La ferita e il canto
“e da là tu canti…”
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Pier Paolo Pasolini: una voce che manca. La voce del poeta
Per me c’è un vuoto nel cosmo
un vuoto nel cosmo
e da là tu canti.
Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca – la cui forza
è nella sua degradante diversità.
Così scrive Pier Paolo Pasolini, e così noi possiamo leggere il ritrattato più verosimile del poeta stesso.
Il vuoto del cosmo si fa oggi più grave e drammatico perché non c’è quel “da là tu canti”. In questo vuoto culturale, politico, vuoto di immaginazione, manca il canto non violento del profeta.
Davanti all’entropia del mondo, ci si chiede cosa avrebbe detto Pier Paolo Pasolini. Non si possono trascinare i morti nell’oggi a basso prezzo. Ma ci sono morti che hanno abitato il futuro e per questo possono parlare, liberare ancora il loro canto. Pasolini ha abitato il futuro.
Di fronte alla mancanza di idee, al vuoto politico, il poeta friulano rimane la necessaria pietra di inciampo che ribalta facili, banali letture e congetture. Pasolini è l’antidoto contro la semplificazione, arte povera di chi è a corto di idee e di visioni. Pasolini è un ossimoro vivente: gentile e aggressivo, dolce e amaro, puro e trasgressivo, moderno e mitologico, sacro e laico, critico illuminista e profetico biblico. È con il suo stesso corpo di poeta una permanente contestazione alla stupidità del potere.
E proprio il suo corpo lasciato sulla spiaggia del litorale di Ostia, raccolto dal vento, come nella pagina di Ezechiele, rimesse insieme le ossa, ritorna. Non nella evanescenza di un fantasma ma nel risveglio della coscienza. «Io so». Quel suo “manifesto” scritto poco prima di morire, quel suo “j’accuse” lucido e disarmato contiene la causa del suo delitto, del massacro del suo corpo.
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«Io so, io so tutti questi nomi e tutti questi fatti [attentati alle istituzioni e stragi] di cui si sono resi colpevoli». «Io so», dice il poeta, «ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi». Non è un commissario di polizia, è un intellettuale: «Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa e si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero, coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero».
Al di là di donne e uomini che cercano anche oggi la verità e lottano, l’Italia sembra aver perduto tragicamente questo spirito pasoliniano. Una denuncia che ribaltata diventa un manifesto di quello che dovrebbe succedere, della scintilla che dovrebbe accendersi e che invece stenta, arranca, si spegne. Pasolini continua nel suo affondo: «Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia». In questo tempo di ritorno di fascismi in Europa e nel mondo, in questo tentativo di delegittimare la democrazia, umiliando il Parlamento nel nostro Paese, nella sbiadita, inconcludente opposizione di una sinistra amputata di utopia, la denuncia-manifesto di Pasolini si fa da un lato tragica lettura del presente, ma anche “ultima chiamata” per un possibile futuro.
In questo sta la profezia del poeta, dell’intellettuale che però paga di persona il coraggio della propria visione fino a morirne.
LA “BELLEZZA MORALE”
C’è in Pasolini una dimensione misteriosa, mistica, che lo colloca sia in alto, in una visione escatologica del mondo, sia nel basso, nel fondo di una umanità ferita e perduta; in queste assi scomposte che si scontrano c’è la fragile forza del poeta. Il Gesù del suo Il Vangelo secondo Matteo indica in fondo questa umanità possibile, inedita, abitata da un condivisibile divino.
«Io non credo che Cristo sia il figlio di Dio, perché non sono credente – almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini di umanità».
Questa coerenza perfetta del Vangelo tra parola e azione, tra sguardo e decisione, tra poetica e politica matura in Pasolini quell’idea di “bellezza morale” che lo guiderà come una stella.
«Per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia o la filosofia o la politica. Il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro io l’ho sperimentata nel Vangelo». Così scrive a margine del suo capolavoro sul Vangelo di Matteo.
