Guerra e pace
I due papi

Francesco e Leone, due cristiani sul trono di Pietro, due papi così simili per tenerezza, santità e grazia, eppure così diversi per origine, famiglia religiosa e la stessa scelta del nome.
Già all’esordio del nuovo pontificato si può cogliere quella che è forse la differenza maggiore tra i due: un certo distacco, una più netta distinzione tra Chiesa e mondo, tra fede e storia, tra popolo di Dio e umanità tutta intera. Leone risponde al pessimismo agostiniano della massa dannata (Rahner), appellandosi a quanti siamo “chiamati col nostro Battesimo a costruire l’edificio di Dio”, Francesco per popolo di Dio intendeva Todos, Todos, fino a immaginare un inferno vuoto. Leone si pone come guida di una Chiesa città sul monte, intenta a pescare l’umanità dalle acque del male e della morte, Francesco vedeva una Chiesa mischiata col mondo, ospedale da campo in cui la misericordia precede il peccato, Dio anticipa l’uomo nel suo amore. Leone si presenta ai fedeli come “servo della vostra fede e della vostra gioia”, Francesco si faceva servo lavando piedi siriani, nigeriani, pakistani, a musulmani e non credenti. Per Leone si tratta di “guardare lontano”, per andare incontro alle sfide del mondo e farsi “inquietare” dalla storia d’oggi; Francesco per prima cosa andò a Lampedusa, ogni sera telefonava a Gaza, scrisse che dal Gemelli la guerra era ancora più assurda.
Alle fonti di queste identità e differenze c’è anche la diversità tra Gesuiti e Agostiniani, e le due età che essi idealmente rappresentano. Agostino sta all’inizio di un cristianesimo legittimato dall’Impero, ha 31 anni quando Teodosio emana i decreti per l’interdizione del paganesimo e quando con il Concilio di Costantinopoli si perfeziona la struttura teologica della fede cristica e trinitaria; è al tempo di Agostino l’incipit del regime costantiniano o di cristianità, che finirà solo col Concilio Vaticano II; è al tempo di Agostino che la rovina del vecchio mondo umano mostra in tutta la sua luce le meraviglie dell’agognata agostiniana città di Dio. Dunque siamo a un inizio.
Non così con Ignazio e la Compagnia di Gesù, che arrivano mille anni dopo già come testimoni di una fine, fine dell’unità cristiana, per le guerre tra i principi cristiani, fine dell’unità della Chiesa per l’irrompere della riforma protestante, fine della libertà dalla legge, per l’imperversare dell’Inquisizione, e un Dio già consumato che il Concilio di Trento tende a restaurare: ciò a cui i Gesuiti rispondono senza rete con la missione a convertire i popoli più lontani, con l’investirsi della responsabilità del mondo, con l’obbedienza al papa fino all’estremo. Dunque siamo piuttosto a una stretta finale, ai dolori di un parto. Anche papa Francesco ha avvertito il dramma di una cultura e forse di una antropologia della fine: le lancette dell’orologio spostate dai fisici fino a pochi secondi prima dell’ecatombe nucleare, la fine annunciata per la crisi del clima e il dissesto ecologico, la fine dell’unità umana dilacerata dalla cultura dello scarto, la guerra mondiale a pezzi, l’antisemitismo suicida di Israele, il genocidio in corso. E di fronte a questi presagi della fine Francesco ha intonato la lode francescana del creato, ha promulgato il “Fratelli tutti” che attribuisce alla sapienza divina anche lo scandalo della pluralità delle religioni e ha proposto una teologia escatologica pronunziando le ultime parole dopo le quali non può più esserci storia: “Hanno bombardato i bambini. Questa è crudeltà, non è guerra”.
Papa Leone riparte da lì, ma non per chiudere, bensì per proporre l’idea che tutto possa cominciare di nuovo. Non un mondo “dopo Dio”, ma un mondo che ancora lo attende, un mondo “prima di Dio”.