Pace a voi: i nemici non esistono

Robert Fludd, Anima mundi, 1617

Le ricerche della fisica teorica anelano alla cosiddetta “teoria del Tutto”, per mettere insieme la Relatività Generale e la Teoria Quantistica del Campi, risolvendo scientificamente l’intuizione della connessione tra macrocosmo (pianeti, stelle, galassie …) e microcosmo (atomi, particelle subatomiche…). Se la Relatività Generale ha a che fare con campi continui – pur avendo dimostrato l’inesattezza della concezione deterministica della fisica classica -, dall’altro lato la teoria quantistica osserva campi discreti, discontinui, ovvero una realtà granulare e indeterminata[1]. Sorprende constatare come questo orizzonte scientifico di comprensione unitaria della realtà tutta, entri in risonanza con molte intuizioni filosofiche e spirituali antiche – trasversali a diverse culture – vòlte a mostrare la connessione del tutto e la sua sostanziale unità. Si pensi, solo per citare pochissimi esempi, alla filosofia pitagorica con la sua idea di armonia matematica universale, all’Anima del mondo di cui parla Plotino che vede la natura come un organismo vivente, ma anche all’induismo con i cinque elementi che costituiscono sia il macro che il microcosmo, o al taoismo in cui ying e yang sono gli opposti presenti ad ogni livello del reale. Potremmo continuare. Per dire che la coscienza umana percepisce che tutto è Uno, come suggerito anche dal più mistico tra i Vangeli: «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa» (Gv 17,21-22). Tutto è in Dio ed è una cosa sola.

In quest’ottica di interconnessione, possiamo lasciarci ulteriormente ispirare dallo psicoanalista Carl Gustav Jung, il quale, nel Libro rosso, narra un episodio emblematico. Nell’ottobre del 1913 Jung descrive un sogno in cui vede l’Europa sommersa da una gigantesca marea, con morti, cadaveri, devastazioni, e in un primo momento lo interpreta solamente in chiave psicologica, alla luce delle sue dinamiche personali interiori, salvo constatare pochi mesi dopo … l’inizio della prima guerra mondiale. Questo evento di corrispondenza interno-esterno orienterà il suo successivo lavoro di indagine del rapporto tra coscienza e inconscio, e tra inconscio personale e inconscio collettivo, fornendo chiavi di lettura molto feconde anche per noi oggi.

Il nostro cuore ambivalente

L’attuale congiuntura storica è segnata pesantemente dalla guerra, con i relativi timori di una sua espansione incontrollata. Siamo consapevoli che quanto avviene a livello globale ha una ricaduta a livello locale (si parla oggi infatti di “glocalizzazione” e non più solo di globalizzazione), e dobbiamo riconoscere anche il meccanismo inverso: quanto avviene nel “mio piccolo” rispecchia ed influisce su quanto avviene nel “grande”. La violenza della guerra abita anzitutto i nostri cuori: «Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie.» (Mt 15,19). Così come nel cuore abita anche l’anelito universale alla pace.

Chiediamoci allora: da dove viene la violenza? Da una crisi di identità: «ogni volta che uno strumento del pensiero di sé è minacciato di scomparsa o di fusione, o anche di ibridazione, l’individuo può sentire che la sua identità è messa a rischio, al punto da non riuscire più a differenziarsi dalle modalità con cui l’identità si manifesta. È questo il senso di tutte le guerre, vòlte a riconquistare una percezione chiara di sé. La violenza è il prezzo esorbitante che l’uomo in crisi di identità paga per assicurarsi una sopravvivenza e diventare parte di una storia personale o collettiva che gli permetta di rinforzare le modalità di manifestazione di sé o del gruppo con cui si relaziona» [2]. L’altro diventa il “nemico” nel momento in cui minaccia la mia “integrità territoriale”: sia essa territoriale in senso stretto, sia essa da intendersi in senso esistenziale, a tutti i livelli: socio-economico, ideologico, psicologico, affettivo. Un’identità immatura infatti cerca identificazioni nello status sociale ed economico, nei ruoli e riconoscimenti, nella realizzazione di progetti, nel successo, possesso, nel gruppo di appartenenza … e quando tutto questo vacilla, perché la Vita segue altre vie, ci troviamo sommersi dalla paura della morte, da un senso di perdita angoscioso. Una spiritualità matura dovrebbe allora aiutarci a vedere e disinnescare questi meccanismi riconoscendoli, depotenziandoli e offrendo un orizzonte di senso diverso, liberante, nonviolento e costruttore di pace. Ma non è automatico, ci è richiesto un lavoro interiore anzitutto, da cui poter irradiare attorno a noi una postura esistenziale diversa.

