Dignitas infinita e Frankenstein

Il documento Dignitas infinita presenta fin dal suo titolo la metafora principale dell’esperienza di fede, quella di una tensione continua e progressiva verso la sua meta che non può che essere Dio, infinito, come individuato da San Paolo (Fil 3,14) o Gregorio di Nissa (nel concetto di epéktasis).

È apprezzabile il punto di partenza dal quale il documento prende le mosse e al quale torna a fare riferimento ripetutamente riconoscendogli esplicita autorevolezza e cioè la Dichiarazione universale dei diritti umani (10 dicembre 1948). Tale dichiarazione viene riconosciuta come esito di un lungo processo storico di riflessione sulla dignità compiuto anche sotto lo stimolo e il contributo del pensiero cristiano (n. 13), anche se non viene detto che la Chiesa stessa ha avuto difficoltà a riconoscere tale dignità a tutti in modo chiaro ed esaustivo fin dall’inizio.

Di questo progresso il documento prova a ricostruire la storia, inizialmente ricordando le affermazioni fondamentali degli ultimi papi, da Paolo VI a Francesco (nn. 3-6) e poi provando a fondare (piuttosto maldestramente) il concetto di dignità sulla base di una presunta antropologia cristiana (7-16). Le “semplificazioni” al quale il documento è stato sottoposto (come detto nella Presentazione) probabilmente incidono qui. Infatti laddove si vuole fornire una fondazione ontologica all’antropologia cristiana, le argomentazioni risultano indiscutibili solo quando vengono sottolineati degli aspetti di vulnerabilità propri della descrizione biblica degli esseri umani.  Discutibile appare invece il tentativo di riferirsi ad una ontologia almeno per due motivi. Il primo perché non si vuole ammettere che l’esperienza del credente appare nella Bibbia e nei testi cristiani di testimonianza (insomma a livello fenomenologico), come un atto trasformativo dell’esistenza della persona. In tale trasformazione l’identità del credente viene plasmata in modo creativo e perfino rivoluzionario. Un segno di tale convinzione resta nel cambiamento di nome dei personaggi della Bibbia come anche nella prassi ecclesiale del cammino religioso. Per questo motivo occorrerebbe riconoscere che una nozione di natura umana intesa come qualcosa di fissato una volta per sempre (e non si sa poi bene dove), è in fondo anche irrilevante per l’esperienza di fede. In secondo luogo, benché non possa entrare in dettaglio, ad uno sguardo sulla storia della teologia, è noto come la Bibbia non contenga una antropologia, e se qualcosa vicina ad una concezione di essere umano vi appare sporadicamente, si tratta di concezioni spesso molteplici, a volte disparate, riflesso dei diversi contesti vitali e culturali degli autori. Un’antropologia di stampo stoico, per esempio, fu inizialmente preferita dai cristiani dei primi tre secoli perché più facilmente funzionale alla spiegazione della Risurrezione. Ma già a partire dal IV secolo essa fu surclassata a favore di una antropologia di stampo maggiormente platonizzante, prima che fosse Aristotele ad avere la meglio come riferimento per il discorso antropologico e teologico dei medievali (Boezio e Tommaso citati dal nostro testo). Se non si sa fare riferimento alle diversità dei contesti culturali che fanno slittare i significati delle parole, non ci si accorge di usare in modo incongruente il concetto di “razionale” se attribuito allo stesso modo a Boezio, Tommaso, Cartesio e Kant! Così il concetto di “natura” viene assimilato dal Dicastero senza soluzione di continuità ora a quello di “creato”, ora a quello di “creazione”, ora a quello di “ordine naturale” ora a quello di “corpo” (come se lo spirito umano non fosse altrettanto creato).  Al n. 13 vengono affastellate successivamente concezioni antropologiche diverse come quelle rinascimentali, di Cartesio, di Kant (dal quale si sarebbe potuti prendere il concetto di rispetto che, come sottolineava Lepore, poteva meglio servire allo scopo di diventare il motivo compendiario di tutti i diritti umani) e del personalismo novecentesco come se si trattasse di una unica idea uniforme che avesse attraversato la storia in modo intatto. Più che davanti ad una antropologia chiara, ontologica e fondativa, sembra quindi di essere davanti ad un Frankenstein.

