L'editoriale
Un digiuno di parole
Si è concluso da poco un bel Corso in Cittadella «Laudato si’». Si è riflettuto e pregato insieme dentro la tempesta distruttiva che attraversa un mondo fuori controllo. E tucte le creature con i missili, le bombe, la macro e micro-violenza nelle relazioni, la siccità, le inondazioni, la fame, le pande-mie, avvertono la mancanza d’aria, l’asfissia da orizzonti chiusi. Le parole di Paolo Ricca, storico amico della Pro Civitate Christiana e di questa rivista, di cui abbiamo fatto memoria, ci hanno riaperto il cuore alla speranza. In primo luogo, quella fondata sulla fedeltà di Dio alla sua promessa.
Di questo i cristiani che hanno la forza e la gioia di confessarsi tali sono chiamati a dare testimonianza gestis verbisque, con azioni e parole. Senza questa ragazzina trascinante come la immagina Peguy ne «Il portico del mistero della seconda virtù», anche le due sorellone che la tengono per mano: fede e carità, finirebbero per isterilirsi, irrigidirsi, insuperbirsi, sedersi compiaciute alla prima panchina. Anche nel pensiero marxista (alzi la mano chi si ricorda la corrente calda!) si è molto parlato di Principio Speranza («Das Prinzip Hoffnung», monumentale opera di Ernst Bloch) come forza vitale che non nega la realtà ma non si arrende al già dato inaccettabile e non si chiude nella ideologica malinconia dell’adempimento. E «Progetto Speranza» si intitola un libro di Roger Garaudy pubblicato da Cittadella editrice e «Teologia della Speranza» è un’opera di Jurgen Moltmann che dialoga fecondamente con Bloch. Tutti questi autori, ad eccezione di Bloch, sono stati in questo nostro luogo di dialogo aperto e fraterno e con loro abbiamo costruito pezzi di identità della Pro Civitate Christiana e fatto di essa un crocevia di tutte quelle culture che partono dalle periferie sociali ed esistenziali per porle al centro dell’impegno ecclesiale, sociale e politico. Da tutto ciò ne dovrebbe logicamente conseguire che questo è il sentimento e il termine chiave per affrontare le asperità del nostro tempo.
Credo invece che ci siamo parole, soprattutto grandi parole, a cui in alcuni momenti sia necessario resistere. Parole (addirittura virtù teologali!) logorate dall’uso e dall’abuso, svuotate dalla retorica e dalle giaculatorie. Parole sulle quali operare una moratoria sarebbe sano e saggio. Non servono gli speranzosi, d’altronde la speranza è sempre «lacrimata speme», va sempre insieme al dolore del non ancora. Quando non è così cade nella banalità e finisce per essere alienazione. Delle tre parole che designano le tre grandi virtù quella che oggi mi suona meno appiccicosa è proprio quella che un tempo sembrava la più temeraria: fede. Forse è lei che va tirata su dalla fanghiglia spiritualista e dal pensiero debole nella sua sfrontata pretesa di verità. Dopo il collasso delle ideologie torna l’esigenza di dare gambe e idee capaci di rendere realistico un necessario cambiamento di paradigma sociale e di rifondare su basi solide il grande trittico della modernità: libertà, uguaglianza, fraternità. Tanto più in una fase nella quale liquidata, in tutte le sue forme, l’istanza socialista, ridimensionata e svuotata largamente quella democratica, ci si avvia a grandi passi a sdoganare la possibilità della guerra anche nella sua versione nucleare. Un gigantesco ritorno indietro rispetto ai grandi proclami seguiti al disastro sociale ed etico del secondo conflitto mondiale. Solo la ripresa di una solida fede nella ragione e nella sensatezza della vicenda storica dell’umano; solo la fede in un mondo orientato alla umanizzazione e non alla barbarie; solo la fiducia nella capacità delle donne e degli uomini di assumersi la responsabilità della custodia dell’esistenza e di una esistenza buona, può consentire alla speranza di non restare nello stagno delle illusioni consolatorie. In questo cammino difficile e necessario il realismo cristiano non sarà l’ultima delle sorgenti a cui attingere. Un realismo che vede il legno storto dell’umano, che conosce la fatica di un cammino di fraternità e sororità, peraltro estesa a quanti abitano con noi la terra madre e che attendono, tutti, come nelle “doglie del parto” la “manifestazione dei figli di Dio” (Rm 8,22-23); cioè, mi piace interpretare così questo passo, la manifestazione dell’umano come Dio lo sogna e Cristo lo ha vissuto.
Questo realismo dell’attesa operosa meglio di tutti ha compreso come, se manca la fraternitè, alla lunga vien meno ciò che tiene insieme, meglio ancora, ciò che fonda e giustifica libertè ed egalitè.