La ferita e il canto
Il professore e i fiori di lillà
In ricordo di Aldo Natale Terrin
«Perché i poeti nel tempo della povertà?». Commentava le parole di Hölderlin, sulle quali Heidegger si era a lungo interrogato. Non aveva appunti, solo il testo in lingua originale sul tavolo. Guardava fuori dalla finestra e ogni tanto, facendo delle pause, ci guardava, per capire se seguivamo il suo pensiero. Le lezioni del Professor Aldo Natale Terrin a Padova erano sempre un momento creativo. Non si dovevano preparare pensieri già fatti, confezionati, definiti. La sua lezione era creare pensiero, aprire orizzonti, appendere molti punti interrogativi al cielo. Mentre faceva lezione il Professore sapeva che nella povertà culturale in cui si rischiava di cadere era necessario suscitare “poeti” dentro il mondo, persone capaci di avvertire il vuoto, la perdita di senso, e di dare l’allarme che «gli dei erano fuggiti» e che si faceva sempre più notte. Quando commentava la Terra desolata di Eliot faceva sentire la nostalgia, quasi il dolore di una terra che stava morendo, ed era come se di quei fiori di lillà di cui parla il poeta sentissimo il profumo. «Aprile è il mese più crudele», scandiva le parole di Eliot. Ed era proprio così, per chi inaridito nello sguardo e nel sentimento non sapeva più trovare “corrispondenze” con la Natura, il mondo, la storia.
Resistere alla banalità
Sembrava quasi “ossessionato” dalla banalità che avanza. Consapevole che l’epidemia della banalità era aggressiva e trasversale. Per questo ha continuato a fornire antidoti per resistervi. Ma sappiamo che è più facile cedere alla banalità.
Saint-Exupéry dice che gli uomini vanno al mercato per comperare le cose già fatte. Anche i pensieri già fatti, potremmo aggiungere.
Il pensiero di Terrin, da antropologo, da fenomenologo della religione, pungeva di continuo la teologia. Non era una testarda provocazione, ma la consapevolezza che la teologia soffriva della grave malattia dell’autoreferenzialità. E che questo danno avrebbe potuto esserle fatale. Una teologia, infatti, che non avesse preso sul serio il confronto con la scienza, la filosofia, l’antropologia, la letteratura… il confronto interculturale, avrebbe scelto un tragico destino.
Per questo riteneva che lo studio fosse l’unica strada possibile per non sfuggire al confronto con il mondo. Non potevano esserci scorciatoie.
In uno degli incontri di seminario dei suoi dottorandi, una volta il professore, stanco di aver dato indicazioni a un dottorando che continuava a scrivere, portando malloppi sempre più consistenti ma privi di succo, prese l’elaborato di 300 pagine e lo lanciò direttamente nel cestino dei rifiuti. Un’azione performativa, seguita da un imbarazzante silenzio.
Fu il Professore a interrompere l’imbarazzo: «non potrete dire che io non abbia buona mira…». In questo, a pensarci bene, si può capire chi è il Maestro. È quello preoccupato di “farti crescere”.
La severità come modalità di cura
L’auto-revolezza di un Maestro infatti è quella di aiutarti a diventare “autore di te stesso”.
Aldo Natale Terrin sapeva essere severo. Non erano pochi quelli che rimandavano l’esame anche poco prima, presi dall’ansia.
In questa sua “severità” poteva diventare impopolare. E tuttavia sceglieva di essere impopolare piuttosto che diventare accomodante. In fondo anche la “severità” può essere letta come un modo di “prendersi cura dell’altro”. Non abbassare il livello della proposta, pretendere serietà nell’apprendimento e nella rielaborazione può essere, infatti, un atto di stima verso i propri studenti piuttosto che un irrigidimento nei loro confronti.
C’è una figura e una situazione che potrebbero evocare il prof. Terrin. Ne parla Etty Hilleums nella versione integrale del suo Diario, quando descrive il suo ultimo incontro con il prof. Bonger.