Il punto di partenza ci sembra che debba essere la consapevolezza, perché «Ciò che vi spetta è dentro di voi. Ma che cosa non c’è lì dentro!»[3]. Consapevolezza di essere corresponsabili delle nefandezze che vediamo quotidianamente, del fatto che la brutalità della violenza appartiene potenzialmente a ciascuno di noi, perché l’irrisolto esistenziale che ci portiamo dentro ha un suo riflesso globale.

Gesù l’Apripista

E allora guardiamo a Gesù … il quale non reagisce alla violenza subita e, cosa forse ancora più sorprendente, non recrimina e non rimprovera i suoi discepoli che l’hanno tradito e abbandonato, quando li incontra dopo la resurrezione. Gesù interrompe unilateralmente la catena della violenza e non possiamo non chiederci da dove gli venga questa forza. Poiché fare la guerra è “facile”, basta seguire gli impulsi difensivi e distruttivi che ci abitano, mentre fare pace richiede vera fortezza e novità di visione.

Quando Gesù dice: Pace a voi (cf. Lc 24,36; Gv 20,19.21), donando quella pace che evidentemente gli appartiene, lo fa in un contesto di paura, chiusura, ripiegamento su di sé e ricerca di rassicurazione nell’identità di gruppo: «mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei». Stando in mezzo (Gv 20,19) a tutto questo senza giudicare, ma con un sovrappiù di energia positiva, Gesù mostra a uomini e donne impauriti e depressi la possibilità di fare la sua stessa esperienza di riconciliazione profonda. Come un Apripista di vera umanizzazione, mostra un’identità radicata in Dio, in quel Padre e Madre da cui riceve tutto, anche la libertà interiore di potersi disidentificare dal successo della sua missione, che apparentemente fallisce, dalla comprensione e vicinanza dei suoi amici, che lo abbandonano nel momento del bisogno, dalla sua stessa aspettativa religiosa – Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mc 15,34) -, che lo costringe a ri-orientrare anche la sua spiritualità. Come forse è richiesto a noi oggi.

La portata universale dell’evangelo si radica nel cuore di un uomo che ha saputo incarnare un’alternativa, un’alternativa “rivoluzionaria”, un’alternativa eminentemente spirituale: ogni spada rinfoderata nelle nostre relazioni interpersonali quotidiane, toglie energia nera alla violenza nel mondo. Ogni atto di affidamento in Dio che ci permette di non restare attaccati alle nostre aspettative umane, troppo umane, dilata progressivamente lo spazio della pace, perché l’ombra non si elimina, ma può essere contenuta dalla luce. Il male è ammansito dal bene, la gioia cura il rancore, la speranza il dolore.

I nemici non esistono, poiché ogni violenza perpetrata contro un altro/a, sia esso umano, animale, vegetale o minerale, è una violenza auto-inferta alla nostra realtà personale universale, umano-divina, interconnessa, relazionale. Ogni separazione rompe l’Uno, ogni riconciliazione lo fa vivere: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me anche io mando voi» (Gv 20,21). Dalla pace, nella pace, per la pace.

E l’angelo disse:

rimetti

la spada

nel fodero

Maria.


[1] Cf. F. FAGGIN, Irriducibile, ed. Mondadori, Milano 2022

[2] A. COGNARD, Vivre sans ennemi, Les Éditions du Relié Gordes, 2004, p. 31 [traduzione mia]

[3] C.G. JUNG, Il libro rosso, ed. Boringhieri, Torino 2010, p. 306