Dante: il divino in corpo

Di Dante ci si può innamorare? Nella maggior parte dei casi, a scuola no. Sembra essere un personaggio di un altro mondo, altro linguaggio, altra pasta. È più facile ri-innamorarsi di Dante quando usciti dalla scuola lo si riprende, magari dentro certi snodi della vita. Allora si può scoprire che il nostro linguaggio nasce dal suo, intendo per noi occidentali almeno, nati o vissuti nel Belpaese. Scoprire insomma che non siamo fatti di una pasta diversa della sua. Poeta, pensatore, fantasista, e perfino teologo, il nostrο Alighieri può continuare a provocarci.

Il Dante che ho in mente non è il poeta di élite, è piuttosto un capo-popolo, uno che mette in versi ciò che noi riusciamo solo a balbettare, eppure che ci appartiene, ci attraversa.

Chi di noi non si è trovato “nel mezzo del cammino” a fare un punto sul suo viaggio, a chiedersi dove lo avrebbe portato la sua storia? Proprio in certi viaggi iniziatici, ovvero quelli più misteriosi e necessari della vita, si possono trovare tre fiere come è capitato a lui: la lonza, il leone e la lupa magra. Sono metafore delle nostre ombre, delle nostre inquietudini, delle paure che potrebbero farci desistere da intraprendere il viaggio. Non sono solo simbolo di malattie personali, ma di patologie sociali, politiche, di cui oggi è afflitto il mondo. La seduzione della Lonza: l’incantamento di un modo effimero, inconsistente. E il leone, che solo con la sua criniera fa tremare l’aria, dice l’orgoglio, il delirio di onnipotenza. Nel tempo, poi, le criniere si trasformano. Non è difficile guardare in quest’ottica quella di Trump ad esempio, la criniera carota, del viziato, capriccioso, delirante presidente degli Stati Uniti. Ma è soprattutto la lupa magra, la “cupidigia rerum”, che disegna un sistema in cui non si è mai sazi, e più si accumula, più si accumulerebbe. La metafora di un sistema in cui si fabbrica l’inferno dei poveri per garantire il paradiso dei ricchi.

E la teologia, questa scienza così poco presente nel dibattito pubblico, è anch’essa un bene necessario che Dante ci propone?

Se si facesse uscire la teologia dagli stretti corridoi dei seminari e dei conventi, si direbbe di sì. Perché oggi la gente comune, di fronte all’incertezza, alla precarietà, alla questione capitale del male, al timore di saltare in aria con una bomba atomica, si pone quotidianamente le “domande ultime”. O quelle “penultime”, come dice Giorgio Agamben.

Davanti alla vita che viene aggredita da un male invisibile e pervasivo, o alla guerra mondiale a pezzetti, la gente inizia a fare “teologia pratica” quando si domanda che senso ha stare in questo mondo, se c’è un Dio, e come si possa conciliare la somma bontà con il persistente male. E cosa c’entra Dante in tutto questo?

Dante, oggi, diventa idealmente il compagno delle “domande ultime”. E lo fa da una esperienza esistenziale che dà forma e sostanza alla sua poesia, al suo pensiero, alla sua teologia: l’esilio. Oggi l’esilio ritorna ad essere un’esperienza comune.

Ora, se non tutti devono lasciare le loro città, come è stato per Dante, oggi in una certa misura sentiamo l’esilio come un essere “senza patria” dentro di noi. L’esilio come una “condizione spirituale”.

«L’essilio che m’è dato, onor mi tegno», scrive Dante (Rime, 47, CIV, v. 76).

In questo tempo in cui siamo entrati – forse per la prima volta – in una “selva oscura” globalizzata, Dante ci indica alcuni punti per orientarci.

Ricordandoci che i mondi, prima di tutto, vanno attraversati. Per attraversarli però bisogna essere “iniziati”, soprattutto nella dimensione simbolica della vita, cioè la più profonda.

Se vogliamo compiere questo viaggio senza “smarrirci” o senza essere aggrediti dagli animali feroci, dobbiamo però farci accompagnare. Quella che Dante sembra indicarci è una teologia della relazione. Non si può andare verso l’Alto senza andare verso l’Altro. Senza i nostri Virgilio, Bernardo o Beatrice. L’altro diventa la via di accesso al mistero, alla vita, che si può chiamare “Dio”. La questione-Dio, al di là delle diverse interpretazioni, non è un fatto privato, dunque. È un fatto pubblico. È una questione “politica”, come sosteneva Romano Guardini.