«Mancavano poche ore alla capitolazione… ed ecco la figura (…) chiaramente riconoscibile di Bonger che se ne andava lungo l’IJsclub, occhiali azzurri su quella testa pesante e originale». Guardava le nuvole. «In uno slancio spontaneo ero corsa fuori senza mantello, l’avevo raggiunto e gli avevo detto “buongiorno professor Bonger, ho pensato molto a lei in questi ultimi giorni, l’accompagno un pezzetto”».
«Quel feroce Bonger era indifeso come un bambino, era quasi dolce». Ed ecco il gesto imprevisto della Hillesum: «io avevo sentito il bisogno irresistibile di mettergli un braccio intorno alla vita».
E così la Hillesum cammina con lui, accogliendone tutta la gentilezza e la benevolenza dello sguardo; leggendo fino in fondo come in un pozzo d’acqua la grandezza quell’uomo, «il burbero delle nostre lezioni».
Un maestro sensibile che non ha paura
Terrin compreso nel suo sapere e apparentemente distaccato era in realtà un uomo di rara sensibilità, capace di compassione profonda, di sguardi lungimiranti.
Aveva scelto di studiare il mondo delle religioni, di stare sempre al bordo del mistero, arrampicandosi sulle pareti dei grandi codici culturali. Lo faceva con il distacco appassionato dello studioso, senza tuttavia nascondere, talora, lo stupore e il candore del fanciullo, attratto, per evocare H. Hesse, dal «il gioco delle perle di vetro». Non era mai stato un “chierico” prestato alla cultura. La cultura lui l’aveva sposata tutta intera, con uno sguardo laico, mai ideologico, estraneo ad ogni logica clericale. Basterebbe scorrere la sua vasta bibliografia per scoprire la sua mente di coraggioso esploratore, amante dei confini e delle vette. E delle nuove sfide, fossero le neuroscienze o l’intelligenza artificiale.
Apparteneva alla genealogia dei grandi Maestri. Quella di Italo Mancini e Luigi Sartori, ad esempio, con i quali condivise passione e visione. Del grande teologo padovano Sartori (che, non dimentichiamolo, era anche un montanaro dell’Altipiano – essendo di Roana) condivideva la mente conviviale e lo sguardo visionario. Gli insegnanti fanno lezioni, ma i Maestri “fanno scuola”, inventano quello che prima non c’era, aprono cammini. I Maestri non hanno paura.
Nel nostro ultimo dialogo, quindici giorni prima della sua morte, mi aveva detto dell’importanza di non piegare mai la propria intelligenza a nessuna piccola, mediocre, paurosa obbedienza. Che spesso chi obbediva a qualcosa o a qualcuno lo faceva per non aver il coraggio di pensare e di assumere il rischio del proprio pensiero. Non era difficile sentire l’affinità con quanto scriveva Romano Guardini sulla «responsabilità culturale» che dovremmo avere nei confronti del nostro tempo e del nostro mondo.
Pensare come suonare musica
Per il prof. Terrin pensare alla fine era un’opera aperta. Pensare era come suonare un’opera al pianoforte. C’era sì uno spartito, ma quella musica mille volte suonata veniva mille volte interpretata di nuovo, cogliendone così l’imponderabile spirito libero e creatore. E quando Terrin si metteva davvero al pianoforte entrava nella sua estasi, nel suo stato puro di felicità.
Ha scelto un pensiero difficile, di confine, lo spazio dell’Alterità.
A Berlino esiste lo Haus der Kulturen der Welt (la casa delle culture del mondo). Questo centro per la sua particolare forma è conosciuto anche come Schawngere Auster ovvero “Ostrica gravida”.
Racchiude, infatti, un sapere difficile, misterioso, sempre nuovo, capace di ingravidare il mondo e di farlo rinascere ogni volta che sembra perduto.
Anche per questo nostro Maestro potremmo usare la metafora dell’ostrica gravida.
È stata una sorpresa sempre commovente scoprire alla fine la perla purissima racchiusa nel suo guscio: la sua umanità, il suo pensiero e il suo sogno.
E non ci si poteva che rallegrare, come il mercante di cui parla il vangelo, quando alla fine della sua inesausta ricerca trova la sua perla preziosa…