Diario scolastico
Esaminare l’Esame
Dopo tre anni di regime straordinario, l’Esame di stato conclusivo del ciclo d’istruzione secondaria superiore è tornato, quest’anno, alla sua formula originale, introdotta con la riforma scolastica firmata dal governo Renzi. In qualche misura, quindi, si tratta di un secondo debutto, dal momento che l’attuale liturgia dell’esame era stata sperimentata una sola volta, nel 2019, prima che la pandemia imponesse procedure differenti. Così, quest’anno si è tornati alla composizione mista della Commissione, formata da un Presidente e tre commissari esterni a cui si aggiungono tre insegnanti interni, e alla tripartizione delle prove d’esame: due scritte, italiano e una prova d’indirizzo, e un colloquio multidisciplinare che deve partire dall’analisi di un documento, o un’immagine, o un testo, o un grafico proposto dalla commissione al candidato. L’idea è che questo materiale dovrebbe consentire di attivare le competenze acquisite dal candidato affinché riesca a trovare logici e coerenti collegamenti tra le discipline studiate durante il suo percorso formativo.
Non esiste solo il liceo
Lasciando da parte le sterili polemiche che, davanti ad una riforma dell’esame di stato, costringono sempre a prendere posizione in rapporto alla propria identità politica, occorre rilevare che l’attuale formulazione di quella che un tempo si chiamava “maturità” presenta lati positivi e negativi. Partendo dalle considerazioni critiche, non si può non rilevare che sia la prima prova che la prova del colloquio sembrano pensate da un Legislatore che non abbia mai messo piede al di fuori di un Liceo, possibilmente classico. Nonostante la riforma classista della scuola di stampo gentiliano abbia un secolo sul groppone e sia stata emendata più volte, al fondo, nell’inconscio della nostra classe politica, rimane l’idea che la scuola superiore sia il Liceo e tutto il resto rimanga una sorta di sfondo sfumato.
Prove che mettono alla prova, tipologia A
Prendiamo la prima prova, che offre al candidato, sulla carta, ben sette diverse tracce, raggruppate in tre tipologie di svolgimento: tipologia A, analisi del testo; tipologia B, analisi e produzione di un testo argomentativo; tipologia C, riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su una tematica di attualità. Nulla da dire, in teoria, visto l’elevato numero di proposte e le diverse curvature metodologiche delle stesse. È molto positivo, inoltre, che la prima tipologia riguardi la letteratura, perché, giustamente, l’analisi di un testo letterario non pertiene solo allo studente liceale, ma a un qualunque alunno che desideri approcciarsi criticamente alla lettura di una poesia o di un brano di narrativa. Il problema interviene quando si scelgono testi o autori che poco o nulla hanno da dire allo studente medio italiano, con richieste tecniche che difficilmente possono essere recepite da un alunno di un professionale o di un tecnico. Risultato? La maggior parte di questi allievi salta a piè pari tali prove e i pochi che vi si avventurano devono sperare di incontrare un commissario esterno che, nella correzione, sappia calibrare intelligentemente l’uso della penna rossa. Quest’anno sono usciti Quasimodo e Moravia con testi, francamente, molto complessi da interpretare e, nella commissione di un tecnico industriale in cui sono stato chiamato a fare l’esterno, solo in due hanno raccolto il guanto della sfida.
Tipologia B
Se si passa alla tipologia B, poi, le cose spesso non vanno meglio, perché i testi argomentativi da interpretare contengono riferimenti che esulano dalle conoscenze di uno studente che non abbia basi, più o meno solide, in campo filosofico o scientifico, ossia uno studente liceale. Quest’anno, in particolare, la traccia a sfondo storico portava una riflessione sul concetto di nazione di Federico Chabod, a suo modo interessante, ma fuori programma, perché l’argomento si affronta nel quarto anno, e, inoltre, con una proposta di analisi che non si può negare contenesse un vago odore di forzatura politica. Secondo parziale? Nessuno studente della mia commissione l’ha minimamente calcolata. La traccia tecnico-scientifica, invece, riportava una riflessione di Piero Angela sull’importanza della creatività e della formazione in campo scientifico, intese come ricchezza immateriale ben più importante di quella materiale e, ovviamente, la metà dei candidatici si è aggrappata a questa traccia che è sembrata loro come la bellissima Zattera della Medusa del pittore francese Théodore Géricault, vale a dire una scialuppa di salvataggio nella tempesta. La terza proposta della tipologia B, infine, proponeva una riflessione alquanto criptica di Oriana Fallaci sulla storia, con riferimenti a Pascal e alla sua boutade sul naso di Cleopatra e a Bertrand Russell, introdotti da una noticina esplicativa poco illuminante. Invitare i ragazzi a elaborare una riflessione sulla storia, per stabilire se questa sia fatta da pochi uomini di potere o dalle masse, è già di per sé piuttosto complesso; portare come riferimenti citazioni di filosofi che, per gli studenti di un ITIS, sono nel migliore delle ipotesi solo nomi di vie o piazze, sinceramente mi sembra alquanto sprovveduto. Dunque, anche questa opzione è stata in larga misura evitata.
