Psicologia
La psiche e la guerra
Sappiamo molto bene quali sono le conseguenze della guerra: morti, mutilati, distruzioni, povertà, devastazione del territorio, rottura dei legami sociali… L’impatto della guerra sulla psiche è altrettanto devastante sia per chi lo vive direttamente (i soldati e le vittime civili) sia per chi viene toccato indirettamente (le famiglie e le comunità). Più il conflitto è duro, pesante e lungo, minore è il sostegno sociale, più pesanti saranno le conseguenze della guerra.
I DANNI PSICOLOGICI
La guerra è una esperienza traumatica devastante. La conseguenza psicologica più evidente è il disturbo da stress post traumatico. Flashback, incubi, ansia intensa e reazioni fisiologiche automatiche quando i ricordi emergono. I reduci spesso vivono un grave distacco emotivo, diventano incapaci di provare piacere e gusto per la vita, come se fossero morti dentro l’anima. Il sonno sarà disturbato, popolato di incubi e i flashback, che lasciano irritati, affaticati e deconcentrati, come sbalorditi. L’insicurezza e il senso di impotenza vissuti lasciano una sequela di disperazione, stanchezza mentale e mancanza di speranza. E i lutti e la povertà portano con sé tristezza e sconforto, ansia e disturbi depressivi. L’incapacità di provare empatia o rispondere emotivamente agli eventi quotidiani, che difende dal contatto con la sofferenza e l’orrore, impatta sulle relazioni sociali e affettive, condannando alla solitudine invece che alla solidarietà. La dissociazione (sentirsi “separati” dalla propria esperienza), la rimozione o il blocco di ricordi dolorosi, mettono la mente al riparo dal trauma, ma ne ostacolano l’elaborazione.
Essere stati esposi a tanta violenza e alle brutalità della guerra rende reattivi, aggressivi e irritabili, e l’adattamento alla vita civile dopo la guerra può risultare difficile, in particolare per chi ha combattuto.
I sopravvissuti, sia soldati che civili, possono sentirsi in colpa e provare vergogna per le azioni compiute in guerra, ancor più quando sono stati violati valori morali personali. Il trauma morale ha effetti a lungo termine sulla salute della psiche e sulla capacità di integrarsi nella società. Ma anche perdere il senso di appartenenza, il senso di identità e lo scopo che le strutture militari garantiscono, comporta un senso di alienazione e isolamento e molti ex soldati non riescono a sentirsi compresi, con difficoltà importanti rispetto al processo di reinserimento nella vita civile.
Sulla psiche dei bambini, la paura, la perdita di stabilità e il senso di impotenza sono particolarmente devastanti, fino a ritardi nello sviluppo emotivo e sociale, fino a comportamenti aggressivi e antisociali nel futuro.
Ma le conseguenze della guerra non si fermano alle vittime dirette e indirette: si estendono alle generazioni successive, perché la mancata elaborazione del trauma può influenzare i figli di chi ha vissuto la guerra, creando un effetto domino che si trasmette attraverso comportamenti, valori e paure. Il trauma diventa transgenerazionale, minando il benessere psichico e sociale delle generazioni future.
In presenza di supporti sociali adeguati, alcune persone e alcune comunità possono sviluppare buoni processi di resilienza e avviare quella che chiamiamo crescita post-traumatica, con una maggiore consapevolezza di sé, la riscoperta di valori fondamentali e una nuova capacità di apprezzare la vita. Se però manca il supporto sociale, se mancano reti di sostegno e cure psicologiche di massa e adeguate nel breve termine, programmi per il reinserimento e gruppi di aiuto, questo sviluppo sarà bloccato.
LA GUERRA È “NATURALE” PER LA PSICHE?
L’aggressività umana e il comportamento violento sono intrinseci alla natura umana o sono il risultato di influenze esterne e sociali?
Cominciamo con Freud, che ipotizzava l’esistenza di una pulsione alla distruzione o “pulsione di morte” che sarebbe alla base dell’aggressività e della violenza. Una pulsione che si oppone alla “pulsione di vita”, alla creatività, alla costruzione di legami sociali e affettivi. Per Freud, quindi, l’essere umano avrebbe un impulso intrinseco sia verso la creazione che verso la distruzione. Freud vedeva la guerra come una manifestazione collettiva di Thanatos, un’espressione di questa pulsione di distruzione che emerge in forma organizzata.
Anche Konrad Lorenz, dal lato dell’etologia, ha studiato il ruolo evolutivo dell’aggressività in tutte le specie animali, compreso l’essere umano, e la descriveva come un istinto biologico, al servizio della sopravvivenza, della difesa del territorio e della protezione della specie. Lorenz osservava anche come negli animali esistano meccanismi che frenano l’aggressività e evitano che la propria specie venga distrutta, mentre tra gli umani questi freni sono meno potenti, e l’aggressività può prendere la forma di guerre devastanti.
La prospettiva evoluzionista ha rilevato come la tendenza al conflitto nelle epoche arcaiche potesse rappresentare un vantaggio per accedere alle risorse, alla sopravvivenza e alla trasmissione dei geni dei più forti, e la guerra e l’aggressività potrebbero quindi aver avuto un ruolo adattivo nel processo di evoluzione, selezionando individui che avessero capacità maggiori di proteggere il proprio gruppo. Tuttavia, gli stessi scienziati sottolineano come non si possa affermare che la guerra sia inevitabile o che l’essere umano sia “naturalmente portato” alla distruzione, in quanto la capacità di cooperare, l’empatia e la possibilità di vivere in comunità pacifiche è anch’essa parte della natura umana, e ha avuto un esito evolutivo molto favorevole, poiché ha permesso la costruzione di società complesse e organizzate.