Un’altra opera aveva in mente di realizzare, senza riuscirci. Ci ha lasciato però la sceneggiatura, da cui possiamo trarre qualche pensiero. Si trattava di un film sull’apostolo Paolo. Il nostro poeta è attratto e sorpreso da una schizofrenia che coglie nell’apostolo: da una parte il predicatore, il santo, il profeta; dall’altra il prete, l’organizzatore di una rigida dottrina, l’organizzatore di un sistema religioso violento e chiuso.
“TRASUMANAR” IL MONDO
La Chiesa, dice Pasolini, ma potremmo dire anche la società, la politica, l’economia, qualcuno vorrebbe anche la scuola, ha scelto “l’organizzar al trasumanar”. L’espressione, ci ricorda il poeta, è di Dante, il quale parla “dell’ascesa spirituale” rispetto al suo contrario, cioè l’“altra faccia dell’organizzazione”.
Organizzare la società, la religione, la politica, la scuola senza “trasumanar” significa disumanizzare il mondo, renderlo violento. Organizzare le guerre è la fine dell’umanità.
Se oggi parlo ai miei studenti di Pasolini spesso non sanno chi sia. Non conoscono Scritti corsari o Lettere Luterane. Alla fine prima della maturità Pasolini appare, ma non sempre. Talvolta di fretta, a causa dell’“organizzar” che ha preso anche la scuola. Ecco perché è importante, necessario leggere Pasolini. Leggere le sue lucide critiche al sistema, la sua allergia ad ogni forma di genuflessione a qualunque ideologia, l’impossibilità di incastrarlo dentro uno stereotipo, anche quando diventasse icona, bandiera da sventolare. Leggere Pasolini a scuola è sperimentare la forza della propria libertà intellettuale. Si può dissentire da Pasolini, ma anche dissentendo, leggendolo, si fa un passo in avanti, si decide da che parte si vuole stare nella storia, non delegando per nessuna ragione la propria intelligenza, la propria libertà di pensiero. Perfino le istituzioni possono essere “commoventi”, ha scritto. Penso ad una Repubblica che nasce dalla lotta della Resistenza, dalle macerie causate dal balordo fascismo. Commuove la libertà, la democrazia. Ma se le istituzioni non lo sono più, commoventi, significa che hanno perso la via, hanno tradito l’amore da cui sono sorte.
La scuola potrebbe essere una delle “istituzioni commoventi” nella misura in cui, spesso nella penuria di risorse e nel mancato riconoscimento, diventa officina delle coscienze libere.
Ma torniamo sul litorale di Ostia davanti al corpo massacrato di Pasolini. Avevano cancellato tutti gli indizi, le prove. Un tentativo di derubricare il delitto dal complotto mafioso, politico, e mostrarlo come un regolamento di conti di periferia, di “ragazzi di vita”. «Ma io so».
“Noi sappiamo”, perché lui stesso ci ha insegnato a dubitare, a pensare, «a immaginare», come ha scritto, «tutto ciò che non si sa e si tace».
Uccidere il poeta è un progetto politico, è togliere il contraddittorio alla storia.
A Casarsa, nel suo Friuli, nella terra materna, la sua tomba è avvolta nella siepe di un silenzio.
Bisognerebbe andarci, lassù dove i morti parlano ancora. Raccogliere la voce del poeta, la sua passione in quel Golgota sulle rive del mare.
«Nelle mie fantasie affiorava espressamente il desiderio di imitare Gesù… mi vidi appeso alla croce, inchiodato. I miei fianchi erano succintamente avvolti da quel lembo leggero e un’immensa folla mi guardava. Quel mio pubblico martirio finì col diventare una immagine voluttuosa e un po’ alla volta fui inchiodato con il corpo interamente nudo. Con le braccia aperte, con le mani e piedi inchiodati, io ero perfettamente indifeso, perduto», così scrive Pasolini. In queste parole c’è tutto il segreto di una scomoda verità.