Risulta strano che gli Esperti abbiano sorvolato sul fatto che i rinascimentali presentarono almeno due correnti antropologiche differenti: a differenza dei platonici, gli aristotelici in base alla concezione antropologica di Aristotele, ritenevano che l’anima potesse essere ritenuta mortale (cfr. P. Pomponazzi). A ben vedere poi la definizione di essere umano data da Cartesio confliggerebbe con ciò che viene detto nel documento allo stesso n. 24 dove si dice che alcuni intendono persona solo come “un essere capace di ragionare”. Ancora più fumosi risultano i riferimenti al personalismo Novecentesco dimenticando del tutto che l’antropologia che si fonda sul concetto di relazione metterebbe a serio rischio le affermazioni del documento che vogliono fondare un impianto rigidamente ontologico ed essenzialista dell’essere umano (es. nn. 25, 30, 47).

La stessa definizione di Gen 1,27 dell’essere umano come immagine di Dio e di Cristo (cfr. nn.18-20), rende la definizione umana tutt’altro che ontologica. I termini “immagine e somiglianza” in ebraico rimandano ad un’ombra proiettata rispetto all’originale ma anche assai distante da esso. L’altro polo di questo rimando, poi, Dio, del quale per decreto del Decalogo non ci si deve fare immagine, esclude costantemente ogni definizione possibile. Il dato di riferimento risulta pertanto non essere fisso ma dinamico e destinale (secondo quanto afferma Paolo, Rom 5,14 in forma futuri; 1Cor 15,45 eschatos adam) come aveva già detto Tertulliano che ha ispirato la Gaudium e spes laddove afferma “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo.” (22), spiegando così un mistero con un altro mistero.

Non una sola parola viene spesa su quanto la stessa Chiesa abbia faticato a riconoscere dignità piena alle donne o agli schiavi proprio con un uso improprio dei testi biblici come Gen 1,27-28 e di 1Cor 11,7 o di Gen 9,20-27 e Fil.

L’operazione di partire dal tema della dignità, ovvero da una istanza del mondo contemporaneo, per aprire un dialogo con il mondo secolare appare un apprezzabile metodo per un dialogo autentico e fecondo, perché come dice A. Autiero “stimare e valorizzare fattivamente il cammino che l’umanità fa nella percezione della dignità di ogni persona e dei suoi inalienabili diritti è una condizione irrinunciabile per la chiesa.”

Il Documento e Peppiniello

Sulla base di una impostazione quindi che risulta in ultima istanza ontologicamente vaga, il documento perde il suo tono dialogico per trasformarsi in normativo dimenticandosi di quell’apertura orientativa ed euristica che la negazione in- donerebbe a infinita. Così non si limita ad elencare e denunciare molte gravi violazioni della dignità, ma pretende di normarne alcune senza vagliarne a fondo la complessità.

Tra queste si apprezza la denuncia delle violenze economiche della società capitalistica, della guerra che non risolve nulla ma aumenta i problemi (con una presa di distanza anche dalla precedente dottrina cattolica sulla guerra “giusta”, n. 39), degli abusi sessuali anche nella Chiesa (43), della violenza contro le donne (con l’esplicito uso del termine femminicidio n. 46), della tortura e della pena di morte (n.34).

Certo, avremmo voluto vedere accanto alla denuncia dell’uso distorto della ragione nel caso della schiavitù e dei totalitarismi anche la denuncia dell’uso distorto dei testi biblici che hanno giustificato tali aberrazioni come anche quella della caccia alle streghe che però non viene citata. Avremmo voluto ricordare, come aveva già fatto molto bene S. Segoloni nel testo Sorelle tutte, che quanto denunciato da Papa Francesco nella Fratelli tutti al n. 23 e richiamato qui al n. 44 circa l’organizzazione delle “società che sono ancora lontane dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno la stessa dignità e identici diritti degli uomini”, il Papa doveva guardarsi anzitutto in casa.

Ma non si può non denunciare come del tutto pasticciata la trattazione che la Santa sede dedica ad una delle sue più spettacolari e pervicaci sue invenzioni: la teoria del Gender.

Alla questione sono dedicati 5 numeri (55-59) ai quali, per la superficialità di argomentazione, va integrato anche il n. 60 espressamente dedicato alla transizione sessuale.

Oltre alla confusione concettuale tra natura, ordine naturale e corpo già evidenziata sopra, il testo sembra non distinguere tra intersessuali e transessuali: se da una parte infatti accetta l’intervento medico sul corpo degli intersessuali pur di rimetterli in un binarismo sessuale chiaro, benché in loro non sia ancora chiara l’identità di genere (rinunciando a quell’unione tra corpo e spirito invocato appena prima), dall’altra non accetta l’intervento medico per chi questa identità di genere ce l’ha chiara e desidera proprio andare verso quell’unitarietà tra corpo e anima che viene proclamata altrove come inscindibile (proprio perché “il corpo è il luogo vivente in cui l’interiorità dell’anima si vuole dispiegare e si manifestare” n. 60), come hanno fatto notare suor J. Gramick e suor T. Forcades.