 Ma se “Dio” è pubblico, lo è nonostante la religione. Fa parte cioè del paesaggio più profondo e intimo della vita. Non è il Dio pubblico dei Teocon, merce di scambio, denaro da puntare in borsa. È pubblico come lo è una fontana in mezzo ad una piazza. Per rispondere alla nostra sete, la sete di tutti, di tutte.

Il cammino religioso della vita, nella scoperta di sé e del mondo, non coincide con la religione e le sue strutture. Anzi, qualche volta per scoprire il vero cuore religioso della propria coscienza è necessario prendere le distanze da una religione pervasiva e autoritaria. Dante non è, come qualcuno ha scritto, il fondatore del pensiero di destra. Ha fondato piuttosto quel modo di stare aderenti alla propria coscienza esiliata e lì scegliere la libertà.

Oltre che una teologia della relazione, Dante ci insegna una teologia del corpo.

Non si va all’altro mondo senza il corpo. Non si attraversano gli inferni del mondo e della storia senza la carne. Non è sufficiente l’“Itinerarium mentis in Deum” di Bonaventura. Figli e figlie di un pensiero che ha essiccato il corpo, oggi sentiamo una struggente nostalgia della carnalità della vita. La sua dimensione terrestre non può più essere in antitesi con la via celeste.

Per questo, parlare di ecologia, di politica, di diritti umani è parlare in qualche modo della dimensione più “divina” della vita.

Lì, il verbo davvero si fa carne.

Non un amore mentale, astratto, dunque, tantomeno un amore virtuale, ma un amore che incarna il divino nel colore degli occhi, nella perfetta geometria di una mano, nel timbro inconfondibile di una voce.

La poesia è in fondo un modo dell’incarnazione divina. Il verbo lì si fa carne.

In questo, Dante è un Teo-poeta, come ci ha insegnato a dire Ruben Alves.

Dante poeta e teologo ci ricorda che ogni volta che attraversiamo le domande profonde della vita condividiamo il poetico e il teologico che ci abitano.

Infine, Dante ci ricorda il senso vero della laicità.

Dante non è politicamente schierato con i Guelfi, non è d’accordo che sia il papa a dover dominare il mondo. Arriva a mettere Bonifacio VIII, che è in parte responsabile del suo esilio, da vivo, all’inferno.

Non per questo rinuncia però a essere un cittadino libero e un uomo amante del Vangelo. Anzi, più si allontana dagli intrighi di una Chiesa corrotta più si avvicina alla luce della propria coscienza, toccando così il mantello di Dio.

Essere cittadini appassionati e liberi, non genuflessi, non devoti a un potere occulto: Dante ci consegna una sorta di teologia della cittadinanza.

Alla fine del viaggio il nostro Teo-poeta, dentro il luminoso cerchio che racchiude il mistero trinitario di Dio, vede qualcosa di inaspettato e commovente: «Dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effige; / per che ‘l mio viso in lei tutto era messo» (Paradiso XXXIII, vv. 130-132).

Quel volto del Teo-poeta è quello di ciascuno e ciascuna di noi.

Di noi tutti in qualche modo, come lui, esiliati.

Nessuna teologia può parlare più di Dio senza mettere al centro il volto umano. Ma anche gli animali e gli alberi.

Dante è il capocordata di una possibile teologia pubblica che metta al centro il canto del mondo.

Ecco perché anche rileggere la Divina Commedia può essere oggi tra le cose urgenti ed essenziali, per non smarrirsi…

Ha scritto Jorge Luis Borges, critico incantato di Dante, da poeta e poeta: «La Commedia è un libro che tutti dovremmo leggere. Non farlo significa privarci del dono più grande che la letteratura può farci».

Mentre scrivo questo articolo ci raggiunge la notizia della morte di Goffredo Fofi, uno degli ultimi intellettuali che ha vissuto la letteratura come atto di resistenza alla banalità, alla stupidità. Lui ci ha insegnato che la letteratura “squaderna” e rimette in cammino la vita. Che la letteratura è “cibo per tutti”. E tutti, tutte siamo affamati…