La ferita e il canto
Castillo e la nostra felicità
«Quanto vi è di più profondo, ed intimamente sperimentato nella vita di ciascuno, caducità, malattia, morte, vanità di opinioni e convinzioni, non può essere espresso nel linguaggio della teologia, le cui risposte limate nell’arco dei secoli sono come sfere perfettamente lisce, facili da far rotolare, ma praticamente impenetrabili». Così scriveva Czeslaw Milosz ( Nobel per la Letteratura 1980).
Di quale teologia parlava? Certamente non quella di Josè Maria Castillo, teologo visionario morto improvvisamente a 94 anni nella sua Granada, il 12 novembre. Per tutta la vita Castillo è stato il “Don Chisciotte della Teologia”. Ogni mattina, come diceva la sua conterranea Maria Zambrano, Castillo come il Chisciotte usciva all’alba. Ed è questo suo attendere e sperare l’alba che lo ha reso il pensatore dallo sguardo penetrante e al contempo il fanciullo dal cuore libero e gioioso. Un don Chisciotte come “figura cristica”, secondo l’interpretazione di Miguel de Unamuno, «che non si rassegna né al mondo, né alla sua verità, né alla scienza o alla logica, né all’arte o all’estetica, né alla morale o all’etica». «Qual è dunque la missione di don Chisciotte nel mondo attuale?», si chiede il grande critico spagnolo. «Gridare, gridare nel deserto».
Il grido donchisciottesco di Castillo è stato la denuncia contro il disumano, che diventa poi canzone per l’umano e per il divino che nell’umano si rivela. Il primo a dover essere liberato è proprio Dio, preso in ostaggio da un sistema religioso, che ne ha fatto un giudice onnipotente e privo di tenerezza. Ma il Dio che Castillo cerca di liberare è quello a cui sta a cuore la felicità degli esseri umani e la felicità stessa del creato.
Qual è la relazione tra «Dio e la nostra felicità»? Castillo nella sua teologia invita a decostruire l’immagine sbagliata di dio, che ha causato oppressione, violenza e morte e a ritrovare l’immagine sorgiva di un Dio a cui sta a cuore la nostra felicità; Dio come complice della nostra felicità. «È possibile raggiungere la pienezza del “divino”», scrive, «solo nella misura in cui ci impegniamo nel conseguire la pienezza dell’“umano”. Cioè, diventiamo più divini nella misura in cui diventiamo più umani». C’è per Castillo una incompatibilità tra la “Religione” e il “Vangelo”, per cui più ci si lascia provocare dalla “Buona Novella” più ci si libera dalla Religione che ci impedisce di crescere e di essere liberi e pensanti.
Ma come fa un teologo a “liberare Dio”? Deve prima di tutto “liberare la teologia”. Una teologia funzionale al sistema della Religione mette al primo posto il “corpo del sistema”. Castillo decide che per rinnovare la teologia bisogna mettere il proprio corpo di traverso. Ma tale operazione non può essere indolore. Il sistema della religione che ha emarginato il vangelo emarginerà e punirà a sua volta coloro che rimettono al centro il vangelo.
Come per il profeta biblico non ci può essere separazione tra la sua profezia e il proprio destino. Mettendo in gioco il “corpo” della propria teologia, Castillo mette a rischio il suo stesso corpo, la sua stessa vita. «Sono stato espulso dalla facoltà di teologia e le autorità ecclesiastiche romane mi ritirarono la “venia docendi” o “il permesso di insegnamento” nelle istituzioni ecclesiastiche nell’aprile del 1988. Il 16 novembre 1989 sei preti gesuiti e due donne furono assassinati nel campo universitario del centro America nel Salvador». Così scrive nel suo libro “Memorias”.
Ogni anno Castillo, per molto tempo, farà la spola tra Spagna e il Salvador per offrire il suo insegnamento teologico nella terra insanguinata di monsignor Romero. Andare a “sostituire” i teologi massacrati dagli squadroni della morte significava accettare anche il rischio, assumere non solo intellettualmente, ma esistenzialmente, lo stesso destino.
Nell’introdurre il suo libro “I poveri e la teologia” scriveva: «Una delle cose più preoccupanti che stiamo vivendo nella chiesa è l’impoverimento della teologia. Senza timore di esagerare si può dire che almeno nella chiesa cattolica questo impoverimento raggiunge le dimensioni di una crisi le cui conseguenze sono incalcolabili». Dopo i grandi teologi che avevano preparato e attraversato il Concilio (Rahner, Congar, Chenu, De Lubac, Haring…) «nella chiesa cattolica è andata smarrita la creatività teologica, frutto di una libertà di pensare e parlare che non esiste più», così che «spesso i professori di teologia sono preoccupati di non dire qualcosa che possa dispiacere a Roma più che di rispondere ai molti e gravissimi interrogativi che le persone si pongono a proposito di Dio, della religione, della chiesa, della morale…».
Ci vuole, dice Castillo, “audacia” e “libertà” per uscire dal sistema del sacro, riscoprendo la “laicità del vangelo”. La stessa “laicità” che ha impedito a Gesù di non essere prigioniero della religione ma libero di pensare e agire. Scrive: «il Vangelo è un libro di religione o la storia di un conflitto mortale con la religione? Lungo tutta la vita di Gesù, i conflitti con i sacerdoti, i dottori della legge, i farisei, il tempio, le osservanze e le norme religiose, sono stati sistematici. Dunque si può seriamente pensare a un cristianesimo “non religioso”?
Le donne e gli uomini di oggi sono assetati di bellezza e di giustizia e cercano in forme diverse la “trascendenza». Ma dove si trova la “trascendenza”?
Scrive Castillo: «Cercare il trascendente nella profondità e a partire dalla profondità dell’umano. Il che equivale a dire: la questione determinante per i cristiani sta nel cercare Dio e credere nella trascendenza di Dio a partire dalla solidarietà con le vittime, con i crocifissi di questo mondo… con tutti coloro che (…) necessitano di comprensione, tolleranza, compagnia e amore».
Per Castillo diventa intollerabile una religione che usa il Vangelo per giustificare la morale del sistema religioso. Scrive: «Quel che più mi irrita è che pretendiamo di dare ai problemi morali che oggi si pongono soluzioni che Gesù avrebbe mai dato».
Il “declino” della Religione, scriverà nel suo ultimo libro, sarà inversamente proporzionale al “futuro del Vangelo”. La stessa Chiesa oggi deve decidere cosa vuole scegliere.
Josè Maria Castillo aveva incontrato Papa Francesco, che lo aveva incoraggiato a continuare il suo lavoro teologico e quella profezia che il papa argentino aveva appreso anche dalla teologia e dalla vita del Teologo di Granada.
L’ultimo giorno della sua vita Castillo era uscito come don Chisciotte insieme all’alba. Si addormenterà alla fine dolcemente sulla spalla di Margarita Orozco, la donna, che aveva incontrato sulla strada dell’utopia e del sogno.
Anche per me “Pepe” Castillo era un amico struggente e un Maestro insostituibile. La mia poetica si rispecchia nella sua teologia. Quando mi trovai nel mio piccolo a lottare con la “Religione” di cui parla e il suo potere, Pepe era lì, vicino, solidale. Lui credeva in quanto scrive Buber ne I racconti dei Hassidim: «Se qualcuno è finito nel pantano – dice il Baalshem – e il suo compagno vuole tirarlo fuori, deve sporcarsi un po’».
Così faceva il teologo Castillo, occupandosi della vita degli altri e della loro felicità. Per questo, parafrasando uno dei suoi libri, potremmo dire infine: “Castillo e la nostra felicità”