Grande distrazione e presenza

pianta rampicante che tesse una tela

C’è una categoria che mi sembra rappresentare un rischioso nuovo paradigma dell’oggi: quella della “grande distrazione”. Gli antichi latini avevano un vocabolo, distraho, che significava tirare in sensi diversi, separare, disgregare e anche rompere in pezzi, disunire, mandare a vuoto un obiettivo, staccarlo da sé. Ragionando per opposti, il contrario di distrazione lo troviamo nella concentrazione. Una persona concentrata, poi, è anche presente; tuttavia la concentrazione è solo una delle molteplici realtà della presenza. Ad esempio, il mind wandering è necessario e costruttivo, predispone alla centratura e alla creatività: anch’esso in questo senso è presenza. Presenza è percepire corrispondenza tra interiorità ed esterno; rivolgendoci ancora agli antichi maestri, è trovarsi in uno stato di en-thou-siasmòs, nell’essenza e nell’ispirazione del dio. Riuscire a contattare quel “dio di dentro” che significa contattare un nucleo proprio vitale, il “punto vivo” per dirla con il Nobel Luigi Pirandello. Qualcosa che apre alla creatività, un terreno di pre-espressività. All’opposto sta la “grande distrazione” intesa come assiduità del distoglimento da sé, difficoltà protratta e indotta a mettere a fuoco. L’incapacità progressiva di cogliere il contesto sotto traccia, e non è questione di poco conto: cresce il frastuono della grande distrazione e di pari passo decresce l’abilità a decodificare “il rumore di sottofondo” il quale contribuisce a costruire coscienza personale e collettiva, e facciamo fatica a capire dove stiamo andando. La grande distrazione è scorrimento e si contrappone all’incontro profondo. La proiezione continua sull’altrove porta alla costruzione di identità solipsistiche, in un mondo che ha estremo bisogno dell’intelligenza dei gruppi per affrontare i decisivi cambiamenti in atto. Rivelatrice è una attuale invalsa modalità di fruizione delle cose, ad esempio dell’arte e della natura. C’è una differenza tra godere e carpire, tra lasciarsi attraversare e trasformare da un’esperienza e invece illudersi di impossessarsene velocemente attraverso lo smartphone, riducendo l’esperienza a un oggetto di consumo, il godimento e l’estasi a nulla. Smania di possesso e meccanicità connotano questo fare.

UNA CATEGORIA DELL’OGGI

Possiamo dunque definire la grande distrazione una categoria attuale pedagogica ed esistenziale. Un campo di indagine che ci interpella e richiede, a tutti gli educatori, la ricerca di pratiche che possano essere di aiuto, evoluzione e autoliberazione; affinché la persona possa coltivare nella presenza la qualità della relazione con sé e con ogni alterità, umana e non, e così avere sguardo per contribuire a rendere migliore la societas, dando ad essa una forma desiderabile per tutti. Una sfida che oggi (quando l’a-razionale ineducato è spesso direzionato sulla violenza, quando la preoccupazione del riarmo pandemico sembra occupare la natura umana lasciando poche fessure alla negoziazione del bene della pace) diventa ancora più urgente. La grande distrazione è il continuo essere spostati altrove che forse è iniziato con l’era del multitasking e con l’illusione delle infinite potenzialità di gestire diversi contesti in contemporanea, illusione che ci ha esaltati. Una tendenza diventata un disegno industriale, che accettiamo compiacendoci di andare dove il nostro algoritmo ci porta. Preoccuparsi di favorire la presenza piena diventa essenziale: essa dispone a cercare soluzioni creative. “(…) Sviluppiamo la creatività di tutti, perché il mondo cambi”, sostiene Rodari.  Contro la creatività rema la grande distrazione: l’assiduo essere indotti a eludere il qui e ora (penso ad esempio al continuo scrolling con i social), che ostacola l’elaborazione collettiva di temi e problemi, mentre è attraverso di essa che passa la costruzione di una responsabilità pubblica. Il risultato è che ci indigniamo ma non combattiamo, ci scriviamo ma non ci tocchiamo.  La grande distrazione è il ripiegamento delle più belle energie umane verso la stasi, pur nell’illusione di un’attività incessante, e l’inconsapevole inerzia davanti a quanto accade. È pervasiva; tocca tutti gli ambiti della vita; blocca o condiziona la scelta; depriva di strumenti di comprensione.

QUALE PRESENZA?

All’opposto della grande distrazione incontriamo la presenza. Nel greco antico il verbo pàreimi indicava sono presente, mi trovo, ma anche dipende da me, è in mio potere. Il latino praesum è illuminante: sono il principale responsabile, proteggo, sono il custode. Ma cosa dipende da me, cosa è più in mio potere, a queste condizioni? L’impegno sul fronte educativo deve essere quello di favorire la presenza per reagire; esserci perché possa dipendere da me. È la più grande responsabilità e il più importante lascito che possiamo fare alle giovani generazioni. L’innovazione di una Paese corrisponde alla sua cultura della responsabilità.  Presenza significa esserci come persone dotate di senso in un contesto dotato di senso. La definizione dell’antropologo Ernesto De Martino – che incontra il da sein di Heidegger – indica la presenza come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e modificandola eventualmente attraverso l’azione. È l’adsum dei latini: ci sono, sono pronto.  La crisi della presenza è spaesamento.

INCIDERE SULLA REALTÀ

Come poter governare i cambiamenti in atto senza subirli, poter tornare a dire dipende da me, ho potere di scelta, sono custode? Scrive Sant’Agostino: “L’animo attende, presta attenzione, ricorda”: attende il futuro e ha memoria del passato, ma è il presente il momento in cui si deve “prestare attenzione”. Presenza è attenzione, un’arte difficile di “comprendere le verità evidenti con tutta l’anima”; “l’attenzione estrema costituisce nell’uomo la facoltà creatrice” scrive Simone Weil. L’esercizio vero di questa capacità è “vita in profondità”.  La grande distrazione, invece, è condizione rischiosa perché perdita di contatto con il fondo di noi stessi. Un mondo alienato dalla sua vera essenza non sa sviluppare nuove possibilità, ma si arma; è un mondo che, prima o poi, sceglie la guerra. Scrive ancora il filosofo di Tagaste: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.