Tipologia C
La tipologia C infine – una sorta di vecchio tema argomentativo, per intenderci – proponeva una doppia traccia. La prima era francamente imbarazzante, perché riportava lo stralcio di una lettera redatta da un non meglio specificato gruppo di intellettuali italiani e inviata all’allora Ministro dell’Istruzione Bianchi, con cui i firmatari sottolineavano l’importanza di tornare a sostenere un esame “serio” dopo le edizioni ridotte dell’epoca Covid. La seconda proposta, invece, invitava ad una riflessione su un bel testo dello scrittore Marco Belpoliti sull’incapacità di attendere, e quindi anche di pensare e attraversare i dubbi, nella nostra epoca caratterizzata da una forma di iper-comunicazione. Non è difficile capire, anche in questo caso, perché la prima traccia sia stata totalmente ignorata, mentre la seconda abbia raccolto i consensi di coloro che non se la sentivano di confrontarsi con Piero Angela.
Prove non pensate per uno studente reale
Ad ogni modo, avreste dovuto vederle le facce dei ragazzi della mia commissione, mentre sfogliavano i titoli delle tracce, per capire come queste prove non siano davvero pensate per uno studente reale. E, forse, avrebbe dovuto vederle anche qualche funzionario ministeriale, così da rendersi conto che è necessario di offrire la possibilità a tutti gli studenti di poter svolgere le tracce a partire dal proprio percorso formativo, senza escluderne aprioristicamente alcuni, tracce che poi ciascun alunno possa svolgerle, innervandole di riflessioni e riferimenti che possano attingere alle discipline studiate. La stessa osservazione, poi, può essere estesa anche al colloquio multidisciplinare, molto più semplice in un liceo, in cui si possono collegare le letterature, la filosofia, la storia e l’arte senza grosse difficoltà, mentre risulta alquanto complesso agganciare il funzionamento di un motore asincrono trifase a Ungaretti o Montale.
Momento di passaggio
Tuttavia, al di là delle criticità messe in evidenza, non si può non riconoscere che l’esame continua ad essere un momento di passaggio estremamente importante per questi ragazzi. I commentatori poco informati, quelli che ogni anno recitano il loro sterile ritornello, sentenziando l’inutilità di una prova che sostanzialmente promuove quasi tutti, dovrebbero obbligatoriamente essere costretti ad assistere a un colloquio d’esame. Forse capirebbero che tale esperienza, per dirla con Piero Angela, costituisce un’importante esperienza formativa immateriale, perché costringe i ragazzi, forse per la prima volta, a fare davvero i conti con se stessi, con ciò che hanno o non hanno acquisito, in termini di conoscenze e competenze, ma anche in relazione alla presa di coscienza di sé. Dovrebbero vedere come, anche i più spavaldi, appaiano in ansia, con gli occhi lucidi e le mani leggermente tremanti. Dovrebbero comprendere come affrontare un colloquio in cui siano costretti a parlare ad un piccolo, ma attento (si spera) pubblico, sia una prova decisamente ardua. In un mondo per certi versi complicatissimo e per altri iper-semplificato, l’esame è il momento del redde rationem, perché obbliga ciascun ragazzo a guardare indietro e simultaneamente a protendere lo sguardo avanti. Si voltano indietro per fare i conti con la propria adolescenza, con le proprie intemperanze, svogliatezze e superficialità o, al contrario, per attingere alle proprie curiosità, domande ed esperienze. In particolare, questi ragazzi che hanno attraversato la scuola superiore nel pieno dell’onda pandemica fanno un primo vero bilancio della loro vita, prendendo consapevolezza di tanti dettagli fino ad allora sfuggiti. Gli anni delle mascherine e dell’isolamento, dei tamponi, dei vaccini, dei lockdown, dei gel igienizzanti e dei mancati abbracci hanno prodotto solchi e ferite, anche in chi, apparentemente, sembra essere passato indenne dentro il tunnel di questa esperienza. Non si tratta di giustificare ad ogni costo, ma di assumere che questa generazione è emotivamente fragile, anche quando questa fragilità si maschera di strafottenza e atteggiamenti spavaldi, o si difende con apatia e indolenza.
Tempo di guardare avanti
Ma, nel contempo, grazie all’esame questi giovani sono obbligati a proiettarsi in avanti, a protendere lo sguardo perché si rendono conto che l’esistenza incalza e non possono più procrastinare alcune decisioni. Lo strappo che l’esame produce li porta a pensarsi in relazione al futuro, a prendere la propria vita tra le mani e a dirsi, con onestà, cosa vogliono davvero fare di se stessi. L’esame li spinge anche al punto paradossale di rendersi conto di non avere progetti, di non avere interessi, di non avere piani, costringendoli a confrontarsi con questo vuoto senza più alibi o giustificazioni. Alla domanda di rito che i presidenti di commissione pongono ad ogni candidato, sul finire del colloquio, relativa alle prospettive future, alcuni rispondono che fino a quel momento non avevano compreso davvero cosa volesse dire costruire un percorso e prendere una direzione. Non lo so, dicono, citando opzioni contraddittorio, come un periodo all’estero o l’entrata nel mondo del lavoro, come il prosieguo degli studi o un viaggio sulla Luna. Ma si tratta di un “non lo so” pronunciato con molta preoccupazione e serietà; ossia un “non lo so” quasi adulto, di chi sa che ora non si può più tergiversare e, dunque, diviene un “non lo so” molto bello ed importante per loro. L’esperienza dell’esame produce, dunque, un piccolo cortocircuito che impone di tagliare i contatti con l’infanzia e ad annodare quelli con la propria vita futura. Come docente, sinceramente, non mi interessa che venga promosso il 99 per cento dei candidati, perché chi conosce la scuola sa perfettamente che il valore dell’esame non sta in quella percentuale, ma sta nella sfida che ogni giovane deve affrontare e che, sostanzialmente, coincide con la sfida che comporta il diventare adulti e responsabili.