Si arriva quasi a pensare che gli Esperti consultati dal Dicastero non siano stati poi così abbastanza esperti almeno in questo campo o forse che “l’abbreviazione e la semplificazione” cui hanno sottoposto il testo per anni abbia cancellato sfumature più complesse ma anche determinanti oppure forse che la cerchia ristretta della Consulta è stata troppo ristretta (ci immaginiamo così pochi uomini celibi a parlare di aborto), perché alla fine tra abbreviazioni, semplificazioni, emendazioni e modifiche durate cinque anni, come si legge nella Presentazione, il Documento Dignitas Infinita sembra essersi perso il dibattito più recente sugli Studi di genere.

A leggere ancora una volta che la teoria del gender «prospetta una società̀ senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia» il Dicastero mi appare come il piccolo Peppiniello del film di Totò Miseria e Nobiltà che aveva indicazioni precise di rispondere a qualsiasi tipo di domanda da chiunque arrivasse: “Vicienzo m’è pate a me”.

Rimane l’ideologia dell’ideologia del gender

Certo qualche aggiustata rispetto a trent’anni è stata data: sono stati infatti in qualche modo “scorporati” da questa Teoria del Gender la dignità delle persone omoaffettive (che non si nega), la distinzione sex-gender (che però non appare avere nessun impatto sulla comprensione vaticana delle teorie di genere), infine anche la questione del cambio di sesso che ha meritato un capitolo a parte. Ma l’invenzione cattolica di questa teoria continua a far dire alla Chiesa in modo indefesso che la teoria del gender vorrebbe eliminare le differenze, gettando indirettamente scredito sugli Studi di genere che invece sono nati proprio per valorizzare fino in fondo le differenze. L’unica uguaglianza infatti che questi intendono affermare è condivisa con il documento magisteriale e cioè l’uguaglianza di dignità, opportunità e diritti di tutte le persone.

Come può ancora un testo della Congregazione per la Dottrina della fede, per altri versi eccezionale quando prende posizione su questioni come guerre, sfruttamento, povertà, accoglienza e tortura, arroccarsi su una costruzione così ideologica (l’ideologia dell’ideologia del gender, come dice Lucia Vantini) senza dimostrare la minima intenzione di provare a misurarsi con decenni di discussioni, spiegazioni, avanzamento dei dibattiti, anche interni alla teologia cattolica, e accontentarsi di ripetere di fonte alla vastissima gamma di temi implicati dalla sessualità umana che l’”Ideologia del Gender vuole eliminare le distinzioni”?

Ci si chiede: ma questa gente a chi parla? Dove vive? Con chi si confronta? Davvero c’è voglia negli uffici Vaticani e nelle università teologiche di confrontarsi su questi argomenti con studi seri o non si è solo presi a inventare teorie complottistiche per poter continuare a mantenere e normare su materie sulle quali si è persa oramai da tempo competenza?

Io non posso che constatare con tristezza che in questo, come in altri luoghi dell’esperienza umana, la Chiesa ha perso la presa e non può quindi più pretendere di essere ascoltata.

È stato fatto notare (A. Rubera) che il modo in cui si parla dei bambini considerati “oggetti” dai genitori che li hanno desiderati è svilente, creando alla lunga per quei bambini uno stigma sociale inaccettabile.

Infine ci sono contraddizioni inaccettabili in questo testo come quando dopo aver ammesso che alla comprensione delle implicazioni della dignità umana ci si è arrivati nel tempo e che si tratta di un processo non concluso (32) si inizia ad accusare la società di produrre distorsioni di significato (24) o il voler introdurre nuovi diritti. Perché mai i diritti non potrebbero essere ancora scoperti e focalizzati meglio nel corso dell’evoluzione umana dal momento che la Chiesa stessa ha riconosciuto piena dignità alle donne solo di recente? Non fa parte questa evoluzione di quel processo infinito di valorizzazione della persona legato ad uno sforzo e ad un progresso che non ha delimitazione se non in Dio? Scrive ancora A. Autiero: “L’aggettivo “infinita” presente nel titolo non sta a dire solo che la dignità non ha limiti e non ha condizioni, ma dice anche che il suo riconoscimento è legato a uno sforzo e a un compito che non sono ancora finiti e non lo saranno mai.”