LA GUERRA SI IMPARA
La prospettiva della psicologia sociale tende invece a vedere la guerra e la violenza non come espressioni di un istinto innato, ma piuttosto come il risultato di apprendimenti e adattamenti, frutto di influenze culturali, sociali e ambientali. I comportamenti aggressivi, quindi, come la maggior parte dei comportamenti sociali umani, vengono descritti più come appresi che come innati.
Sono le situazioni di deprivazione, così come quelle in cui si subisce una minaccia o una oppressione, insieme a condizionamenti culturali e ideologici, ad attivare nelle persone e nelle loro aggregazioni sociali atteggiamenti aggressivi e bellicosi. La guerra, quindi, sarebbe il prodotto di scelte e situazioni politiche e sociali, un frutto della cultura e della società, piuttosto che una tendenza innata alla distruzione.
Anche l’approccio antropologico e culturale descrive la guerra non come una necessità naturale, ma come una costruzione sociale. Lo dimostra la storia: molte culture hanno vissuto a lungo in pace ed è l’organizzazione sociale il maggior fattore di influenza sulle inclinazioni aggressive o pacifiche degli individui.
La guerra allora è il risultato di valori e strutture di potere che educano gli individui a percepire l’altro come nemico o minaccia. A supporto della giustificazione della guerra e della sua necessità ci sono sempre ideologie di superiorità, di nazionalismo o fondamentalismi religiosi, c’è sempre una stigmatizzazione e svalutazione delle differenze, c’è sempre una polarizzazione tra “noi” e “loro”, c’è sempre la creazione di un nemico esterno, la proiezione della parte “ombra” della collettività su una categoria particolare di soggetti o su un intero popolo.
Dal lato della psicologia, Dollard e Miller hanno a loro volta studiato l’aggressività e hanno rilevato come essa sia una risposta alla frustrazione, piuttosto che una pulsione innata. Quando ci si sente ostacolati nel raggiungimento dei propri obiettivi, se mancano sistemi individuali e sociali di contenimento, espressione adattiva, elaborazione ed educazione, la frustrazione può venire vissuta come intollerabile e può indurre a sviluppare comportamenti aggressivi.
Nel contesto della guerra, il conflitto può essere visto come il risultato di frustrazioni collettive, come la mancanza di risorse, l’oppressione economica o le ingiustizie sociali, che spingono i gruppi a comportamenti autoprotettivi violenti o direttamente distruttivi.
Su temi di così vasta portata si sono impegnate anche le neuroscienze, che attraverso la ricerca hanno evidenziato come nelle risposte aggressive siano coinvolte alcune aree del cervello, come l’amigdala. Tuttavia, la ricerca stessa ha mostrato come nel cervello umano siano presenti anche aree deputate al controllo delle emozioni e alla regolazione del comportamento, come la corteccia prefrontale. Quindi a livello neurobiologico troviamo predisposti alcuni meccanismi di base per lo sviluppo dell’aggressività, ma gli studi mostrano come l’aggressività non sia affatto inevitabile: le esperienze sociali, l’educazione e l’ambiente giocano un ruolo cruciale rispetto alla forma e alla direzione in cui queste tendenze si sviluppano e si esprimono.
Una prospettiva integrativa suggerisce che, quantunque come esseri umani possiamo rintracciare nel nostro cervello una predisposizione all’aggressività e alla competizione, e anche alla risposta impulsiva violenta quando ci sentiamo gravemente minacciati, possediamo nelle nostre strutture neurobiologiche anche capacità avanzate di autoregolazione, di empatia, di ingaggio sociale e cooperazione.
La guerra allora non è affatto una necessità biologica, né tanto meno una pulsione ineluttabile, ma una scelta specifica, influenzata, predisposta e alimentata da decisioni politiche, economiche e culturali. L’essere umano è capace di costruire relazioni pacifiche, e la tendenza alla pace e alla cooperazione è altrettanto forte quanto quella alla competizione.
LA GUERRA È EVITABILE
La psicologia contemporanea tende a considerare i comportamenti umani violenti e distruttivi, e quindi la guerra, come il risultato di un complesso insieme di fattori biologici, psicologici, sociali e culturali, piuttosto che l’esito incontrollabile di una pulsione innata. Sebbene esistano inclinazioni all’aggressività, l’essere umano possiede anche una forte capacità di vivere pacificamente, come è dimostrato dalla storia di molte culture e società pacifiche. La guerra, quindi, non è inevitabile: è una scelta che dipende da fattori modificabili, come la politica, l’educazione e la struttura sociale.
Come esseri umani, disponiamo sia del potenziale per il conflitto che del potenziale per la pace. Lavorare per la promozione di una cultura di pace, basata sulla comprensione reciproca, sulla ricerca e la pratica del dialogo, sulla gestione costruttiva dei conflitti, sull’educazione alla regolazione emotiva, sull’educazione alla nonviolenza e sulla valorizzazione e il rispetto dei diritti umani: questo intento e questo impegno collettivo possono contenere e indirizzare le pulsioni aggressive e creare le condizioni psico-sociali per costruire di una società più pacifica.
Dobbiamo imparare a vivere insieme come fratelli, o periremo insieme come stolti (Martin Luther King)