetrate nel nome di ciò che è giusto. 

La giustizia penale, l’unica che entra nelle carni delle persone non favorisce oggi l’esercizio di questo compito. A ben vedere, infatti, il potere sul corpo dell’altro è un meccanismo perverso, che non serve a nulla dal punto di vita della prevenzione; che anzi è in contraddizione con essa, perché, grazie all’introduzione della pena di morte, si legittima l’omicidio, aderendo a quella logica sacrificale a lungo praticata nelle culture del passato con l’illusione di poter negoziare con l’eternità.    

Come restituire alla giustizia credibilità

La giustizia – lo si è già osservato – è una virtù delicata che sta sopra di noi e il cui equilibrio tra eccesso e difetto va costantemente ridefinito, evitando soprattutto che si chiuda su se stessa, assumendo una forma di radicale autoreferenzialità, con il rischio che – come recita il detto antico – il summum ius si trasformi in summa iniustitia. Il presupposto fondamentale perché questo non si verifichi, in particolare nell’ambito qui privilegiato della giustizia legale (e in primo luogo penale) è costituito dal rispetto della dignità della persona, di ogni persona, anche del più grande delinquente autore dei delitti più efferati, con la preservazione dei suoi fondamentali diritti e con la messa in atto di un trattamento che consenta al colpevole di reato di godere della possibilità di riacquisizione della propria libertà. È quanto del resto chiede la nostra Carta costituzionale, la quale all’art. 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.  

Alla base dell’atteggiamento duramente repressivo, come quello che prevede l’ergastolo senza alcuna possibilità di uscirne – ergastolo che già Beccaria considerava una pena peggiore della pena di morte, perché toglie per sempre la libertà alla persona umana – vi è una forma di pessimismo antropologico, che non è solo anticristiano ma prima ancora antiumano. La ragione di tale dispositivo è, infatti, la considerazione dell’impossibilità che alcuni soggetti hanno di emanciparsi dal male. Il che comporta il rifiuto pregiudiziale della speranza nel cambiamento che va invece concessa ad ogni persona umana.

Commentando alcuni mesi fa sulla Stampa il caso Cospito, e più in generale il 41bis, Massimo Cacciari denunciava il silenzio dei giuristi e auspicava che almeno i teologi intervenissero. Pe quanto anziano e da molti anni in pensione sono rimasto colpito da quella sollecitazione, che ho ritenuto (e ritengo) giustificata. Mi ha sempre turbato l’assenza di umanità (e l’immoralità) di una pena come l’ergastolo, motivata da una concezione irrevocabile dei vissuti delle persone.     

Quali alternative possibili?

Non mancano fortunatamente oggi (e vanno crescendo) importanti segnali di percorsi che si muovono in direzione opposta rispetto alla visione delineata. Il primo di tali percorsi esige che si ponga un’attenzione privilegiata all’onore da riservare alla vittima e al risarcimento, anche economico laddove è possibile, dei congiunti e dei parenti in genere, vittime, a loro volta, di una profonda (e insuperabile) lacerazione interiore. Il rifiuto di accedere all’applicazione dell’ergastolo non significa dunque (e non può significare) rinuncia al conferimento di pene severe a chi si è macchiato di gravi delitti, con l’assunzione di pesanti provvedimenti di carattere espiatorio. La giustizia giusta deve – è questo uno dei suoi compiti irrinunciabili – intervenire, individuando un sistema penale, che sappia coniugare la finalità rieducativa della pena con la necessità che essa faccia prendere coscienza a chi viene condannato della propria responsabilità nei confronti del reato commesso e lo solleciti a invertire la rotta, impegnandosi in una vera conversione.

I due successivi percorsi vengono indicati da un recente saggio di Francesco Occhetto dal titolo significativo Le radici della giustizia (S. Paolo 2003). Il più significativo di tali percorsi è costituito dall’introduzione della “giustizia riparativa”, che pone al centro dell’ordinamento il dolore della vittima, la pena da espiare umanamente per l’autore del reato e la responsabilità della società chiamata ad offrire un futuro a chi dà testimonianza di un vero cambiamento. Le esperienze fin qui fatte, grazie alla mediazione imparziale di un arbitro, hanno dimostrato l’efficacia di tale processo. Ma, al di là dei risultati ottenuti (peraltro non pochi), rimane l’importanza di un modello che, senza rinunciare alla penalizzazione del colpevole del reato, favorisce, attraverso l’incontro con la vittima, la consapevolezza della gravità della sua colpa.

L’altro percorso è rappresentato dal passaggio da un concetto di pena, con un carattere prevalentemente punitivo e vendicativo, a un concetto nel quale viene dato il primato al compito più volte accennato della rieducazione e alla riforma del sistema carcerario in modo di renderlo più umanamente tollerabile. Sul primo versante – quello del concetto di pena – è necessario uscire da una concezione della giustizia a senso unico – una giustizia burocratizzata e applicata con rigore formale alle diverse situazioni senza il dovuto discernimento della loro diversità – a una giustizia più duttile, più orientata a rispettare ciascuna persona nella sua unicità irrepetibile e a fornirle gli strumenti per migliorare la propria condizione. Sul secondo versante – quello della riforma del sistema carcerario – occorre mettere in atto un processo di radicale cambiamento, che va dallo sfoltimento del sovraccarico attuale, di gran lunga superiore alla portata reale delle carceri – si impone a tale proposito l’abbandono della carcerazione preventiva per reati minori – alla creazione di condizioni più umanizzanti capaci di fornire le premesse per un positivo reinserimento dei carcerati nella società. Le esperienze già in atto in alcune strutture carcerarie, dove si sono assunte iniziative di tal genere, con l’offerta di opportunità – corsi, laboratori, apprendimento di mestieri – per la positività dei risultati positivi raggiunti fanno ben sperare per il futuro.

Il binomio giustizia-carità che costituisce lo specifico della proposta evangelica, introduce a tale proposito elementi di grande rilevanza etica, anche a chi si è reso colpevole dei più efferati delitti quali l’esercizio del perdono e l’affidamento all’infinita misericordia di Dio.  Elementi che offrono rilevanti motivi di sostegno alle alternative cui si è accennato.